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Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/XLVI

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XLVI

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
XLVI
Parte seconda - XLV Parte terza

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CAPITOLO XLVI.

Mia partenza da Venezia. — Mia malattia a Bologna. — Presentazione delle mie Opere alla corte di Parma ed a quella della Langravia di Armstadt. — Visita dei nostri parenti a Genova. — Mio imbarco col corriere di Francia. — Pericolo per mare. — Questione curiosa. — Mio sbarco a Nizza. — Passaggio del Varo. — Arrivo in Francia.

Dopo la mia ultima commedia, e i complimenti di congedo da me fatti al pubblico, ad altro non pensai se non ai preparativi della mia partenza. Cominciai dall’assestamento della famiglia. Mia madre era morta, e mia zia andò a convivere con i suoi parenti. Cedetti al fratello tutto ciò che avevamo di rendita, misi in convento la figlia di lui, e destinai il nipote a seguirmi in Francia. Era bensì necessario qualcuno in Venezia che avesse cura della mia nipote, di cui mi ero incaricato. Non v’era da contar sul suo genitore, perchè militare. Ebbe pertanto la compiacenza di accettarne in vece mia l’incarico un amico, e questo fu il signor Giovanni Cornet, fratello minore del signor Gabriello Cornet, ambedue negozianti veneti e originari di Francia. Non sto qui a far parola del merito di questa degna e rispettabile famiglia, poichè ella è nota pel suo credito in commercio, non meno che per la sua probità. Era uscito allora di torchio il secondo volume delle mie Opere, delle quali avevo già cominciato l’edizione in Venezia: il numero degli associati era grande, e non potevo tornare addietro. Somministrai dunque i materiali bastanti per la continuazione. Il signor conte Gasparo Gozzi s’incaricò della correzione delle stampe, e l’illustre senatore Niccolò Balbi mi accertò della sua protezione; e siccome il signor Pasquali era uno stampatore onesto e stimato, nulla perciò avevo da temere riguardo all’esecuzione. Insomma partii da Venezia con mia moglie e mio nipote al principio del mese di aprile dell’anno 1761. Arrivato a Bologna, subito mi ammalai; nulladimeno mi si fece fare per forza un’opera buffa. Essa risentiva della mia febbre; ma per buona sorte toccò a lei sola morire. Ristabilito in salute, ripresi tosto il viaggio e passai per Modena, ove rinnovai al mio notaro la carta di procura riguardante la cessione da me già fatta al fratello, e partii per Parma il giorno dopo. Mi trattenni in questa città otto giorni piacevolmente; e siccome avevo dedicata la nuova edizione del mio Teatro all’Infante don Filippo, ebbi perciò l’onore di presentarne al medesimo i due primi volumi, e baciai la mano alle loro Altezze Reali. Vidi in tale occasione per la prima volta l’Infante don Ferdinando, allora principe ereditario, ora duca regnante, che si degnò parlarmi, augurandomi il buon viaggio in Francia. — Siete (ei mi disse) molto fortunato, poichè tra poco vedrete il re mio nonno. — Dalla dolce affabilità di questo principe presagii il futuro bene de’ suoi sudditi, nè m’ingannai. L’Infante don Ferdinando infatti è la delizia de’ suoi popoli, e l’augusta arciduchessa consorte dà il compimento alla pubblica felicità, non meno che alla gloria del suo governo. In questa occasione appunto ritornai in amicizia, dopo tre anni di discordia, con l’abate Frugoni. Questo nuovo Petrarca [p. 265 modifica] aveva egli pure la sua Laura a Venezia, onde cantava da lungi le grazie e le doti intellettuali della bella Aurisbe Tarsense, pastorella arcade, dalla quale andavo ogni giorno. Il Frugoni, di me geloso, non aveva rincrescimento della mia partenza. Avevo anche da presentare alcuni libri a S. A. S. la principessa Enrichetta di Modena, vedova duchessa di Parma e in ultimo Landgravia d’Armstadt. Questa principessa, che risedeva al Borgo San Donnino tra Parma e Piacenza, si trovava allora a Corte Maggiore sua villa. Deviai alcune miglia, per avere l’onore d’ossequiarla; fui benissimo accolto, benissimo alloggiato tanto io come tutta la mia gente, e vi passammo tre giornate deliziosamente. Alcune dame ed alcuni cortigiani, che recitavano le mie commedie sul teatro della Landgravia, avrebbero voluto darmi un piccolo divertimento: ma il caldo era eccessivo, ed io doveva partire per Piacenza. Giunto in questa città fummo colmati di nuove garbatezze e di nuovi piaceri. Il marchese Casati, uno de’ miei soscrittori, ci attendeva con impazienza, e nella sua casa trovammo quanto può mai desiderarsi di dilettevole: bel quartiere, sontuoso trattamento, amabile compagnia. La signora marchesa poi, e la sua nipote ci procurarono tutti i passatempi possibili; onde ci restammo quattro giorni: non volevano in alcun modo lasciarci venir via; ma avendo perduto troppo tempo ed essendo già tre mesi che eravamo usciti da Venezia, malgrado un caldo insoffribile convenne partire. Appunto in Piacenza dovevo sceglier la strada per passare in Francia; ma siccome mia moglie desiderava vivamente di rivedere i suoi parenti prima di lasciar l’Italia, preferii adunque per contentarla, la strada di Genova a quella di Torino. Passammo otto giorni molto allegramente nella patria della mia sposa: onde nell’istante della nostra partenza i pianti ed i singulti non ebbero mai fine. Si rendeva tanto più dolorosa la nostra separazione, in quanto che i nostri parenti disperavano di più rivederci. Promettevo, è vero, di ritornare a capo a due anni, ma essi non lo credevano; insomma, fra gli addii, gli abbracciamenti, i pianti, i gridi, imbarcammo nella filuga del corriere di Francia, e si fece vela verso Antibo, costeggiando sempre quelle piaggie chiamate dagl’Italiani Riviera di Genova. Un uragano però ci discostò dalla rada, e poco mancò che non fossimo sommersi nel passare il capo di Noli. Diminuì per altro il mio spavento una bella scena avvenuta in quel frattempo. Trovavasi nella filuga un Provinciale carmelitano, da cui storpiavasi l’italiano nel modo stesso che da me si scorticava il francese. Questo frate davasi in preda al maggiore spavento ogni qualvolta vedeva venire da lungi una di quelle montagne d’acqua che minacciavano di sommergerci. Gridava allora a gola aperta: la voilà, la voilà; e siccome in italiano si dice la vela per dire in francese la voile, credetti che il carmelitano pretendesse che i marinai raddoppiassero le vele, e perciò volevo fargli conoscere l’errore in cui era, ma egli sosteneva intrepidamente che quanto da me dicevasi non aveva senso comune. Nel tempo pertanto di tale controversia si passò felicemente il Capo, ed entrammo in rada. Allora soltanto riconobbi il mio torto, ed ebbi la schiettezza di confessare da me stesso la mia ignoranza.

