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Nel deserto/Parte I/Capitolo II

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Capitolo II

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II.

Lia arrivò a Roma una mattina ai primi di maggio: aveva viaggiato con un gruppo di paesani sardi che si recavano alla capitale per deporre come testimoni in un processo di ricchi proprietari isolani imputati d’omicidio per vendetta, e tutti, durante la traversata, sapendo che ella si recava a Roma presso uno zio influente, le avevano usato gentilezze e domandato raccomandazioni. A Roma si può tutto. A Roma c’è il Re, c’è la Regina, c’è il Papa: dunque tutto è facile, perchè esiste la probabilità di avvicinarsi a questi personaggi. Lia aveva promesso tutto quel che le era stato chiesto: le pareva di essere già anche lei uno dei potenti della terra!

Era la prima volta che viaggiava, e come ai bimbi ancora ignari del mondo tutto le appariva bello e quasi fantastico: la sua testa bruna si sporgeva dal finestrino del vagone come la testolina d’un uccello in gabbia Ma la sua gioia muta e profonda era, per così dire, [p. 21 modifica]un’ebbrezza lucida e cosciente; ella distingueva particolari che sfuggivano agli altri viaggiatori, e come aveva sentito l’immensità del mare, capiva adesso la bellezza melanconica della campagna romana tutta verde e gialla di fiori nel mattino un po’ vaporoso.

Appena il treno penetrò rombando nella stazione, distinse subito, tra la folla che brulicava sui marciapiedi neri, un signore bassotto e grasso, vestito di grigio, che andava su e giù zoppicando e appoggiandosi a un bastone elegante.

— Zio Asquer! — gridò, meravigliandosi subito dalla sua audacia; ma venne respinta dall’urto del treno che si fermava, e gli sportelli furono aperti con violenza, e passò qualche tempo prima che i paesani coi loro cestini e le loro bisacce finissero di scendere e di aggrupparsi sul marciapiede. Ella fu l’ultima a scendere, accompagnata anche lei da una voluminosa scatola di cartone legata con una cordicella.

Il vecchio signore zoppo era fermo davanti al mucchio di cestini e di bisacce, e agitava la mano coperta d’anelli.

— Lia! — chiamò con accento sardo. — Bene arrivata.

— Siete voi, zio Asquer?

— Proprio io in persona!

Furono l’uno davanti all’altra, ma non si abbracciarono. Sebbene egli non avesse mai veduto sua nipote, gli pareva di riconoscerla, con quei [p. 22 modifica]suoi grandi occhi dolci e stupiti e i capelli neri lucenti; ma si meravigliava che ella a sua volta lo riconoscesse.

— Come hai fatto? Mi hai riconosciuto dal bastone? Avrai detto: mio zio Asquer è invalido: dunque è quello!

— Che dite! — ella mormorò intimidita.

Egli rivolse la parola ai sardi, e saputo perchè venivano cominciò a inveire contro gli imputati del processo.

— Canaglia siete e canaglia resterete. C’era bisogno di venire fin qui a far sapere i fatti nostri?

— L’ha voluto il Re, — disse convinto un vecchietto, caricandosi la bisaccia sulle spalle.

— 11 Re? Il Re pensa proprio a voi, sardi asini.

— Ma «vostè est francesu»? — domandò il vecchio con ironia.

Lia aveva ripreso la sua scatola e guardava lo zio mortificata: egli non si mostrava davvero gentile coi suoi compaesani; anzi li fissava con disprezzo, e il suo viso rosso e duro, a metà reso immobile dalla paralisi facciale, e la sua bocca che nel parlare risaliva tutta da un lato tirandosi addietro i baffi bianchi inspidi, e anche gli occhi verdognoli, vivi e scintillanti, avevano un’espressione di sarcasmo implacabile.

Lia provava un invincibile senso di soggezione e di timore; le sembrava che egli potesse burlarsi anche di lei; e infatti, quando le [p. 23 modifica]guardie daziarie le domandarono che cosa contenesse la scatola, ed ella rispose «aranciata» egli disse!

— E che credevi ch’io avessi ancora tutti i denti, per masticarla?

Bisognò aprire la scatola, che oltre il dolce durissimo, fatto di scorza d’arancio e di mandorle, conteneva alcuni oggetti di vestiario; Lia rivide la sua gonnellina per casa, la sua camicetta nera, le sue scarpette a lacci; e le parve di rivedere, con un sentimento di vergogna e di pietà, tutto il suo umile passato, esposto lì, in quel luogo grigio e rumoroso popolato di una folla sconosciuta e indifferente.

I sardi, curvi sulle loro bisacce e le loro valigie, mettevano in mastra i più celebri prodotti dell’isola; il vecchietto beffardo non voleva pagare il dazio perché il grappolo di formaggelle dorate ch’egli portava dentro la sua bisaccia era destinato a un deputato influente: anche gli altri discutevano, e Lia dovette salutarli e andar via con lo zio.

