Naufraghi in porto/Capitolo XIII

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Capitolo XIII

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XIII.

Il tempo continuava a passare: il cielo e la natura mutavano secondo la volontà delle stagioni, ma non mutavano aspetto le persone e le cose del paesetto. In inverno Giovanna diede alla luce una bambina rachitica, livida, che piangeva sempre. Venne da Nuoro, appositamente per tener a battesimo la povera creaturina, il dottor Porru, o dottor Pededdu come continuavano a chiamarlo.

Quando egli arrivò, in carrozza, tutto [p. 185 modifica]intabarrato che pareva un fagotto, col viso roseo sorridente, molte persone corsero a vederlo. Egli distribuì saluti e sorrisi quanti ne vollero; agli amici di Brontu, andati ad incontrarlo, disse di averli veduti a Nuoro, di che essi si compiacquero assai: uno però osservò di non esserci mai stato.

— Fa lo stesso, — rispose il piccolo avvocato, — ci verrai anche tu.

Era un brutto augurio, perchè per lo più quegli uomini andavano a Nuoro per affari di giustizia; tuttavia l’amico di Brontu si compiacque.

Quanto a zia Bachisia gli disse che s’era ingrassato.

— Questo è niente! — egli esclamò; e tutti risero come pazzi.

Il battesimo fu fatto con grande pompa. Forse unica volta in vita sua, zia Martina aveva slargato i cordoni della borsa, facendo venire da Nuoro vini e dolci squisiti; ma la notte non dormiva, ed il giorno viveva in ansia per paura che qualcuno toccasse la roba.

Il giorno del battesimo Giovanna si alzò ed aiutò la suocera a fare i maccheroni per il pranzo d’uso: poi tornò a letto, ma vi rimase seduta, apoggiata ai cuscini, con la coperta lino alla cintola, e dalla cintola in su vestita della camicia e del corsetto da sposa. Aveva anche una cuffia di broccato ed il fazzoletto da sposa; era un po’ esangue, ma bella, con gli occhi più grandi del solito. [p. 186 modifica]

Nella camera fu apparecchiata la mensa, per la quale zia Martina trasse dall’arca le tovaglie di lino che non avevano più veduto la luce dopo che erano state acquistate.

Il battesimo si fece verso le undici, una mattina freddissima e nebbiosa. Dal cielo candido cadeva, intorno intorno al paesetto, un fitto velo bianco: le strade erano deserte, sparse di pozzanghere ghiacciate: un silenzio indescrivibile regnava sullo spiazzo, davanti la casa dei Dejas, dove il mandorlo disegnava la venatura nera dei suoi rami nudi sul candore vaporoso della nebbia.

Ma d’un colpo lo spiazzo si animò, invaso da una torma di monelli infagottati in pelli e stracci, con cuffie rosse frangiate, con vecchie scarpe più grosse di loro: poi apparvero gruppi di donne freddolose che starnutivano, tossivano e puzzavano di fumo e di fuliggine.

Il corteo del battesimo usciva dalla casa di zia Martina. Precedevano due bambini che sostenevano con grave importanza due ceri adorni di nastri rossi. Poi veniva una donna con la neonata coperta di scialli e da un drappo di broccato verde simile allo stendardo di San Costantino: poi il padrino col suo pastrano e uno scialle bianco e nero dal quale emergeva il visetto roseo, inalterabilmente beato. La madrina, così alta che pareva un’ombra di persona nell’ora del tramonto, doveva curvarsi per parlare con lui: a fianco veniva Brontu, sbarbato, felice; dietro [p. 187 modifica]seguiva un gruppo di parenti ed amici che camminavano a passo di marcia producendo uno scalpitìo di cavalli: ed in ultimo, freddolosa, con un vassoio sotto il braccio e le mani entro le spaccature della gonna, di tanto in tanto tirando fuori la lingua per leccarsi un umor acqueo che le calava dal naso livido, veniva la servetta della madrina.

