Memorie inutili/Parte prima/Capitolo VI
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CAPITOLO VI
Breve studio di fortificazione e di militari esercizi.
Mie riflessioni, che saranno giudicate follie.
Terminata la mia convalescenza, fui raccomandato da S. E. Provveditor generale al tenente colonnello degl’ingegneri, Marchiori, perch’io studiassi la matematica relativa alla fortificazione.
Quel cavaliere mi chiamò a sé e mi disse che aveva avuta notizia dal mio zio della mia inclinazione all’applicare, e che m’apriva la via ad uno studio utilissimo a chi vuol fare il soldato. Mi vidi in ciò distinto dagli altri venturieri, e conobbi piú espressamente che la dimenticanza dimostrata dall’E. S. al suo imbarco, di noi cortigiani e del nostro nome, non era stata che una politica finzione per abbassare gli orgogli.
Lo ringraziai umilmente e, senza abbandonare punto né poco i miei primi affetti alla poesia e all’eloquenza italiana, m’adattai con piacere anche agl’insegnamenti del signor tenente colonnello degl’ingegneri Marchiori.
Il mio grave maestro m’interrogò sull’aritmetica, della quale non aveva che de’ principi; e siccome intesi benissimo da’ suoi ricordi che il saperla fondatamente e francamente era cosa indispensabile alla scuola che intraprendeva, mi posi a studiarla con tutta la testa fredda che si richiede a quello studio, e nel giro di un mese fui piú dotto abachista d’un usuraio; quindi incominciai ad ascoltare attento e ad eseguire i dettami del signor maestro ingegnere.
L’amico mio signor Innocenzio Massimo, ch’era stato un lungo tempo discepolo del rinomato matematico nell’universitá di Padova, signor marchese Poleni, oltre a’ compassi, alle squadre, alle regole e agli altri ordigni occorrenti al disegno, possedeva molti ottimi libri francesi, che trattavano di geometria, di matematica e di fortificazione, e mi forní liberalmente di quanto aveva in possesso.
Tra le lezioni del signor Marchiori, i discorsi scolastici che teneva col signor Massimo, Euclide, Archimede e i libri francesi che leggeva sprofondato, nuotava ne’ punti, nelle linee, nelle figure e ne’ calcoli, ed era fornitissimo di quell’entusiasmo alla mia lente faceto, che hanno tutti i studenti di quella scienza.
Non mi ridussi però giammai, come quelli, a tenere per inutilitá e frivolezze gli studi della morale salubre e quelli delle belle lettere ricreatrici e umanizzatrici.
Mi ricordava le buone ragioni per le quali, a’ giorni suoi, Vespasiano imperatore aveva sbanditi i matematici, che s’offerivano a’ suoi grand’edifizi.
Sapeva che una infinitá di vascelli e di grosse navi, parti di questa scienza, perivano miseramente nelle procelle; che cento fortezze capidopera di questa scienza, erano da questa scienza medesima desolate, distrutte e prese; che delle inondazioni rovesciavano continuamente col guasto delle sostanze di mezzo milione di viventi, degli argini costruiti da questa scienza, e che la causa di queste medesime inondazioni rovinose erano state dell’opere industri e mirabili anteriori di questa scienza; che ad onta di questa scienza creatrice le fabbriche sue creature non potevano difendersi da’ terremoti, dagl’incendi, né da’ fulmini, salva ragione a’ conduttori del signor professore Toaldo, che verrá loro fatta non so quando.
Oltre a ciò, siccome era franco nell’aritmetica, senza valermi dell’algebra de’ grand’uomini, faceva de’ conteggi onorati in sui beni, in sui mali, e sugli oggetti superflui che dá questa scienza all’umanitá.
Errava forse nel sommare, ma lasciando da un canto gli oggetti superflui e disutili, trovava la somma de’ mali infinitamente superiore alla somma de’ beni.
M’inorridivano cento e piú mila uomini ammazzati e affogati ingegnosamente nelle battaglie e nelle navigazioni, alle quali questa gran madre prestava tutta la sua dotta assistenza, e mi piaceva però il rilevare in un orologio di lei figlio, l’ora di andare a pranzo, a cena, a letto, piú che quella di andare da un avvocato.
Il favellare delle cose superflue, che dona agli uomini questa scienza, è uffizio della morale, scienza da me, con somma balordaggine, risolutamente considerata piú utile di tutte le altre al genere umano.
Nella costituzione a cui fu ridotto il mappamondo ne’ suoi quattro elementi dagli uomini piú cattivi ingegnosi, le scuole, le catedre e le accademie di alcune scienze protette, premiate e stipendiate da principi, sono riveribili e rispettabili.
Fortunati per ciò gl’illustri scientifici maestri e discepoli giovevoli alla misera umanitá, che aspirano a de’ stipendi e a delle pensioni per beneficare i mortali co’ loro lumi e la loro sapienza. Io che, forse stoltamente pensando, né volli giammai pescare onorari, né scontentarmi di ciò che naturalmente possiedo, facendo loro de’ rispettosi inchini, non posso però trattenere la voce del mio cuore sugli effetti de’ loro licei, a tale ch’ella non dica basso: — Gian Iacopo Russò ha di molti torti, ma non tutti quelli che se gli addossano.
