Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XIV

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XIV

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO XIV

Viaggio malinconico. — Miei disegni andati a vuoto. — Incontro singolare.

Stavo nella mia solitudine oppresso dalla tristezza, circondato da oggetti che mi tormentavano senza posa, e pieno di disegni che si succedevano gli uni agli altri. Avevo sempre avanti gli occhi il torto che io aveva fatto a me stesso, e l’ingiustizia che avea commessa contro gli altri; e quest’ultima riflessione mi faceva una sensazione anche maggiore della sciagura che avevo meritata. Se dopo sessant’anni rimane ancora a Pavia qualche memoria della mia persona e della mia imprudenza, ne domando perdono a coloro che io avessi offesi, assicurandoli, che ne fui punito abbastanza, e credo espiato ormai il mio fallo. Mentr’ero riconcentrato nei miei rimorsi e nelle mie riflessioni, mi giunge una lettera di mio padre. Terribile aumento di cordoglio e di disperazione! Eccola:

«Vorrei, mio caro figlio, che quest’anno tu potessi passar le vacanze a Milano. Mi sono impegnato di andare a Udine nel Friuli veneziano per intraprendere una cura, che potrebbe riuscir lunga, nè so se nel tempo medesimo, o in appresso, io sia per essere obbligato a portarmi nel Friuli austriaco per curare altra persona che ha l’istessa malattia. Scriverò al signor marchese, rammemorandogli le generose esibizioni a noi fatte; procura però dal canto tuo di esser sempre meritevole delle buone grazie di lui. Tu mi avvisi di dover quanto prima sostener la tua tesi, cerca di cavartene con onore. Questo è il mezzo di piacere al tuo protettore, e di arrecare la maggior contentezza a tuo padre e a tua madre che ti amano di cuore ecc.».

Questa lettera terminò di colmare il mio avvilimento: come, io diceva a me stesso, come ardirai tu di comparire in faccia ai tuoi genitori, ricoperto di vergogna e del disprezzo universale? Paventavo a segno questo terribile momento, che fresco ancor di una mancanza, ne meditavo un’altra, che poteva compiere la mia rovina.

No, che non sarà possibile, che io mi esponga ai rimproveri tanto più dolorosi, quanto più meritati: no, che non mi presenterò alla irritata mia famiglia: Chiozza non mi rivedrà mai più, andrò in tutt’altro luogo; voglio andar vagando, per tentar fortuna, riparare il mio sbaglio, o perire. Sì, andrò a Roma: là forse vi ritroverò quel buon amico di mio padre, da cui ha ricevuto tanto bene, [p. 40 modifica] e che non mi abbandonerà. Ah! se io potessi diventare scolare di Gravina, l’uomo più istruito nelle belle lettere, e più dotto nell’arte drammatica... Oh Dio! se prendesse affetto per me come fece per Metastasio! non ho forse, io pure, disposizioni ed ingegno? Sì: a Roma, a Roma. Ma come farò io ad andarvi? Avrò danaro che basti?... Andrò a piedi... a piedi?... Sì: a piedi. E il mio baule, e le mie robe? Vadano al diavolo il baule e le robe. Quattro camicie, calze, golette e berretti da notte, ecco il bisognevole. — Vaneggiando in tal guisa ed in tal modo farneticando, empio una valigia di biancheria, la pongo in fondo al baule, e la destino ad accompagnarmi a Roma. Siccome dovevo andarmene speditamente, scrissi al camerlingo del collegio per aver danaro: mi rispose che non aveva più in mano verun capitale di mio padre, che peraltro il mio viaggio per acqua, ed il mio trattamento sarebbero stati pagati sino a Chiozza, e che il provvisioniere del collegio mi avrebbe dato un piccolo involto, di cui mio padre gli avrebbe reso conto.