I monelli fecero ala al corteo guardando avidamente il padrino: e anche lui cominciò a guardarli sorridendo e salutandoli comicamente.

— Da bravi, da bravi! Che cercate, animalucci invernali?

— È zoppo! — disse un ragazzo.

— Sta zitto; altrimenti non dà nulla.

Il corteo passava; il viso dei ragazzetti s’allungava: alcuni s’irritavano, altri stavano lì lì per piangere.

— Zop... — cominciò a gridare uno, ma non finì. Il padrino aveva lanciato in aria un pugno di monetine di rame. Tutti i monelli si gettarono sopra le monete, urlando; alcuni caddero, travolgendo la servetta che cominciò a imprecare e a distribuire calci e pugni più numerosi delle monete. La pioggia di rame ed in conseguenza l’assalto dei monelli, i quali crescevano sempre più di numero, proseguì fino all’arrivo del corteo alla chiesetta, dove prete Elias l’aspettava scambiando qualche parola col sagrestano vestito di rosso. Il sagrestano aveva paura che prete Elias, con la sua nota indulgenza, accompagnasse a casa la neonata, e lo incitava [p. 188 modifica]ad esser severo con Brontu Dejas, coi padrini, con tutti.

— La vossignoria, — diceva, non accompagnerà certo a casa la bambina. No. È quasi una bastarda; non deve ricevere onori.

— Va a guardare se vengono, — disse il prete.

— Non si vedono, no. La vossignoria non andrà?

— E tu andrai? — chiese il prete con un fine sorriso.

— Il mio è un altro affare: io vado per avere i dolci, non per fare onore a quella gentaglia.

Poco dopo arrivò il corteo, e la cerimonia cominciò: la bambina, appena le fu denudata la testolina calva e rossa, cominciò a piangere con un belato di capretto rauco: il padrino teneva il cero acceso e sorrideva, cercando di rammentarsi bene il Credo, perchè Giovanna l’aveva scongiurato di recitarlo coscienziosamente onde il battesimo riuscisse valido.

Anche i monelli erano penetrati in chiesa, producendo un brusìo di topi; scacciati silenziosamente dal sagrestano, uscivano e rientravano. La servetta col vassoio e la donna che aveva portato la bambina sedettero sui gradini di un altare, aspettando ansiose la mancia del padrino.

Finita la cerimonia, data la mancia, rivestita la bambina, vi fu un momento di inquieta attesa per parte di Brontu e degli amici. Prete Elias era andato in sagrestia a spogliarsi: [p. 189 modifica]sarebbe egli tornato? avrebbe accompagnato a casa la bambina?

Egli non tornò. Ed il corteo se n’andò alquanto melanconico, seguito dal sagrestano trionfante, al quale Brontu aveva una pazza voglia di dare, invece dei dolci, una buona dose di calci.

La gente s’affacciava per vedere il corteo, e molti visi, specialmente di donne, sorridevano con malignità non vedendo il prete. Puh, pareva il battesimo di un bastardo.

Giovanna, sebbene non aspettasse il sacerdote, si fece ancor più esangue quando il corteo invase la camera; e baciò tristemente la bambina.

— Ho ricordato il Credo dalla prima all’ultima parola, — disse il padrino. — Allegra, comare mia! La vostra bimba sarà un portento, alta come la madrina, e allegra come il padrino.

— Purchè sia fortunata come il padrino! — mormorò Giovanna.

— Ed ora a tavola! — esclamò il giovine avvocato battendo le mani. — Un bellissimo uso, questo, parola d’onore: bellissimo.

Battè ancora le mani come si battono per richiamare i bambini; e subito si misero a tavola, davanti ai maccheroni, ai quali seguì un intero porchetto arrostito che esalava un profumo di rosmarino.


Pochi giorni dopo accadde un fatto strano, sebbene non insolito.

Vicino alla casa di Isidoro Pane c’era un [p. 190 modifica]antico concio che il tempo aveva quasi pietrificato; strane erbe pallide, steli d’un verde quasi bianco, gramigne melanconiche lo coprivano; sembrava un rialzo qualunque e non esalava più odore.