Questa burrasca c’impedì la continuazione del viaggio, ed il corriere che non poteva fermarsi, prese il cammino di terra a cavallo, esponendosi ad attraversar montagne molto più pericolose del mare. Non fu possibile prender nuovamente imbarco che dopo quarantott’ore; ma siccome il mare era tuttavia in tempesta, presi terra a Nizza, ove le strade erano almeno praticabili. Lasciai la filuga, e [p. 266 modifica]feci cercare una vettura. Ne fu trovata casualmente una giunta appunto il giorno precedente, e questa era una berlina, che aveva portato a Nizza la famosa signora Deschamps, scappata dalle carceri di Lione. Mi fu fatta l’istoria di una parte delle sue avventure, ed andai a dormire nella camera ch’erale stata destinata, ma ch’essa rifiutò per motivo di una cimice che aveva veduta nell’entrarvi. Trovai comodissima la vettura preparatami, e fissai il prezzo per Lione a condizione di andare a Marsiglia, e trattenermivi qualche giorno. Siccome il vetturino era di quel Paese, non vi fu difficoltà nelle nostre convenzioni. Insomma partii da Nizza il giorno seguente: attraversai il Varo che separa la Francia dall’Italia, e rinnovai gli addii col mio paese, invocando l’ombra di Molière, perchè felicemente mi guidasse nel suo.