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Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XV

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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Parte prima - XIV Parte prima - XVI
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CAPITOLO XV.

Mio arrivo a Chiozza. — Seguito di aneddoti del reverendo Padre. — Mio viaggio a Udine. — Saggio sopra questa città e sulla provincia del Friuli.

Tremante arrivai a Chiozza col mio confessore, che aveva preso l’impegno di riconciliarmi con i miei genitori. Mio padre era a Venezia per un affare, e mia madre, vedendomi giungere, venne a ricevermi piangendo, non avendo mancato il camarlingo del collegio di avvertire innanzi la famiglia col ragguaglio della mia condotta. Non costò molto al reverendo Padre commovere il cuore di una [p. 42 modifica] tenera madre. Ella aveva spirito e fermezza, e volgendosi verso il domenicano, che la stancava, — Mio Reverendo, gli disse, se mio figlio avesse fatta una bricconata, non lo avrei più guardato; ma è reo d’inconsiderazione, onde gli perdono. — Avrebbe vivamente desiderato il mio compagno di viaggio che mio padre fosse stato in Chiozza, perchè lo presentasse al priore di San Domenico. Gli disse adunque mia madre che aspettava suo marito nella giornata; ne parve contento il reverendo Padre, e senza complimenti s’invitò a pranzo da sè stesso.

Mentre eravamo a tavola, giunge mio padre; mi alzo e vado a chiudermi nella camera accanto: egli entra, e vede un gran cappuccio: Questi, dice allora mia madre, è un religioso forestiero, che ha dimandata ospitalità — E quest’altro coperto? questa sedia? — Non si potè fare di meno di parlar di me; mia madre incomincia a piangere, il religioso predica, nè omette in tale occasione la parabola del Figliuol prodigo: mio padre era buono, e mi amava sommamente. Alle corte, mi fanno venire, ed eccomi ribenedetto. Dopo pranzo mio padre accompagnò il domenicano al suo convento. Non lo si voleva ricevere, poichè tutti i frati debbono avere una permissione in scritto dei loro superiori, la quale chiamano obbedienza, che ad essi serve di recapito e di passaporto, e questo reverendo ne aveva uno, ma vecchio e lacero da non potersi leggere, ed il suo nome non era noto. Mio padre però, che aveva del credito, lo fece nulladimeno ricevere a condizione, che vi si sarebbe trattenuto poco tempo. Finiamo l’istoria di questo buon religioso. Tenne discorso con i miei genitori sopra una reliquia, che aveva incassata in un orologio di argento; li fece genuflettere, e mostrò loro una specie di cordoncino avvolto a un fil di ferro: era un frammento di cintolo di Maria Vergine, servito ancora al suo Divin Figliuolo: l’autenticità si ratificava, secondo luì, per mezzo di un miracolo costantissimo, ed era, che gettando questo cintolo in un braciere, il fuoco rispettava la reliquia, e il cordoncino si riaveva illeso; e tuffandolo nell’olio, questo diveniva miracoloso, e produceva guarigioni meravigliose. I miei genitori avrebbero avuto molta voglia di veder questo miracolo, ma non poteva ottenersi senza preparativi e religiose ceremonie, ed in presenza di un certo numero di persone devote per la più grande edificazione, e la maggior gloria di Dio. Furono fatti molti discorsi su tal proposito; e siccome mio padre era medico delle religiose di San Francesco, seppe così ben maneggiarsi presso di esse, che si determinarono in forza delle istruzioni del domenicano a permettere che si facesse il miracolo, fissando il giorno ed il luogo ove si sarebbe eseguita la cerimonia. Il reverendo Padre frattanto si fece dare una buona provvisione d’olio, e qualche denaro per dir delle messe, avendone bisogno per viaggio. Tutto fu eseguito, ma il giorno appresso il vescovo ed il podestà, informati di una religiosa funzione che era stata fatta senza permesso, e nella quale un frate forestiero aveva ardito vestir stola, adunar gente, e vantar miracoli, procederono entrambi alla verificazione dei fatti. Il miracoloso cintolo che resisteva al fuoco non era in sostanza che filo di ferro artificiosamente accomodato per inganno degli occhi; insomma le religiose furono solennemente sgridate, e il frate sparì.