Una sera sull’imbrunire, Isidoro Pane, mentre preparava la cena, sentì chiasso dalla parte del rialzo, e s’affacciò alla porticina per guardare.

Il crepuscolo era freddo, verdognolo e luminoso. Un gruppo di persone, quasi tutte donne, nere sull’aria limpida, s’avanzava verso il rialzo, suonando e cantando. Isidoro capì di che si trattava e andò loro incontro. Le donne, una ventina tra vecchie e giovani, cantavano a mezza voce e con tono saltellante eppur melanconico, una bizzarra canzone, o meglio uno scongiuro contro il morso della tarantola, accompagnate dal suono monotono d’uno strumento primitivo, la serraia, specie di cetra con la cassa formata da una vescica di maiale secca: lo suonava un giovinetto mendicante, pallido e cieco, stranamente vestito con abiti da donna laceri e sporchi.

Altri tre uomini si distinguevano nel gruppo, ed in uno di essi, dal volto acceso e febbricitante, con una mano fasciata, Isidoro Pane riconobbe Giacobbe Dejas.

Il pescatore gli toccò con un dito la mano fasciata, mentre Giacobbe lo fissava con occhi pieni di profondo terrore.

— Hai paura di morire? Per un morso di tarantola? che, che! [p. 191 modifica]

Le donne cantavano sempre: erano sette vedove, sette maritate e sette ragazze. Tra le vedove c’era la sorella di Giacobbe, che gli veniva a fianco, rosea e fresca nonostante il grave dolore che la opprimeva; la sua vocina sottile e stridente come il canto d’un grillo emergeva al di sopra di tutte.

Santu Pretu a mare andei,
Ses jaes nde li rughei;
E li rispondent Deu:
— It’ às, Pretu meu?
— A ssu pè m’at datu mossu,
A ssu coru, a ssu dossu.
— Lea s’ispina trista.
E ponebila pista,
E ponebila tres dies
Chi Petru sano sies.
Tarantula ’e panza pinta,
Chi fattesit fiza istrinta,
Fiza istrinta fattesit,
Una pro monte nde lassesit;
Una pro monte, una pro bbacu,
Mòlthu m’àsa e mòlthu t’àpo.1

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Intanto il gruppo s’era avvicinato al rialzo; i due uomini, che erano armati di zappe, cominciarono a scavare una buca, e Isidoro rimase vicino a Giacobbe, fra le donne che cantavano e il cieco che suonava.

Giacobbe taceva e guardava l’opera dei due amici: Isidoro invece fissava il malato; gli sembrava un altro, tanto era cambiato, col viso rosso, infiammato, scavato da una espressione di sofferenza nervosa, e i piccoli occhi, già così furbi, sotto le sopracciglia nude, velati da una puerile paura della morte. Finito l’ultimo verso, le donne ricominciavano dal primo, e il suono della strana cetra ripigliava il motivo stridente e monotono, che assomigliava al ronzìo delle api.

Aliti di vento gelato venivano dal lucido occidente, passando come lame taglienti sul viso delle persone radunate sul rialzo: e la luminosità fredda del crepuscolo spandeva una infinita tristezza sull’altipiano già nero, sul paesetto nero, su quel gruppo di persone nere che compievano un rito superstizioso con fede da selvaggi idolatri.

I due uomini scavavano la buca con alacre ardore: la terra veniva su nera, mista ad immondezze fracide, a cocci, a stracci: i due scavatori se la rigettavano nonostante sui piedi e sulle gambe, salivano sul mucchio, si curvavano sempre più, ansavano, sudavano, mentre le donne cantavano e il cieco suonava.

Isidoro e zia Anna-Rosa. la cui bocca non cessava di aprirsi rotonda per emettere quel [p. 193 modifica]sottile e dolente canto di grillo, aiutarono il malato a togliersi il cappotto; poi lo presero per mano e lo condussero vicino alla buca. Egli vi saltò dentro d’un colpo. Spingendola con le mani, gli scavatori rimisero la terra entro la buca, talchè Giacobbe rimase sotterrato con la testa in fuori.

