Naufraghi in porto/Capitolo VI
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VI.
E il tempo passò: venne l’autunno e venne l’inverno. Il ricorso di Costantino, come accade sempre, fu respinto; ed egli una notte, fu legato ad una catena che lo univa ad un uomo a lui sconosciuto, e venne messo in fila con altri uomini, a due a due, vestiti di tela, taciturni, simili a bestie mansuete, resi tali da una invisibile potenza. Essi andavano. Dove? Non sapevano dove. Tacevano e non sapevano perchè tacevano. Li condussero al mare, li fecero salire su un lungo piroscafo nero, li chiusero in una gabbia.
Costantino era rassegnato: andava verso l’ignoto, verso il suo crudele destino; ma aveva in fondo al cuore la certezza che verrebbe presto liberato, e non disperava mai. L’andirivieni del personale di bordo, il rumore delle catene, il primo ondular del piroscafo, gli destarono dapprima una curiosità fanciullesca. Non aveva mai viaggiato in mare. Da ragazzo, nel veder all’orizzonte la linea cinerea del Mediterraneo, talvolta sfiorata dall’ala delle vele, egli, nascosto tra i cespugli selvaggi della montagna natìa, aveva sognato di attraversare quelle onde lontane, verso paesi ignoti, verso le città d’oro del continente. Egli sapeva leggere e scrivere; e dalle incisioni del suo libro di scuola conosceva la chiesa di San Pietro di Roma e l’antica città di Gerusalemme.
Gerusalemme! Verso Gerusalemme, che secondo lui era la città più grande e bella del mondo, avrebbe voluto viaggiare, allora, quando attraverso i cespugli di monte Bellu guardava la linea cinerea del Mediterraneo. Adesso attraversava il mare, ma come diversamente dal suo sogno! Eppure pensava che se l’avessero portato a Gerusalemme, anche legato e condannato, ad espiare la pena, si sarebbe sentito felice.
E il piroscafo rullava, ondulava, andava, tra un fragore incessante di torrente. I condannati bisbigliavano fra loro, alcuni scherzavano e ridevano.
Costantino si assopì e sognò, come sempre gli avveniva, di trovarsi a casa sua. L’avevano liberato da poco, ed era tornato a casa senza far sapere nulla a Giovanna, preparandole così una sorpresa di indicibile gioia. Ella diceva: — ma questo è un sogno, questo è un sogno! — Le spese di giustizia avevano portato via di casa tutto, anche il letto. Non importava: tutti i beni del mondo erano nulla in confronto alla gioia della libertà, alla felicità di vivere con Giovanna e con Malthineddu. Però Costantino si sentiva stanco, e s’era coricato nella culla del bambino, e questa culla ondulava da sè, sempre più forte, sempre più forte. Giovanna rideva e diceva: — Bada che cadi, Costantino mio, agnello caro! — e la culla ondulava ancora più forte.
Sulle prime anche lui si mise a ridere; poi d’un tratto si sentì male, ebbe un capogiro e cadde dalla culla inclinatasi fino al suolo. Si svegliò col mal di mare. Il mare era mosso; il piroscafo saliva e scendeva da montagne d’acqua; le onde saltavano fin sopra i passeggeri di terza.
Tutti i condannati soffrivano: alcuni cercavano ancora di scherzare, altri imprecavano; uno, il compagno di Costantino, un uomo dal viso giallo sottilissimo, gemeva come un bambino.
— Oh, — diceva col capo penzoloni, ansante e spaurito, — io sognavo di essere a casa, ed ora... ed ora!... San Francesco bello, abbiate pietà di me...
Costantino, nonostante la sua angoscia sentiva pietà del compagno.
— Abbi pazienza, fratello caro, anche io sognavo d’essere a casa...
— Ah, mi pare che mi sfugga l’anima, — disse un altro. — Che diavolo ha questo bastimento? pare balli il ballo sardo! — e alcuni ebbero la forza di ridere.