Seguendo i precetti della morale, ho spesso occasione di adoperarli anche verso i scientifici mio prossimo.
Il riparto de’ stipendi fa sempre piangere, ridere e mormorare questi signori. Esercito l’animo mio ad aver piacere del bene che vien conferito agli uni, e ad aver dispiacere delle difficoltá che trovano gli altri a vincere il bene preteso nelle loro assidue circuizioni scientifiche.
Non esamino se quel bene che fu conferito sia stato conferito con discernimento e giustizia, o con cecitá ed ingiustizia; se la forza de’ vezzi d’una femmina o quella de’ vezzi d’una borsa o gli effetti della ignoranza o quelli del timore d’una violenza abbiano relazione co’ riparti de’ beni a’ scienziati, per non trovare degli argomenti da alterare la mia morale.
Nel giro di circa otto lune del mio studio, disegnando, ricopiando, calcolando e passeggiando quasi ogni giorno le mura della cittá di Zara e del di lei forte col signor Massimo intelligente, esaminando le fortificazioni apprezzate, era giunto a comprendere la ragione di tutti gli edifizi suggeriti dalla morte alla illuminata natura umana per la distruzione degli uomini assaliti ed assalitori.
Il mio genio pacifico e risibile traeva da quegli studi de’ frutti niente truci, anzi mansuetissimi.
Vivevamo in societá io e il signor Massimo, ed avevamo preso allora a pigione un casino posto in sulle mura dalla parte che guarda al mare ed a’ scogli. Il sole facendo il suo corso percuoteva da un lato o dall’altro, girando, quella abitazione sino al suo tramontare. Non v’era facciata né piano di finestra di quell’albergo, sopra cui non avessi lineati e stabiliti degli orologi da sole di varie figure esattissimi, co’ lor motti morali inutilissimi.
Un tenente detto Giovanni Apergi, uomo di somma probitá, assai divoto verso al Cielo, massime quand’era assalito dai dolori nelle giunture acquistati dall’essere stato assai divoto verso il mondo, si prese amichevolmente la briga di insegnarmi gli esercizi militari del fucile, della picca e della bandiera, che furono da me appresi in breve tempo, e sudava una camicia ogni giorno nel giuoco di scherma col signor Massimo, ammaestrato e feroce in quest’arte diabolicamente nobile.
Eravamo occupati egli ed io alcune ore del giorno sopra un suo gran scacchiere carico di soldatuzzi di legno movibili, e formando de’ squadroni in battaglia studiavamo tutte le mozioni e le posture piú vantaggiose per essere ammazzati con parsimonia, per ammazzare con prodigalitá e per acquistarsi del merito in ben concimare de’ cimiteri.
Giá era soldato per metá e disposto a seguitare gli studi per divenire un soldato intero, ma risoluto nell’animo mio di abbandonare l’armata al termine del triennio intrapreso.
Un anno di osservazioni m’aveva abbastanza svelata l’indole d’una societá, che quantunque avesse alcuni pochi individui dabbene, era però affatto contraria nel maggior numero in cui viene considerata, all’istinto mio; e un cervello incapace di dar ricetto al verme dell’ambizione e un cuore alieno dalle brame d’uffizi e di lucri, mi persuasero agevolmente ad un tale abbandono. La mia resistenza in quel triennio, non fu altro che un riguardo di non dar luogo alle derisioni, di non farmi giudicare volubile e leggero da’ miei congiunti, a’ quali averei voluto un giorno giovare co’ miei suggerimenti, col mio credito e coll’esempio della mia perseveranza. Il mio lettor è però in piena libertá di considerare la mia resistenza di tre anni, piú un’ostinazione mal sostenuta che un riguardo.
Scorsi otto mesi di scuola di fortificazione, un’atrabile mi involò il mio povero maestro tenente colonnello Marchiori in pochissime ore. Egli aveva ottenuta una compagnia vacante nel reggimento di fanti italiani appellato «Lagarde», pochi giorni prima, in competenza col capitan tenente del reggimento medesimo.
Essendo egli uno di que’ uffiziali riformati col privilegio di aspettativa e con poco onorario, scortato da’ suoi titoli e da’ suoi diritti, vinse la compagnia in concorrenza, e sperando di vivere piú agiatamente ebbe la morte dalla sua stessa vittoria.
Alcune parole pungenti l’animo suo delicato sul trionfo ottenuto, delle quali fu impossibile il vendicarsi, risvegliarono tanti veleni nel di lui interno, che gli fecero abbandonare la vita e la compagnia conquistata. A quest’evento i miei riflessi morali fecero un viaggio assai lungo.
Il Marchiori era onest’uomo, la sua morte fu compianta da tutti, dolse insino a chi era stato la cagione, credo anche al capitan tenente ch’ebbe tosto la compagnia combattuta, ma scommetterei che il dispiacere degli altri non fu maggiore del mio. La sua sofferenza, la sua affabilitá, la sua dolcezza usate con me, piú come amico che come maestro, mi restarono fitte nella fantasia e tennero in me la mestizia viva per lungo tempo.
Grado grado mi raffreddai ne’ miei disegni geometrici, mi riaccesi ne’ miei primi studi e senza mancare alle guardie e agli altri doveri della mia ispezione, attendeva il termine del mio triennio, a cui mancava ancor molto, per cangiar vita.