Alcuni giorni dopo, mio padre ed io partimmo per il Friuli, e passammo per Porto Gruaro, ove mia madre aveva qualche capitale nell’uffizio della Comunità. Questa piccola città, che è limitrofa al Friuli, è la residenza del vescovo di Concordia, città antichissima, [p. 43 modifica] ma quasi abbandonata per motivo della cattiv’aria. Cammin facendo, si passò il Tagliamento, ora fiume, ora torrente, e che bisogna guadare, non essendovi ponti o barche per traversarlo, e finalmente arrivammo a Udine, che è la capitale del Friuli veneziano. I viaggiatori non fanno menzione alcuna di questa provincia, che meriterebbe per altro onorevol luogo nei loro racconti. L’oblio di una regione così considerabile dell’Italia mi è sempre dispiaciuto: ne farò qualche parola io di passaggio.

Il Friuli, che si chiama ancora in Italia la Patria del Friuli, è una vastissima provincia, che dalla Marca Trevisana si estende fino alla Carintia, ed è divisa fra la Repubblica di Venezia, e gli Stati Austriaci. L’Isonzo ne fa la spartizione, e Gorizia è la capitale della parte austriaca. Non vi è provincia in Italia, ove vi sia tanta nobiltà quanta in questa. Quasi tutte le terre sono feudali, e dipendono dai rispettivi loro sovrani, ed ha inoltre il castello d’Udine una sala di parlamento nella quale gli Stati si adunano; singolar privilegio, che non esiste in verun’altra provincia dell’Italia.

Il Friuli ha sempre dati uomini grandi alle due nazioni, e ve ne sono molti alla corte di Vienna, molti nel Senato di Venezia. Esisteva in altro tempo un patriarca di Aquileia, che faceva a Udine la sua residenza, non avendo mai potuto Aquileia risorgere, da che Attila re degli Unni la saccheggiò e la rese inabitabile. Questo patriarcato è stato soppresso da poco in qua, e la sola diocesi che comprendeva l’intiera provincia, è stata divisa in due arcivescovadi, uno a Udine, l’altro a Gorizia. È benissimo tenuta nel Friuli l’agricoltura, ed i prodotti della terra, tanto in grano che in vino, sono abbondantissimi, e della miglior qualità; qui appunto si fa il Picolit, che imita tanto il Tokai, e dalle vigne d’Udine ricava Venezia una gran parte di vini necessari al consumo del pubblico. Il linguaggio friulano è particolare, ed è difficile ad intendersi quanto il genovese, anche per gl’Italiani. Pare che questo gergo si accosti molto alla lingua francese. Tutti i termini femminini, che in Italiano finiscono in a, nel Friuli terminano in e, e tutti i plurali dei due generi sono terminanti in s.

Io non so come queste desinenze francesi, unitamente ad una quantità prodigiosa di voci francesi, abbiano potuto penetrare in un paese sì lontano. È vero che Giulio Cesare passò le montagne del Friuli, le quali per questo hanno pure il nome di Alpi Giulie; ma i Romani non terminavano le loro voci femminili, nè alla francese nè alla friulana. Ciò che vi è di particolare nel comun gergo del Friuli è che chiamano la notte sera, e la sera notte. Verrebbe la tentazione di credere che il Petrarca parlasse dei Friulani allorchè disse nelle sue canzoni liriche: Gente a cui si fa notte avanti sera. Ma ci partiremmo male da questo principio per credere, che questa nazione non sia ingegnosa ed attiva al par d’ogni altra d’Italia. Vi è fra le altre cose a Udine un’accademia di belle lettere sotto il titolo delli Sventati, il cui emblema è un mulino a vento nel grembo di una valle con quest’epigrafe: Non è quaggiuso ogni vapore spento. Le lettere vi si coltivano benissimo. Vi sono artisti di molto merito, e vi si trova conversazione sommamente affabile e graziosa.

Udine, posta a ventidue leghe da Venezia, è governata da un signore veneto, che ha titolo di luogotenente, e vi è inoltre un consiglio di nobili del paese, che tengon seggio nel palazzo della città, ed adempiono alle cariche della magistratura subordinatamente.

La città è bellissima: le chiese sono ricchissimamente decorate, e le pitture di Giovanni d’Udine, scolare di Raffaello, ne fanno il [p. 44 modifica]principale ornamento. Vi è un luogo per il passeggio nel mezzo della città, sobborghi piacevoli, e contorni deliziosi. Il palazzo immenso ed i magnifici giardini di Passarean dei conti Manini, nobili veneziani, formano un soggiorno da monarca. Chiedo perdono al lettore se la digressione gli sembra un poco lunga: avevo caro di render qualche giustizia a un paese, che ne è degno per tutti i riguardi.