Memorie inutili/Parte prima/Capitolo VII

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Capitolo VII

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CAPITOLO VII

Prova che la poesia non è arte inutile, come si crede comunemente.

Convien dire che la mia debolezza per la poesia e per l’eloquenza italiana fosse grande.

Nell’armata veneta, e specialmente nella Dalmazia, erano pochi e molto cattivi gli scrittori ne’ detti generi. Scriveva e leggeva le mie fantasie da me medesimo, senza cercare quella compiacenza di cui vanno in traccia come bracchetti gli scrittori nel leggere altrui le operette loro per sentirsi lodare o adulare, ma soprattutto per seccare de’ diretani e de’ genitali, presumendo di ricreare de’ cervelli e de’ cuori.

Il signor secretario del generalato, Giovanni Colombo, che ebbe poscia un onore non disgiunto da una sciagura, raddolcita però da una magnifica pompa funebre, cioè di morire gran cancelliere della nostra repubblica serenissima, aveva qualche diletto delle belle lettere. Questo signore d’animo soave e d’indole gioviale, che aveva notizia della epidemia poetica della mia famiglia, mi stimolava a leggergli qualche cosa, e sembrava ascoltatore contento, aveva seco recata una picciola ma scelta libreria, e mi forniva cortesemente di que’ libri che a me mancavano.

I miei versi, per lo piú urbanamente satirici, e pitture discretamente vivaci di caratteri, frutti d’una pontuale osservazione filosofica sull’umano genere dell’uno e dell’altro sesso, erano palesi al signor secretario, al signor Massimo ed a me soltanto.

La cittá di Zara volle dare un segno di venerazione al nostro provveditor generale Quirini, e fu edificata per un sol giorno solenne nel prato del Forte una gran sala di legnami, addobbata di bei damaschi, e furono dispensati a molte persone de’ viglietti d’invito per radunare un’accademia, nella giornata prefissa, di prosatori e di verseggiatori. [p. 63 modifica]

Ogni accademico invitato doveva recitare due composizioni in prosa o in verso a piacere. Ne’ viglietti erano notati il primo e il secondo tema da trattarsi. Ecco il primo: «Se sia piú lodevole il principe che serba, difende e coltiva i propri stati nella pace, o sia piú lodevole quello che cerca di conquistare de’ nuovi stati coll’armi, per dilatare il dominio suo». Ecco il secondo: «Una composizione in lode del provveditore generale».

Un vecchio nobile della cittá, detto il signor dottore Giovanni Pellegrini, avvocato fiscale, vestito a velluto nero con una gran parrucca bionda raggruppata, letterato molto eloquente sullo stile del padre Casimiro Frescot e del Tesauro, era il capo accademico e dispensatore degli inviti.

A me non fu dato cotesto invito. Ciò prova ch’io ero un ignoto dilettante di belle lettere, e può anche provare che il signor Pellegrini assennato e gravissimo mi credesse ragionevolmente ragazzo non degno d’essere considerato, trattandosi d’una impresa ch’egli conduceva colla maggior serietá illirica italianata.

Li signori Colombo e Massimo m’eccitavano ad apparecchiare due composizioni sui temi proposti e sparsi per la gran giornata prefissa; ma io ricusava di fare una tale comparsa, e per non avere avuto l’invito e per umiltá.

Tuttavia volli divertirmi occultamente e abortire due sonetti, l’uno sul primo, l’altro sul secondo argomento; ma, risoluto di non fare alcun uso di quelli, gli aveva seppelliti nel fondo d’una scarsella. Si deve credere ch’io lodassi col primo la pace, e che il secondo fosse un elogio felice o infelice all’Eccellenza sua.

Il provveditor generale, accompagnato dagli uffiziali e da’ maggiori di quella cittá, entrò nella sala casotto e si assise in un ricco sedile al quale si saliva per molti gradini, e uno stormo, non so da dove uscito, di letterati, andava posando i loro terghi eruditi in alcuni seggioloni, che formavano un semicircolo.

