Memorie inutili/Parte seconda/Capitolo XI

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Capitolo XI

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CAPITOLO XI

Un cuor facile va sopravia alle riflessioni della prudenza.

Seguo a dire di me e della comica Ricci.

Se le espressioni di riconoscenza verso a me della comica compagnia relative al grand’utile che le aveva cagionato la Principessa filosofa erano grandi, non erano minori le espressioni della giovine Ricci, che mostrava di conoscere dal mio puntiglio, dalla mia direzione e dalla mia buona amicizia il suo innalzamento alla pubblica grazia e la sconfitta de’ suoi nimici.

Ella proccurava di cattivarsi con delle maniere affabili la continuazione della mia assistenza. Le mie visite frequenti erano da lei bramate, proccurate e accettate con un’apparente cordialitá.

Sembrava a lei d’avere il colosso di Rodi per appoggio nelle mie visite giornaliere. Non temeva piú i suoi persecutori e sperava di avere de’ vantaggi di conseguenza dalla compagnia, se avessi dimostrato per lei una palese anzi solenne parzialitá.

Non conosceva ella lo spirito vero de’ suoi compagni; non conosceva i miei veri sistemi né il mio temperamento, e ciò ch’era cosa peggiore, ella non conosceva se medesima.

Una aperta mia parzialitá per lei la faceva odiare e perseguitare maggiormente dalle altre attrici nonché da’ direttori della societá comica, i quali, dominati sempre dall’idea dell’interesse, si sarebbero creduti, per un certo riguardo dell’interesse medesimo, sforzatamente in necessitá, per non disgustarmi, di condiscendere a tutte le di lei pretese di stipendio, di puntigli, di contraddizioni nella sua ispezione, e a cento femminili capricci.

Io era affatto alieno dal fare il protettore orgoglioso e minaccevole con de’ comici per un’attrice; e molte delle mie massime, benché non fossero rigide, erano però tanto sincere e tanto contrarie alle mire dell’educazione di quella giovine comica, che [p. 297 modifica]vedeva impossibile la perseveranza in lei e la perseveranza in me d’una socievole familiaritá.

Il di lei cervello era tanto leggero e suscettibile alle adulazioni, tanto fervido e cieco a’ capricci, all’ambizione, ad un fasto di falso sistema, che la veritá, la moderazione, la prudenza, il buon riguardo restavano velati alla sua vista, a tale che potrebbesi quasi dire ch’ella non conoscesse gli errori ne’ quali cadeva.

Rifletteva io benissimo che a questi tali cervelli, coll’andare del tempo, divengono gli idoli veri que’ molti che, per la via dell’adulazione, dipingono da pregiudizi gli attributi della virtú e dipingono da tratti di spirito la libertá di pensare e la sfrenatezza, a tale che divengono noiosi e molesti pedanti que’ pochi che si oppongono a’ loro sofismi e alle loro perniciose ma allettatrici pitture.

Per quanto aveva sino allora cooperato a’ vantaggi di quella giovane, ed anche per quanto le aveva detto per confortarla e per animarla, ella non aveva il torto a lusingarsi ch’io nodrissi per lei qualche sentimento alquanto piú oltre di quello dell’amicizia; ma le donne sono naturalmente per tal modo invasate dal loro amor proprio che non hanno confine nelle presunzioni.

Era ben difficile che, per quanto ella mi dicesse, cadessi nella sciocchezza di lusingarmi de’ di lei teneri affetti dal canto mio. L’ingenuo capitolo de’ miei amori dirá il modo mio di pensare in questo proposito.

Ad onta di tutti i miei riflessi, accordai alla Ricci un’amicizia cordiale. Non m’offendo che si giudichi esser stata quella amicizia, affetto. La giovane aveva del merito, ed io non sono né un imbecille né un insensato né un ipocrita per vergognarmi e per incollerire contro un tal giudizio.

Chi ama non è che un uomo, e chi porta il vizio in trionfo col titolo di galanteria non sará mai piú che un bruto ed un empio, per quante autoritá possa allegare de’ pari suoi. Il mondo, tuttoché corrotto, averá sempre in abborrimento tanto il cinico impudente quanto il libertino svelato.