La tempesta infuriò tutta la notte: a Costantino pareva di morire, e aveva paura della morte, sebbene la vita gli apparisse tutta fatta di dolore.
La sua anima parve imbeversi del liquido amaro ch’egli cacciava dallo stomaco convulso. Neppure nell’ascoltare la sentenza di condanna aveva provato una disperazione simile: cominciò anche lui a gemere, a imprecare, stringendo i pugni e contorcendo le dita dei piedi gelati.
— Che tu possa morire così, come muoio io, cane omicida che mi hai rovinato... — diceva! e dai suoi occhi stillava lo stesso liquido amaro che gli avvelenava la bocca e l’anima.
Verso l’alba la tempesta cessò: ma anche dopo calmato il male, egli non ritrovò pace: gli pareva lo avessero bastonato a morte, e tremava di freddo, di debolezza, di paura.
Il piroscafo non si fermava mai: oh, si fosse fermato almeno un momento! Un momento di tregua, pareva a Costantino, sarebbe bastato per ridonargli le forze smarrite, ma quel continuo procedere, quel continuo rullìo e quel continuo fragore di onde violentemente infrante, gli comunicavano un tremore di convulsione. Cammina e cammina, passarono lunghe ore di angoscia, ritornò la notte: il compagno dal viso giallo sottile si lamentava sempre, ma adesso quel lamento dava a Costantino una irritazione angosciosa. Finalmente potè assopirsi e, cosa strana, tornò a sognare lo stesso sogno della notte prima; però questa volta Giovanna era corrucciata, e la culla ondulava quasi dolcemente. Quando si svegliò, gli parve che il piroscafo fosse fermo: nel gran silenzio dell’ora antelucana sentì una voce che diceva:
— Quella è Procida...
Abbrividì di freddo, e si domandò se lo conducevano a Procida, perchè aveva sentito dire che a Procida c’è la galera. Anche il compagno si svegliò, abbrividì, sbadigliò lungamente.
— Siamo giunti?... domandò Costantino. — Come stai?
— Non c’è male! Siamo giunti?
— Non so: siamo vicini a Procida: c’è la galera laggiù?
— No. È a Nisida. Ma noi non siamo galeotti! — disse l’altro con fierezza: poi tornò a sbadigliare.
I condannati vennero sbarcati a Napoli, e chiusi subito in un carrozzone nero e giallo che sembrava un sepolcro ambulante.
Costantino ebbe appena la visione di un ampio tratto d’acqua ferma, verde, ombreggiata da enormi piroscafi, con barche piene di uomini luridi che gridavano parole incomprensibili; intorno alle barche, sull’acqua verde, galleggiavano erbaggi, scorze di arancie, carte, immondezze. Edifizi immensi si delineavano su un cielo profondamente azzurro.
A Napoli i condannati furono separati: Costantino fu condotto al reclusorio di X... e non rivide più il suo triste compagno di viaggio dal viso giallo e sottile.
Giunto al suo destino, fu chiuso in una cella, poichè doveva scontare sei mesi di segregazione. La cella misurava appena due metri di lunghezza e sei palmi di larghezza: ci stava solo uno strano lettuccio piegabile, che di giorno veniva chiuso e fermato alla parete. Dal finestrino si scorgeva il cielo.
Fu il tempo più triste della sua pena. Egli restava ore ed ore immobile, seduto, con lo gambe accavallale, le mani intrecciate intorno al ginocchio; ma, cosa singolare, non disperava mai, non si ribellava mai. Era convinto di espiare il «peccato mortale», come egli lo chiamava, di aver vissuto a lungo con una donna senza sposarla secondo la Chiesa. Sentiva sempre in fondo al cuore la certezza che un giorno o l’altro, finita l’espiazione del peccato, risulterebbe la sua innocenza e verrebbe liberato.