Egli la fece salire su una carrozzella scoperta, e col bastone, mentre attraversavano piazze, strade, viali, le indicò qualche punto della città. Ecco, quella strada dritta e luminosa, che si slanciava verso un orizzonte sereno, chiuso da montagne azzurre, era il principio del quartiere dei poveri e dei malviventi, di cui lo zio Asquer parlava come di un mondo iniquo e feroce; [p. 24 modifica]quell’altra al contrario, al cui confino l’arco di Porta Pia, dorato dal sole, cingeva con la sua cornice grandiosa un altro sfondo, un altro paesaggio azzurrognolo e vaporoso, conduceva, dal lato opposto, fra giardini e palazzi e fontane, alla Casa del Re. Tutto il paesaggio era popolato di fantasmi eroici e di leggende; tutto intorno era luce e rumore. Gli occhi di Lia vedevan cose fantastiche; i bambini che saltavan la corda, tra il verde e il giallo dei giardini allora intatti della stazione, le parvero grandi farfalle bianche e rosse svolazzanti fra gli alberi di un bosco; l’acqua delle fontane scintillava come il cristallo, strade interminabili si aprivano di qua, di là, da tutte le parti, con sfondi abbaglianti. E il cielo solcato di nuvole bianche le pareva più alto del cielo della sua landa, e il profumo di orba e di foglie che inondava l’aria era ben diverso dall’aspro odore della brughiera! Ella provava un senso di ebbrezza; e le pareva che gli alberelli dei viali, coperti di un verde tenero, illuminati dal sole, splendessero di luce propria, e che tutta la città fosse un giardino a cui le fioraie coi loro cestini di rose e di anemoni, e i fruttivendoli ambulanti coi loro carretti di ciliegie sanguigne e di nespole dorate, dessero un aspetto di festa. Ella ascoltava lo zio, che nominava lo strade e le piazze, e si domandava se doveva ringraziarlo subito perchè l’aveva fatta venire a Roma; il [p. 25 modifica]viso di lui era però così duro e sarcastico che ella non osava parlare.

A un tratto, mentre egli muoveva il bastone, chi destra in avanti, dicendo: «Il Ministero delle finanze, il nostro buon Quintino amico della Sardegna», ella vide, sopra una doppia fila d’alberi, un grosso signore di bronzo: pensierosa, con una mano sul petto, pareva fosse salito sul suo piedistallo per dire qualche cosa alla folla che gli si aggirava attorno; ma la folla non aveva tempo nè voglia di ascoltarlo, ed egli taceva, serio e benevolo, deciso a non abbandonare il suo posto sebbene nessuno si degnasse di guardarlo. Lia soltanto fu presa da una fulminea simpatia per lui: per alcuni momenti non guardò altro, senza nascondere la sua curiosità commossa. Sì, ella aveva sognato uno zio così, gigantesco, protettore, benevolo.... Ma la carrozza svoltò, ed ella perdette di vista il monumento. La città adesso appariva sotto un nuovo aspetto, mezzo campagna e mezzo paese, e quando la carrozza si fermò in via Sallustiana, davanti all’ingresso polveroso di una vecchia casa grigiastra, la via sterrata parve a Lia una strada rurale, chiusa da muri bassi e da siepi rossastre sopra le quali verdeggiavano canne, rami di peschi, sambuchi, fronde di salici piangenti: gli uccelli cantavano tra gli olmi fioriti, e pareva che al di là delle siepi cominciasse la campagna.

Una ragazza magra e nera, con due grandi [p. 26 modifica]occhi scuri e il viso olivastro, uscì correndo dall’ingresso polveroso, salutò Lia in dialetto sardo e l’aiutò a tirar giù la scatola.

— Bene arrivata, signoricca. Era cattivo il mare? Lo so io che cosa è quella: pare di entrare all’inferno, quando si entra nel bastimento.

— Adesso però siamo in terra; prendi la scatola e va avanti, — le impose il padrone, scendendo con precauzione dalla carrozza.

— Ah, la vostra serva è sarda? Come si chiama? — domandò Lia, seguendolo a passo a passo su per le scale.

— Si chiama Costantina. Sì, pur troppo è sarda. Così ha tutti i difetti delle serve di là e delle serve di qui....

Egli saliva lentamente, appoggiando il bastone ad ogni scalino; e Lia lo seguiva, incerto se aiutarlo o no. Ma le pareva che egli non desse importanza ai suoi malanni; appena furono nel vasto appartamento al primo piano, senza darle tempo di lavarsi e di cambiarsi, le fece servire il caffè nella sala da pranzo arredata con un certo gusto con mobili in noce e quadri che riproducevano alcune marine gialle e rosee di Salvator Rosa, e la condusse a vedere le altre stanze, fermandosi con compiacenza nel salottino verde e oro, ove la luce penetrava discreta dalla finestra socchiusa, e i vasetti di Murano scintillavano tenuemente, sui tavolini di lacca verde, come fiori coperti di rugiada; e battendo [p. 27 modifica]lievemente il bastone sulla frangia delle tende, la guardava e scuoteva la testa, come per dirle: i nostri parenti, certo, laggiù in quel paese di mori non vivono in mezzo a tanto lusso.