Dall’ipocrita al dissoluto, all’amante, ci sono le mille miglia di lontananza; ma il libertino dissoluto ha sempre proccurato [p. 298 modifica]di fare dell’amante tenero, benefico, cauto rispettatore della buona fama d’una donna, e dell’ipocrita, una famiglia medesima, per difesa al di lui schifo costume.

Il mio diletto per il teatro, la mia brama di conoscere e di osservare tutti i ceti degli abitatori del nostro mondo, il mio dar gratis tutte l’opere sceniche mie quali si sieno, il buon avvenimento di quelle mi fecero tanto noto che tutte le persone le quali esercitano le professioni teatrali della comica, della musica, della danza, crederono di avere un indispensabile bisogno del mio consiglio, del mio parere e del mio aiuto nelle rappresentazioni, ne’ prologhi, negli addio, ne’ metri da caricare di note, nelle idee e nelle direzioni de’ balli pantomimi, tragici, comici, ecc.

Ho tenuta pratica famigliare perciò nel mio albergo, negli alberghi altrui, ne’ teatri e per le vie, pubblicamente e senza alcuna riserva, con un numero innumerabile di comici, di comiche, di maestri di musica, di canterini, di canterine, di ballerini e di ballerine.

Se le voci d’una infinita schiera di virtuosi, e spezialmente di virtuose teatrali, possono fare una legittima testimonianza, si troverá ch’io fui con quelli soccorritore non mai venale, e con queste uno scherzevole urbano satirico, e piú utile amico che galante dimonio seduttore, che ridicolo vagheggino e che animale dissoluto.

Le Memorie della mia vita, le confessioni ch’io farò de’ miei amori e queste solenni pratiche d’una lunga serie d’anni dovrebbero dimostrarmi a tutte le occhiaie de’ viventi spregiudicato abbastanza e salvarmi dal brutto nome d’ipocrita, da me in tutte l’opere mie perseguitato, calpestato e deriso.

Non mi crederei spregiudicato ma stolto, se nel mezzo a queste pratiche, orbo per amore delle veneri sceniche, avessi sbilanciata la mia economia per fare il generoso, guidato da’ trasporti della passione e del vizio; se fossi caduto nel laccio d’un matrimonio di conseguenza dannosa alla mia famiglia, a’ miei parenti ed al buon nome di me medesimo; se fossi stato un turpe mezzo, anche innocente, allo sfogo delle altrui concupiscenze. [p. 299 modifica]

Molte superioritá chiamate filosofiche de’ nostri giorni non sono che bestialitá, le quali saranno derise e sprezzate in ogni secolo dall’unanimitá di tutto il mondo; e chi si beffa del giudizio di tutto il mondo è condannato da tutto il mondo all’ospedale de’ pazzi, in cui può a suo senno pavoneggiarsi co’ suoi pochi sozi, commiserando comicamente la generalitá degli uomini, come un filosofo dicentesi spregiudicato.

Alcun sciocco potrá credere ch’io cerchi della giustificazione e degli elogi in questa mia digressione. Cotesti sciocchi maliziosi non dubitino. Nelle veritá ch’io sono per dire intorno alla mia amicizia con la Ricci, mi troveranno piú sciocco e piú ridicolo ch’essi non sono.

M’era internamente proposto di far tutto il bene a me possibile a quella giovane, certo di fare un bene nel tempo medesimo alla societá comica da me protetta, se avessi potuto far d’essa una buona attrice, facendo smentire tutti i di lei nimici e vincendo l’opinione favorevole che aveva pronunziata in di lei vantaggio, di troppo combattuta.

Ella aveva dello spirito, una buona voce, una memoria felice, una velocitá di comprendere sorprendente, un buon aspetto, e sapeva accomodarsi leggiadramente per il teatro.

Era mancante di attenzione ne’ dialoghi delle sue scene, mancante di naturalezza e mancante di vera sensibilitá nelle parti che rappresentava; difetti nimicissimi alla necessaria illusione teatrale, ma difetti ch’io m’avvedeva succedere dalla poca intelligenza, dal poco impegno del cuore e dalle distrazioni donnesche.