Intanto, se non disperava, soffriva: e contava i giorni, le ore, i minuti, nella continua e snervante attesa di un cambiamento di cose che non arrivava mai. Una nostalgia accorata lo istupidiva: giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, riviveva col pensiero la vita passata, ricordando con precisione profonda tutti i più minuti particolari della casa lontana. E oltre che del suo dolore soffriva del dolore di Giovanna. Impeti di tenerezza e di amore lo scuotevano dalla sua immobilità pensosa: allora balzava in piedi, camminava a grandi passi, e poichè questi passi non potevano essere che due o tre, si fermava di botto, e appoggiava e premeva forte la testa sulla parete. Erano i suoi momenti più disperati.
Poi tornava a sperare, a intrecciar nella mente sogni fantastici di liberazioni romanzesche, subitanee. Ogni volta che il guardiano entrava, egli si sentiva battere il cuore, aspettando la lieta novella.
A volte giocava da sè alla morra, dandosi il gusto di perdere o di vincere; e dopo rideva fra di sè, come un bambino: altre volte contemplava a lungo la palma della mano aperta, immaginandosi di vedere una grande pianura divisa in lancas, coi muri, i fiumi, gli alberi, gli armenti, i pastori, ai quali creava una vita di avventure emozionanti.
E poi pregava, contando sulle dita, e cantava le laudi sacre a voce alta, provandosi anche ad improvvisare versi religiosi.
Così compose una lauda di quattro strofe dedicata a San Costantino, con la quale raccomandava al santo i condannati innocenti. Il ritornello diceva:
Santu Costantinu pregade, |
La composizione di questa lauda lo occupò per molti giorni, e lo rese quasi felice: e quando la ebbe finita ne provò una gioia profonda. Subito sentì il bisogno di farla conoscere a qualcuno: ma a chi? Il guardiano, un piccolo napoletano calvo, con un naso schiacciato e all’insù, che pareva il naso d’uno scheletro, non era in grado di capire la lauda: e durante l’ora del passeggio era proibito rigorosamente al condannato in segregazione di rivolgere la parola ai compagni. Allora egli domandò di confessarsi, per poter recitare la lauda al confessore. Il confessore era giovine ed intelligente: ascoltò con pazienza Costantino, gli fece tradurre la lauda; poi gli domandò se, volendosi confessare per poter recitare quei versi, non avesse peccato di vanità. Costantino arrossì e disse di no. Il confessore sorrise benevolmente, lo confortò, lodò i versi, e lo mandò via beato.
Pochi giorni dopo il condannato chiese nuovamente di confessarsi.
— Ebbene, avete composto un’altra lauda? — domandò bonariamente il confessore, ch’era anche il cappellano del reclusorio.
— No, — disse il condannato, abbassando gli occhi. — Ma vengo a chiederle una grazia.
— Quale grazia? Sentiamo.
Costantino stette un momento col respiro sospeso, pauroso di quanto stava per chiedere; poi disse rapidamente:
— Ecco. Mandare la lauda al mio paese.
— Ah, — disse il cappellano. — Io non posso far questo. D’altronde come potreste voi scrivere la lauda?
— Oh, io so scrivere! — esclamò il condannato, sollevando i limpidi occhi.
— Sì, ma non dico questo, fratello mio. A voi non è permesso di scrivere.
— Oh, io mi arrangerei in quanto a ciò...
— Bene, bene, ma io non posso.
Costantino prese un’aria desolata e per poco non si mise a piangere; poi si confessò, domandò se non era meglio dedicare la lauda ai Santi Pietro e Paolo, che erano stati carcerati, e chiese perdono al confessore se aveva osato fare quella tal domanda.
Il giovane cappellano diede l’assoluzione, e pregò a lungo ad alta voce; poi si passò una mano sulla fronte e disse, piano, lentamente:
— Sentite. Scrivete pure la lauda, se vi riesce. E fate da bravo.
Un impeto di gioia assalì il condannato; e da quel momento egli non ebbe altro pensiero che di riuscire a scriver la lauda.