Allora, intorno a quella testa, che pareva spiccata dal corpo e deposta per terra, su quel rialzo di immondezze, dove le erbe tremavano al vento come pervase da un brivido di angoscia, sotto il cielo triste, accadde una scena diabolica. In un attimo, mentre uno degli scavatori s’asciugava la fronte passandovi il braccio, e l’altro batteva le mani per togliervi la terra che vi era appiccicata, le donne si disposero in cerchio attorno alla testa di Giacobbe, e fecero un folle giro di danza cantando con urli il loro scongiuro. Il cieco suonava, pallido, impassibile, con gli occhi bianchi rivolti ad un vuoto orizzonte. La danza durò cinque minuti, dopo i quali le donne cessarono di ballare, disfecero il cerchio, ma continuarono a cantare. I due uomini e Isidoro si gettarono a terra, e con le zappe e con le mani disotterrarono Giacobbe. Egli risorse, con le vesti piene di terra, il collo e il viso pavonazzi. Era tutto sudato e disse che gli era parso di soffocare. Si scosse tutto e introdusse un braccio, poi l’altro, nelle maniche del cappotto che la sorella gli porgeva.

— Ebbene, tu non morrai, uccellino di primavera! — gli diceva Isidoro, scherzando. Ma Giacobbe rimaneva cupo: il vento freddo gli [p. 194 modifica]aveva gelato il sudore; il suo viso s’era fatto pallido e i denti gli battevano forte. S’avviarono alla casa di zia Anna-Rosa, e Isidoro, che aveva completamente dimenticato la sua cena, seguì la strana compagnia.

— L’hai uccisa? — domandò al malato, ricordando che chi uccide la tarantola col dito anulare conserva la virtù di guarirne il morso col solo tocco dello stesso dito.

— No, — disse Giacobbe. Poi, fra il suono della cetra e il canto delle donne, con poche parole incisive raccontò la sua disgrazia. — Dormivo. Sento una puntura, come di vespa. Mi sveglio sudato. Ah, mi aveva punto; mi aveva punto la tarantola vile! La vidi con questi occhi; ma era sul muro, già lontana. Ah, che il diavolo ti morda, mala femmina! E son tornato. Sentite, io ho paura di morire. È da tanto tempo che ho paura di morire.

— Noi morremo tutti, quando sarà giunta l’ora, — disse gravemente Isidoro.

— Sì, morremo tutti, — confermò uno degli amici. Ma ciò non confortò Giacobbe Dejas.

— Ho le gambe spezzate, — diceva egli, lamentoso. E la schiena? Ah, la mia schiena pare sia stata colpita con la scure. Io morrò, io morrò...

La gente usciva sulla strada per vedere il gruppo, ma tutti guardavano in silenzio, come se passasse un funerale. Gli occhi di Giacobbe si velavano: d’un tratto barcollò e s’appoggiò ad Isidoro. [p. 195 modifica]

Le donne marciavano, trottavano come puledre; il canto melanconico si spandeva nel freddo silenzio della sera, intorno al suono stridente della cetra.

Finalmente si arrivò alla casa della piccola vedova; nel focolare di schisto, al centro della cucina, ardeva un tizzo e un mucchio di brage estratte poco prima dal forno. Questo forno, rotondo e vasto, con un buco nel centro della volta per l’uscita del fumo, occupava un angolo della cucina, ed aveva un’apertura quadrata, per la quale poteva benissimo introdursi un uomo. Ebbene, Giacobbe Dejas si piegò ed entrò nel forno tiepido; sull’apertura apparvero le suola ferrate dei suoi scarponi, i cui chiodi consumati brillarono al riflesso del fuoco.