Qualche coltura letteraria avrebbe potuto soccorrerla; ma ella era spoglia affatto di cotesta coltura, come sono, forse per un abbandono di Melpomene e di Talia, quasi tutte le attrici dell’Italia.

Ella medesima mi confessava che, tra cinque o piú di lei sorelle, era stata la piú trascurata; che aveva avuti alcuni principi nella scola della danza, ma che, apparendo dalla fiacchezza nelle sue ginocchia la fisica impossibilitá di poter riuscire una buona ballerina, la madre, povera e priva del marito o col marito [p. 300 modifica]indolente e amico del vino, l’aveva destinata a’ bassi servigi della famiglia, per i quali aveva continue mortificazioni; che dimostrando del coraggio e del genio per l’arte comica, un certo Pietro Rossi, capo d’una compagnia di commedianti, l’aveva chiesta alla madre per attrice nella sua societá, e che la madre gliela aveva consegnata, facendole un crocione materno in sulla fronte, dicendole: — Pensa a guadagnarti il pane e a non piú venire a dar pesi alla mia famigliuola di troppo aggravata.

Per il cuore che s’era dato a chius’occhi, per una naturale disposizione al mestiere e per la sua giovinezza, gli applausi le avevano aperta la via a qualche progresso.

Aveva io vinta coll’opera mia in di lei favore l’opinione del pubblico, il quale in vero non faceva che usarle giustizia.

Non temeva ch’ella non facesse onore nell’avvenire alla mia assistenza nell’arte comica; ma dubitava che la sua educazione morale e il suo temperamento inconsiderato e zolfureo ponessero un giorno o l’altro a repentaglio la mia cordialitá e la mia pratica famigliare.

Trovava in quella giovane una conversazione non spirituale di commercio di sentimenti, di perspicacia, di riflessioni o di contrasti ingegnosi, ma un accoglimento gioviale, molta decenza e pulitezza nella sua povertá, molta grazia comica ne’ suoi racconti, uno spirito d’imitazione giustissimo di tutte le altre comiche italiane, delle quali mi faceva spesso un’esatta viva parodia, dell’abborrimento alle immodestie, de’ punti d’ingenuitá mirabili; e ciò che piú mi piaceva in lei era che non poteva dire una bugia senza che una fiamma inevitabile nel suo viso non palesasse il vano sforzo che faceva nel dirla.

A questa qualitá, nelle mie osservazioni, affidava io stoltamente la mia direzione di cautela e la mia buona fede.

M’avvidi col tempo ch’io doveva condannare i suoi punti d’ingenuitá. In questi ella metteva in ridicolo e in una vista tanto spregevole gli amici che aveva avuti e che forse le avevano fatto del bene, ch’io averei dovuto dubitare che un giorno avvenisse a me ciò che vedeva avvenuto agli altri. [p. 301 modifica]

La fiamma che compariva nel suo viso al dire d’una bugia non era perché le dispiacesse il dirla, era per la mancanza d’arte e per la rabbia che aveva di non poter colorirla di veritá.

Per quanto si affatichiamo, non possiamo giammai spogliarsi appieno dell’amor proprio. Crediamo facilmente di aver qualche merito maggiore di qualche altra persona, d’essere distinti; e il maschio che ha della parzialitá per una femmina proccura insino di ingannar se medesimo in sui difetti di quella, e vede agevolmente delle buone qualitá nelle qualitá pessime. Non v’è che il tempo, gli avvenimenti e le osservazioni che guariscano un uomo da tal malattia.

Ho dette le attrattive che m’allettavano. Ecco il rovescio della medaglia, che suscitava le mie sospensioni e i miei dubbi.

La prima prova d’amicizia ch’ebbi dal canto di quella giovane fu il non poterla mai indurre ad un’ora almeno per giorno di lettura di buoni libri, di spiegazione di colti francesi, d’esercizio di scrivere qualche riga riflessiva e corretta. Tutte le mie persuasioni, le mie preghiere e tutti i miei rimproveri in questo proposito furono gettati.