— Io ho studiato, — disse al guardiano, — ma so fare anche le scarpe. Volete che ve ne faccia un paio? O ve ne accomodi...
— Tu desideri qualche cosa, — rispose l’ometto, in napoletano. Tu non puoi far niente.
— Siate buono, zio Serafino. Pensate all’anima immortale.
— Io penso all’anima, ma ti ho già detto che non sono tuo zio. Tuo zio, tu lo hai ammazzato!
— Ebbene, non importa. Noi chiamiamo zio le persone importanti.
— E a me non importa nulla, io mi chiamo don Serafino.
Ma Costantino non riusciva a chiamarlo così, perchè in Sardegna il don appartiene solo ai nobili: e per quel giorno non si concluse nulla.
L’indomani il condannato tornò alla carica, disse che era di famiglia nobile, che aveva studiato, che suo zio, quello della cui morte lo accusavano, dopo avergli mangiato un grosso patrimonio, lo costringeva a lavorare, a far le scarpe, e lo chiudeva in una stanzetta buia, e che una volta gli aveva scorticato interamente un piede.
E voleva far vedere il piede; ma don Serafino scuoteva la testa con raccapriccio, e imprecava a bassa voce contro il morto crudele.
Così Costantino riuscì ad avere un foglio di carta, e col suo sangue scrisse le laudi per la protezione dei condannati.
L’inverno passò; e un giorno di marzo entrò nella cella di Costantino un grosso uomo che aveva due grandi occhi d’un azzurro latteo, rotondi e immobili, e il mento così corto che due baffi biondi lo coprivano interamente.
— Ehi là, — gridò al condannato, — che mestiere sapete fare, voi?
C’era anche don Serafino, che volgeva il condannato il suo viso di scheletro, e il condannato, ricordando tutte le sue fandonie, rispose che sapeva fare le scarpe.
Il guardiano gli fece poi sapere che in breve l’avrebbero tolto di cella, diminuendogli la segregazione. Costantino pensò di dover questa grazia alla sua buona condotta, ma don Serafino gli confidò d’aver interceduto per lui presso persone potenti, poichè lo credeva davvero di famiglia nobile.
Pochi giorni dopo fu messo in camerata e cominciò a lavorare da calzolaio assieme con altri condannati. In questi giorni potè anche mandare sue notizie a Giovanna: gli era permesso di scrivere ogni tre mesi. Egli si sentiva quasi felice. E poi veniva la primavera, e i condannati, che avevano sofferto intensamente il freddo, prendevano un’aria allegra. Nella camerata dove Costantino lavorava, si scherzava sempre. Solo vi erano due fratelli che dopo aver chiesto in grazia di esser messi a lavorare assieme, litigavano di continuo per certi interessi da accomodarsi dopo la loro condanna, cioè fra dieci anni. Un giorno si bastonarono, ed uno fu portato via; scontarono due settimane di cella, poi, quando si rividero all’aria, cioè nell’ora di libertà che i condannati passavano nel cortile, si accapigliarono ancora.
Durante l’ora d’aria Costantino conobbe un suo compatriota, un sardo che veniva chiamato re di picche, forse perchè aveva una figura triangolare, con un grosso corpo e due piccolissime gambe sottili; paffuto, pallido, si faceva radere i capelli in modo da parere calvo.
Era un ex maresciallo dei carabinieri, condannato per peculato: si diceva parente d’un cardinale, a sua volta amico del re e della regina; quindi aspettava di giorno in giorno la grazia, non solo, ma prometteva di far graziare i condannati che gli regalavano sigari, denari e altro. Addetto all’ufficio degli scrivani e potendo quindi comunicare con l’esterno, favoriva le corrispondenze clandestine dei condannati coi loro parenti, e riusciva ad introdurre nello stabilimento denari, tabacco, francobolli e liquori, profittandone largamente.