Il giorno appresso allo spuntar dell’alba sono cercato con una carrozza: si carica il mio baule, ed il provvisioniere vi sale meco: arriviamo al Tesino, entriamo in un piccolo battello, ed andiamo là dove questo fiume mette foce nel Po ad incontrare un’ampia e cattiva barca carica di sale. Son consegnato dal mio conduttore al padrone della medesima, cui parla all’orecchio, quindi mi dà un piccolo involto per parte del camarlingo del collegio, mi saluta, mi augura buon viaggio, e mi lascia. La mia maggior premura è di esaminare il piccolo tesoretto. Apro l’involto. Oh cielo! qual piacevole stupore per me! Vi trovo quarantadue zecchini fiorentini (venti luigi all’incirca). Buoni per andar a Roma! Farò dunque il viaggio per la posta e col mio bagaglio. Ma come mai il camarlingo, che non aveva capitale alcuno di mio padre, mi ha potuto affidare tal danaro? Nel tempo che facevo queste riflessioni, e mille dilettevoli disegni, torna indietro col suo battello il provvisioniere. Aveva preso sbaglio; questo era danaro del collegio, e doveva esser pagato a un mercante di legname: riprese dunque il suo gruppo, e mi lasciò trenta paoli, che formano il valore di quindici franchi. Eccomi abbastanza ricco: per andare a Chiozza non mi occorreva danaro, ma per andare a Roma? I zecchini, che avevo avuti in mano, mi facevano sempre più girar la testa: bisognava però consolarsene, e ritornar di nuovo al disgustoso compenso del pellegrinaggio. Avevo il letto sotto la prua, ed il baule presso di me: desinavo e cenavo col mio ospite, ch’era il conduttore della barca, da cui mi venivano fatti racconti da dormire in piedi. Dopo due giorni arrivammo a Piacenza, dove il padrone vi aveva qualche affare; prese dunque terra, e vi si fermò. Credei allora giunto il momento a proposito per andarmene: prendo meco la valigia, e dico al mio uomo, che avendo commissione di farla recapitare al consiglier Barilli mi prevalevo dell’opportunità. Il manigoldo m’impedisce di uscire; aveva già avuto ordine espresso di impedirmelo, e siccome persistevo nel mio volere, egli minacciò di ricorrere al braccio del governo per ritenermi. Bisogna cedere alla forza, morir di spasimo, andare a Chiozza, o gettarsi nel Po. Rientro nel mio bugigattolo; le disgrazie non mi avevano ancor fatto piangere, ma questa volta io piansi. La sera mi si chiama a cena, ed io ricuso di andarvi: pochi minuti dopo sento una voce ignota, che in tono patetico pronunzia queste parole Deo gratias. Ancora ci si vedeva bastantemente: guardo per una fessura a traverso alla porta, e veggo un religioso che viene alla mia volta; apro l’uscio ed egli entra. [p. 41 modifica]

Era un domenicano di Palermo, fratello di un famoso gesuita rinomatissimo predicatore; si era imbarcato a Piacenza quell’istesso giorno, dirigendosi a Chiozza come me. Sapeva le mie avventure, che il padrone della barca lo aveva messo al fatto di tutto, e veniva ad offrirmi quelle spirituali e temporali consolazioni, che il suo stato lo poneva in diritto di propormi, e delle quali pareva aver bisogno la mia condizione. Avea nel suo discorso molta dolcezza e molta unzione, e mi parve che gli cadesse qualche lacrima; vidi almeno che avvicinava agli occhi il fazzoletto: mi sentii commosso, e mi abbandonai del tutto alla sua pietà. Intanto il padrone ci fece dire ch’eravamo aspettati; il reverendo non avrebbe voluto perdere la cena, ma vedendomi penetrato di compunzione, fece pregare il padrone di volere attendere qualche momento; indi a me rivolto, mi abbraccia, piange, e mi fa vedere ch’ero in uno stato pericoloso; e che il nemico infernale poteva di me impadronirsi, e trascinarmi in un abisso eterno. Sottoposto, come ho già detto, ad alcuni assalti d’ipocondria, mi trovavo in uno stato da far pietà. Accortosene il mio esorcista, mi propone di confessarmi, ed io mi getto ai suoi piedi: — Benedetto sia Dio, egli dice, fate intanto, figlio caro, la preparazione, io torno subito — e se ne va a cena senza me. Resto in ginocchio, e fo l’esame di coscienza: in capo ad una mezz’ora torna il Padre con una bugia in mano, e si pone a sedere sopra il mio baule: io dico il Confiteor, dando principio alla mia confessione generale con dovuta attrizione e sufficiente contrizione. Si trattava della penitenza: consisteva il primo punto nel risarcire il torto fatto a quelle famiglie, contro le quali avevo lanciati i satirici miei dardi. — Come fare presentemente? — Dovendo voi aspettare, dice il Reverendo, di essere in istato di ritrattarvi, non vi è frattanto che l’elemosina, che possa calmare lo sdegno d’iddio, poichè l’elemosina è la primaria opera meritoria, che scancelli il peccato. — Sì, Padre mio, lo farò. — No signore, replicò egli, il sacrifizio bisogna farlo nell’atto. — Ma io non ho che trenta paoli. — E bene, figlio mio, spogliandosi del danaro che uno ha, si acquista molto maggior merito. — Trassi allora di tasca i miei trenta paoli, e pregai il mio confessore d’incaricarsi di dispensarli ai poveri: accettò volentieri, e mi diede l’assoluzione. Volevo continuare, avendo alcune cose da dire, delle quali credevo di essermi dimenticato, ma il reverendo Padre cascava di sonno, e chiudeva gli occhi ad ogni poco: mi disse bensì, che stessi quieto, mi prese per la mano, mi diede la benedizione, ed andò subito a letto. Restammo per viaggio otto giorni: ogni dì avrei voluto confessarmi, ma non avevo più denaro per la penitenza.