Aveva veduti fuori dal casotto indamascato de’ servi affaccendati, che apparecchiavano de’ rinfreschi acquatici, e una gran sete mi molestava. [p. 64 modifica]

Credei cosa lecita l’andar a chiedere in cortesia una limonata a que’ servi per dissetarmi, ed era da mal consiglio ingannato. Mi si rispose che, per un preciso comando, l’atto della misericordia di dar bere agli assetati era riservato per special privilegio verso agli accademici soltanto.

Questa sgarbata risposta data al sitio di molti uffiziali aveva accesa una muta turbolenza. Mi vergognai di ricevere una negativa tanto increata e mi determinai in sul fatto con viso franco a dichiararmi accademico, per non sofferire rossore e per espugnare una limonata col titolo di poeta e con due sonetti, che era inespugnabile col titolo d’uffiziale e colle armi.

Quest’accidente ha riconfermata nell’animo mio l’opinione dell’utilitá della poesia contro l’universale parere che la considera inutile. Ella m’ha soccorso d’una limonata e m’ha difeso dal crepare di sete.

Colla limonata e co’ miei due sonetti benemeriti in corpo, corsi arditamente ad occupare uno de’ seggioloni dell'assemblea, la quale si sorprese alla mia comparsa, ma ebbe la bontá di sorpassare.

Risuonò l’aere per tre ore di lunghe dissertazioni ampollose erudite e di carmi poco soavi. Qualche generalizio sbadiglio onorava di quando in quando l’accademia e gli accademici. Non posso dire tuttavia che non sieno giunti agli orecchi miei delle composizioni tollerabili e non attese da’ miei maliziosi timori. Un certo abatino dall’ostia trapelò del genio poetico. Mi si dice ch’egli è ora divenuto vescovo. Chi sa che la poesia non sia stata utile a fargli avere una mitra, come fu utile a me nella limonata.

Tuonai anch’io nell’accademia col mio sonetto che sostenne il principe pacifico piú che il conquistatore, un di presso co’ sentimenti dell’epistola di Boelò diretta al suo re Luigi decimoquarto, e coll’altro sonetto in lode del nostro provveditor generale Quirini.

Quest’ultimo sonetto ebbe la sorte febea di piacere assai all’E. S. e all’universale per conseguenza; egli mi stabilí poeta nelle opinioni zaratine. Fece poi nascere una scena comica due giorni dopo. [p. 65 modifica]

Il provveditor generale si divertiva spesso sull’ore fresche a correre a cavallo, quando quattro quando sei miglia fuori della cittá, e una truppa d’uffiziali gli facevano codazzo cavalcando dietro all’orme sue. Tra questi correva anch’io.

Cavalcando per tal modo un giorno, venne brama all’E. S. di sentire nuovamente il mio sonetto in sua lode, ch’era divenuto famoso, come spesso si vedono divenir circolari in copia e famose delle inezie per le sole circostanze che le avvalorano.

Il cavaliere mi chiamò altamente; spronai il cavallo per appressarmegli, ed egli senza punto rallentare il gualoppo, mi comandò di recitargli quel sonetto. Non credo che sia stato recitato un sonetto in una maniera simile a quella ch’io dovei prendere, dalla creazione del mondo a quel punto.

Gualoppando dietro a quel signore, sparando quasi il polmone per farmi udire, con tutti i trilli, le aspirazioni, le cadenze, i semituoni, le smozzicature e le dissonanze che può cagionare lo scuotimento niente accademico d’un cavallo in corso, recitai quel sonetto che parve di singulti, e ringraziai il Cielo, cacciato ch’ebbi fuori il quattordicesimo verso.

Parvemi d’intendere, conoscendo molto bene quel cavaliere, sostenuto e terribile nelle cose importanti, ma bizzarro in alcuni momenti dello spassarsi, ch’egli abbia voluto per quella via stimolare il solletico alle sue risa. Credo di non aver preso errore, e solo può essersi egli ingannato, se ebbe speranza di ridere piú di me sopra a quel caso.

Dubitai tuttavia d’essere stato oggetto di riso alla comitiva cavalcatrice. Dubbio folle. Que’ signori, cortigiani dabbene, mi giudicarono unanimi prediletto, distinto ed onorato pubblicamente dall’E. S. ed ebbero invidia d’una scena arlecchinesca ch’io aveva sostenuta, e ch’essi non avevano avuta la fortuna di rappresentare in mio luogo.