A Costantino offrì subito la grazia sovrana e gli chiese se voleva mandare qualche lettera al suo paese.
— Sì, — disse il giovine ma io non ho nulla da darle: sono povero.
— Ebbene, non importa, siamo compatrioti, — disse generosamente l’altro. E subito gli raccontò le sue prodezze da maresciallo: aveva ammazzato più di dieci banditi, aveva dieci medaglie, e una volta era stato a Roma e il re lo aveva invitato al suo palco in teatro. Infine era un eroe. Però non raccontava mai la sua ultima prodezza; solo diceva di essere in reclusione per opera dei suoi nemici invidiosi. Sulle prime Costantino gli prestò fede e gli pose una forte simpatia nonostante la sua losca figura; poi, di giorno in giorno i racconti del maresciallo variando e diventando sempre più iperbolici, anche lui (come gli altri condannati che disprezzavano il re di picche, ma lo adulavano per servirsene) cominciò a diffidare.
Del resto s’accorse che tutti là dentro, compresi i guardiani, erano bugiardi e felini. I condannati avevano bisogno di nascondere il loro vero essere, di immaginarsi cose fantastiche per il passato e per l’avvenire, d’ingrandirsi agli occhi dei compagni di sventura.
Costantino osservò con meraviglia che i condannati a pene maggiori erano i meno cattivi, sebbene i più vanitosi e bugiardi. Dei meno delinquenti alcuni si odiavano fra di loro; erano vili, facevano la spia; gli altri si servivano a vicenda finchè potevano ritrarne utile, e si tradivano, se occorreva, amici mai. Il re di picche diceva a Costantino:
— Una profonda corruzione rode quasi tutti i condannati, molti dei quali sono veri delinquenti rotti ad ogni vizio. L’aria stessa è pestifera. L’uomo che viene tolto dalla società, privato della libertà, nel luogo del castigo s’infracidisce completamente, perde ogni avanzo di senso morale, diventa bugiardo, vile, feroce, corrotto fino all’incoscienza della corruzione.
E gli raccontava cose spaventevoli.
— Secondo me, — proseguiva, — di onesti qui dentro ci siamo noi due, il Collo d’anitra e il Delegato. Tutti gli altri sono delinquenti. Guardati da loro, Costantino, caro compatriota; questo è un covo di banditi peggiori di quelli che io ho mandato a farsi benedire.
Costantino si spaventava, pensando che se la sua onestà rassomigliava a quella del re di picche c’era poco da stare allegri. Collo d’anitra, poi, era uno studente siciliano, tisico, coi capelli bianchi, un collo lungo e un corpo di fanciullo. Leggeva sempre, era d’aspetto timido, non parlava quasi mai, ma s’abbandonava qualche volta a eccessi di collera violenta, dopo i quali doveva subire gli amplessi di Ermelinda, come i condannati chiamavano la camicia di forza. Aveva ammazzato un professore. Anche il Delegato era meridionale, condannato per ricatto: sembrava un gentiluomo, con un gran petto sporgente, una nobile testa, un gran naso greco e il labbro inferiore sporgente e spaccato. Un’aria di sdegno gli animava il viso: ad avvicinarlo invece era affabilissimo, servile. Anche lui, a suo dire, contava grandi e potentissime protezioni, ma era anche perseguitato da persone altolocate, e specialmente da un ministro.
In quel tempo, dopo aver letto alcuni libri di scienza prestatigli dallo studente, scriveva una grande opera scientifica, poichè anche lui apparteneva all’ufficio degli scrivani e poteva lavorare segretamente per conto suo.
Il re di picche ne diceva meraviglie.