Dritte, intorno al focolare ed al forno, le donne proseguirono il loro coro: il barlume del fuoco tremolava sulle loro persone, rischiarando i corsetti gialli e le camicie bianche. La boccuccia aperta e rotonda di zia Anna-Rosa pareva un forellino nero sul volto roseo e lucente. Il cieco aveva sentito il fuoco e vi si andava avvicinando a poco a poco, senza smettere di suonare. Arrivato sull’orlo del focolare mise il piede scalzo sulla pietra ardente.

— Zsss... — soffiò Isidoro, — bada che ti scotti, quel ragazzo!

Non aveva finito di dirlo, che il suonatore diede un balzo indietro, scuotendo il piede scottato. Per un momento cessò di suonare; tuttavia le donne proseguirono il coro; o pareva che [p. 196 modifica]esse, dritte e immobili intorno a quel forno, intonassero un canto funebre intorno ad un sepolcro preistorico.

— Esci — disse infine la vocina di zia Anna-Rosa.

Dal forno uscirono i grossi piedi di Giacobbe: nello stesso momento la porta fu aperta ed apparve una figura nera, Prete Elias. Avvertito del caso egli era corso alla casa della vedova, per impedire almeno che Giacobbe venisse introdotto nel forno: ansava, era rosso, con gli occhi accesi.

Una donna strillò; altre tacquero, altre accennarono a proseguire il coro. Giacobbe finì di uscire dal forno.

— Tacete! — impose il prete, con voce ansante. — Non vi vergognate? No?

Allora esse tacquero.

— Andate, egli riprese, spalancando la porta. E tenendola aperta con una mano, assistè allo sfilare delle donne; poi, quando esse furono uscite, si accorse della presenza di Isidoro, ed i suoi occhi si fecero tristi.

— Anche voi! — disse con rimprovero — Ma possibile? Non vedete come avete conciato quel povero uomo? Ma possibile, possibile! — ripetè come fra sè. Poi si animò ancora: — Presto, andate a chiamare il medico! E voi a letto. Avanti!

Giacobbe non chiedeva di meglio; aveva la febbre, tremava, gli occhi non vedevano più. Isidoro andò in cerca del medico: si sentiva [p. 197 modifica]mortificato; ma nonostante il suo buon senso, la sua saviezza, la sua religione, non poteva spiegarsi che male c’era se si cercava di guarire il morso della tarantola coi canti, i suoni, i riti usati dai padri e dagli avi del villaggio sin dal tempo nel quale i giganti vivevano nei Nuraghes.

Le donnicciole si erano sbandate nella strada, a gruppi di due o tre, e a bassa voce, nell’ombra, commentavano l’accaduto. Chi la prendeva sul serio, chi criticava il prete: una ragazza molto allegra si batteva le mani sulle anche canticchiando ironicamente:

Faladu m’est su tronu,
O mama de ranzolu.2

Era la nenia che si doveva cantare intorno al letto del malato, se non sopraggiungeva prete Elias. Alcune donne s’avvicinarono ad Isidoro; ma egli andò oltre a lunghi passi, pensieroso: allora tutte se ne andarono, e intorno alla case della vedova regnò la sera fredda e verdognola. Le stelle parevano occhi d’oro velati di lagrime.


Note


  1. San Pietro al mare andò,
    Le chiavi dentro gli caddero;
    E gli rispondo Dio:
    — Che hai, Pietro mio?
    — Al piè mi ha morsicato,
    Al cuore, al dorso.
    — Prendi la spina tristex 1
    E mettila pesta,
    E mettila tre giorni,
    Talchè, Pietro, sii sano. —
    Tarantola del ventre dipinto,
    Che fece figlia stretta,
    Figlia stretta fece,
    Una per monte ne lasciò,
    Una per monte, una per valle,
    Ucciso m’hai e t’ho ucciso.
  2. M’è caduto un fulmine,
    O madre del ragno.
  1. Ispina trista o santa, della quale si fece la corona di Nostro Signore: le foglie di questa pianta in Sardegna sono dal popolo usate per medicamenti.