Mi adduceva ella che gli affari della sua famiglia le impedivano cotesti momenti. Averei voluto impiegare in ciò il maggior tempo della mia conversazione, come aveva fatto con le altre attrici della sua compagnia; ma ella mostrava tanta noia, tanto ribrezzo per l’esercizio sopra accennato che non mi fu mai possibile d’indurla ad un qualche studio, fuori che a quello di scorrere di passaggio le parti ch’ella doveva recitare in sul teatro. Confortata dalla propria audacia e animata da’ pubblici applausi, credeva internamente, forse, di non aver bisogno d’uno studio coltivatore del di lei animo e del di lei intelletto.

Nondimeno, tra gli affari ch’ella mi adduceva per scusa, i maggiori e che la occupavano quasi tutto il giorno erano la tavoletta, lo specchio eterno, l’attaccar merletti, il rinnovar nastri, il cambiar veli, lo studiare l’armonia de’ colori e simili faccende; armi utili per la scena, ma che poste nel sommo principal grado d’occupazione, oltre al desolare lo scarso onorario [p. 302 modifica]d’una comica del nostro clima e al porla in una pericolosa necessitá, spiegano un’anima vana, piú dedita ad adescare de’ liberali voluttuosi che a vincere il pubblico applauso nel mestiere per la via del vero merito, e la conducono poco a poco da un leggero e scamoffioso pavoneggiarsi ad un affettato e snaturato modo di gestire e di recitare, al qual difetto la Ricci sembrava oltremodo inclinata.

Alcune espressioni che tratto tratto le scappavano dalla bocca, all’occasione di qualche mio motteggio scherzevolmente amaretto in sulla di lei estrema ambizione e relativo alle mie considerazioni e a’ miei dubbi qui sovrapposti, mettevano alla luce le sue interne massime di contagiosa educazione.

— Se altro non si acquista — diceva ella ringalluzzata e infastidita delle mie punture — che il nostro naturale stipendio, come resistere nell’arte nostra?

Dopo queste proposizioni, da me combattute con de’ giusti conteggi, delle sicurezze d’accrescimento di onorario, de’ sani riflessi e infine con del disprezzo aperto, ella si costringeva ad assicurarmi d’averle fatte per semplice scherzo.

Trovava in lei tanta pontualitá ed esattezza nel pagare i suoi debiti, tanta temperanza e parsimonia in tutto ciò che non apparteneva alla sua appariscenza e al suo vano fasto, tanta ritiratezza fuori dal teatro, tanta morigeratezza ne’ suoi discorsi e nel suo contegno, che mi lusingai, nella sua etá ancora fresca, che il renderla utile alla compagnia comica in cui era, il soccorrerla nell’arte sua, il farle un buon partito, il proccurarle un congruo onesto stipendio, l’istillarle senza pedanteschi rigori de’ sodi sentimenti di direzione, il trattarla con una sincera cordiale amicizia potesse guarirla da qualche principio pernicioso ch’ella potesse aver bevuto. Puerile lusinga riguardo a una comica. Lusinga nata in me forse per un po’ troppo di parzialitá da me per lei concepita, e lusinga ch’io paleso francamente per incominciare a far ridere il pubblico alle mie spalle e per mio avvilimento.

Gli occhi mentali de’ maschi che contemplano una femmina non possono fidarsi di avere una vista infallibile. Delle picciole [p. 303 modifica]piante producono de’ gran veleni, ed ogni piccolo avvenimento può insegnare qualche cosa all’umanitá.

È per questo ch’io annoio il lettore con una frivola ma pontuale narrazione della amicizia che accordai a quella giovine comica.

Sei anni interi di studio, di soziale amistá, di attenzioni, di possibili beneficenze, di comparatico non valsero un fil di paglia a fronte de’ principi de’ quali era imbevuta; e una giovane che con altri semi di educazione averebbe potuto riuscire una colta rara persona e una buona amica, trasportata da’ primi germogli innestati nella sua fantasia, dalla forza delle adulazioni e dalle false dannate lusinghe, m’ha cagionate colle sue cieche imprudenze delle vicende che al mondo apparvero serie e importantissime, e che al mio istinto risibile non apparvero che come facezie del caso, a cui la ognora ridicola specie umana dá movimento.