— Ecco, — raccontava a Costantino. — Quell’uomo sarà la nostra fortuna. Ci scriviamo ogni giorno ed abbiamo un frasario convenuto. Ma dobbiamo essere cauti, altrimenti guai, rovineremo tutta l’opera sua, la quale è una vera scoperta scientifica. Posso dirtene i sommi capi. — Come si è formata l’atmosfera: cioè l’aria. Come si è formato l’oceano, cioè tutti i mari. — Origine del mondo organico. — Dimostrazione ragionata dell’esistenza d’un continente primordiale nella plaga centrale dell’oceano Pacifico. — In questo continente avrebbe avuto origine l’umanità, la cui infanzia si sarebbe svolta in quelle regioni tropicali. — Immigrazione nell’Africa e nell’Asia. — Scomparsa di questo continente per opera di un grande cataclisma. — Identificazione di questo cataclisma col diluvio biblico. — Emersione degli altri continenti. — Poi: Fine dell’atmosfera. — Fine dell’oceano. — Fine della luna. — Fine della terra.
— E fine della reclusione? — domandò Costantino, che ne capiva poco, e credeva che il re di picche al solito raccontasse fandonie.
Ma l’altro aveva bisogno d’essere ascoltato e proseguiva tranquillo:
— Aspetta. Gli altri capitoli sono: ampliamento della dottrina evoluzionista oggi accettata. — Evoluzione della nostra specie di scimmie antropomorfe. — Causa della inclinazione dell’asse dei pianeti; meno Saturno. — Ragioni di codesta anomalia. — Macchie solari, ecc.
— Va al diavolo! — pensava Costantino, sbadigliando. E a voce alta, guardandosi attorno per il cortile dove zampillava una fontana: — E la gazza, oggi? — domandava, accennando ad una gazza addomesticata che viveva nello stabilimento, rimpinzata di cibo dai condannati, grassa e sonnolenta, che quando aveva fame chiamava a nome, con una strana voce nasale, i suoi tristi amici.
— Ebbene, sarà crepata! — disse il re di picche. — Che ti può importare di un uccello? Sei come i bambini, Costantino; tu non puoi capire l’importanza che avrà l’opera del Delegato. Indirettamente io ho avuto una magna parte in queste sue scoperte, giacchè sono io che l’ho messo in corrispondenza col Collo d’anitra. Un sunto dell’opera siamo riusciti a mandarlo fuori, ed abbiamo scritto al primo ministro del Re d’Italia. Tu però sta zitto, sai! Vi è stato un grande scienziato che dopo aver letto il sunto disse: «È la più alta manifestazione del genio italiano». Credi pure, Costantino, caro compatriota, il Delegato è salito ad altezze vertiginose. Egli ha amici potenti che si sono recati a Roma appositamente per ottenergli la grazia, ma anche nemici potentissimi. Però la sua opera gli otterrà presto la libertà.
I discorsi del compagno annoiavano Costantino, ma fingeva di ascoltarli con interesse per tenerselo buono, perchè aspettava la risposta di una lettera mandata a Giovanna.
Questa risposta giunse in maggio, e riempì di gioia il condannato. Giovanna scriveva che il bambino era stato ammalato, forse perchè gli affanni sofferti le avevano guastato il latte: ma adesso stava bene. Isidoro Pane aveva ricevuto le laudi di San Costantino, scritte col sangue, e aveva pianto, ed ora le cantava in chiesa, accompagnato da tutto il popolo. Non si sapeva di chi fossero i versi e Isidoro diceva di averli avuti da un vecchio con una lunga barba candida, vestito di bianco, che gli era apparso un giorno in riva al fiume. Si credeva fosse San Costantino, oppure Gesù Cristo in persona.
E Giacobbe Dejas stava a servizio presso i suoi ricchi parenti; e l’avvocato di Nuoro aveva espropriato la casetta del condannato, lasciandovi le donne per un piccolo fitto. I ricchi Dejas davano spesso del lavoro a zia Bachisia ed anche a lei, Giovanna, e così esse andavano avanti. Era morto di carbonchio Pietro Punia: s’era sposata Annicca detta Spalle d’argento, avevano arrestato un vecchio pastore per un furto di alveari.
Quasi tutta la lettera di Giovanna era piena di queste piccole notizie, che riempirono di soddisfazione, di piacere e d’interesse l’anima di Costantino. Gli parve di respirare l’aria del suo paese; di rivedere le pietre, le macchie selvaggie, le persone, le cose alle quali il suo cuore era attaccato tenacemente.
Soltanto gli dispiacque che Giovanna andasse a lavorare dai Dejas; egli sapeva della passione di Brontu, della domanda respinta, ed ebbe un primo indefinito senso di timore. Giovanna gli mandava tre lire entro la lettera, ed egli, pensando che forse quel denaro proveniva da casa Dejas, lo toccò con disgusto. Poi offrì due lire al re di picche, e credeva che il compatriota li rifiutasse; il compatriota le prese, dicendo che servivano per la persona che s’incaricava della corrispondenza clandestina.
In altri tempi Costantino si sarebbe arrabbiato; adesso sentiva un tal bisogno di scrivere a Giovanna, di corrispondere col suo piccolo mondo lontano, che avrebbe dato metà della vita purchè il re di picche lo favorisse.
Lesse e rilesse la lettera fino ad impararla a memoria: di giorno la teneva nascosta nella suola della scarpa che di notte scuciva e ricuciva: e mentre lavorava taciturno, pensava continuamente alle vicende e alle persone del paesello lontano.
E s’immedesimava tanto nei suoi sogni che dimenticava la realtà. Vedeva il vecchio pastore introdursi nel recinto degli alveari, cauto, col viso e le mani coperte di stracci. Il luogo era deserto, soleggiato. Campi verdi, costellati di rose canine, di succhiamiele, di pisello odoroso, si stendevano intorno a perdita d’occhio. E nel gran silenzio, tra il profumo forte e irritante dei puleggi selvaggi e delle erbe aromatiche, le api ronzavano.
Costantino seguiva quasi ansioso l’opera del vecchio ladro: lo vedeva staccare dalle pietre piatte, su cui poggiavano, i piccoli alveari di sughero; legarli con una corda, metterli in un sacco e portarli fuori del recinto... Mentre fantasticava così, ecco, sentiva una strana voce nasale, stridula, pronunziare il suo nome:
— Cos-tan-tì! Cos-tan-tì!
Si svegliava allora dal suo sogno, tornava alla realtà: la gazza saltellava lentamente nel cortile, grassa, tonda, scuotendo le ali azzurre.
Di notte il condannato metteva la lettera sotto il guanciale, e riprendeva il filo dei suoi sogni. E sentiva la voce sonora del suo amico pescatore cantare le laudi, e qualche volta si domandava se davvero Isidoro non avesse veduto in riva al fiume, fra gli oleandri curvati sotto il dolce peso dei mazzi di fiori rosei, la figura di un vecchio vestito di bianco, con la lunga barba candida come la lana d’un agnellino appena nato.
Ah, il Santo Protettore, il buon San Costantino (che egli si figurava vecchio e candido come un patriarca, sebbene la statua del Santo nella chiesa del paesetto rappresentasse un guerriero dal volto nero) appariva a Isidoro per dirgli che pensava, sì, ai condannati innocenti. E il vecchio Santo gli avrebbe presto concesso la libertà. Ah, San Costantino bello, che voi siate benedetto!
Poi il quadro cambiava. Era il portico dei ricchi Dejas, dove si ordiva la lana filata, riducendola a lunghe matasse pronte ad essere tessute. Giovanna andava e veniva col gomitolo enorme tra le mani. E c’era Brontu seduto sul limitare della porta di cucina, a gambe aperte, e fra queste gambe stava dritto, malfermo, ridente, il piccolo Malthineddu. Ah, ciò era orribile! Ma subito Costantino ricordava che Brontu non stava mai in paese nei giorni di lavoro, e si svegliava di soprassalto col cuore oppresso da un sentimento confuso di dolore e di gioia.