Ella si guardava attorno silenziosa: capiva il pensiero di lui, e la camera della zia Gaina, col letto di legno a baldacchino, le pareti tinte di calce, da cui pendevano come oggetti sacri i vagli, i canestri e gli altri arnesi per fare il pane, le tornava in mente: le sembrava che bastasse uscire dal salottino per trovarcisi ancora.

— Il salottino è stretto, — disse lo zio Asquer, sollevando la portiera per lasciar passare Lia. — Ma io non seguo la moda dei piccoli borghesi, che pur di avere un salotto grande, mangiano o dormono in una cameretta buia. Noi non diamo ricevimenti; eh, eh, non servono a niente.

Lia non rispose; ella non era mai stata ad un ricevimento. La camera da letto dello zio era infatti molto spaziosa, piena di luce, allegra come una camera nuziale; su tutti i mobili Lia osservò oggetti da toeletta, in osso ed in argento. La camera destinata a lei era invece così stretta che la finestra occupava tutta una parete; ma una luce vivissima la inondava, facendo risaltare i fiori d’oro della tappezzeria celeste e i ghirigori gialli del soffitto. Dal lettino candido, collocato in fondo alla cameretta, si scorgevano le cime degli alberi del terreno di [p. 28 modifica]fronte, una fila di caso gialle lontane, e uno sfondo abbagliante di cielo.

Lia guardava quasi spaventata quel nido tutto bianco e azzurro: era lì che doveva vìvere? Le sembrava che non avrebbe potuto muoversi senza rompere qualche cosa.

Lo zio Asquer socchiuse la finestra e guardò nel lavabo, e all’improvviso, avvicinatosi all’uscio, cominciò a urlare come un ferito:

— Costantina! Costantina! Dannazione di cristiani! Acqua, acqua!

La serva accorse, pallida, insolente.

— Credevo ci fosse il fuoco!

— Adesso làvati e ripòsati, — egli disse a Lia, quando la serva portò la brocca dell’acqua, — poi parleremo.

Ella rimase immobile davanti a quella finestra luminosa che s’apriva su un mondo sconosciuto, non meno deserto, per lei, non meno vasto e ignoto della landa e del mare che fino al giorno prima avevano circondato il suo orizzonte; e finalmente si svegliò dalla sua ebbrezza.

«Parleremo poi». Di che? Non riusciva a immaginarlo, non sapeva ancora che cosa lo zio voleva da lei; ma sentiva che egli le restava lontano ed estraneo, più lontano e più estraneo di quando ancora non si conoscevano.

— Non mi ha neppure domandato notizie della zia Gaina.... non ha fatto altro che parlar con disprezzo dei nostri compaesani.... [p. 29 modifica]

Procurando di non far rumore slegò la scatola; di lontano le arrivava la voce dura e imperiosa dello zio e quella insolente di Costantina, e provava un senso di meraviglia pensando alla poca soggezione che la ragazza dimostrava per tanto padrone.

Che era venuta a far lei, presso lo zio, se c’era già una serva così svelta e ardita? La padrona? Ma una padrona non si tratta come lo zio aveva trattato lei dopo che era scesa dal treno. Egli s’era persino burlato del suo regalo! Bruscamente prese la cassettina dell’aranciata e la cacciò sotto il lettuccio; trasse la gonnellina, la camicetta, le scarpette a lacci, il grembiule a legaccio scorrevole, e rivestì quei poveri abiti che odoravano ancora dell’erba della landa e della cucina della casupola sarda; s’avvicinò all’armadio per riporre l’abito buono e si vide intera nello specchio; intera, alta e magra, nera e triste, e capì che coi suoi poveri abiti aveva ripreso il suo fatale destino di ragazza povera.

*

Sotto quest’impressione scrisse alla zia Gaina, ingrossando la calligrafia per farsi leggere da lei, ma nascondendole egualmente le sue speranze e le sue delusioni. Di là si fece silenzio ed ella pian piano aprì il suo uscio, si azzardò nel corridoio e vide la serva in cucina, in [p. 30 modifica]mezzo ad un mucchio di foglio di carciofi e di bucce di piselli e ad una baraonda di stoviglie sporche. Ma all’improvviso Costantina si mise a cantare, in dialetto, con la sua voce rude e monotona, come se si trovasse in riva al torrente del suo villaggio, fra le macchie del puleggio fiorito, e Lia vinse l’impressione di disgusto che la piccola cucina sporca le destava. Entrò timidamente e domandò sottovoce:

— Lo zio è uscito?

— E uscito, sì, grazie al Signore! — disse la serva guardando con curiosità e diffidenza il meschino abbigliamento di signoricca — E lei non ha riposato, vero? S’è forse inquietata perchè il mio padrone gridava? Non si meravigli, sa; egli brontola sempre, ma quando è in collera davvero, tace e fa il muso lungo.

Lia sorrise, ricordando la zia Gaina.

— Povero zio Asquer, — disse, avvicinandosi alla finestra — È vecchio e sta male.

— Lui? Vorrei essere io, forte come lui!

— Non dire così! Quanti anni hai?

— No ho ventitrè, ma mi sembra di averne cento. E vostè?

— Io? ventitrè anch’io.

Questa coincidenza parve divertire molto Costantina; ella si mise a ridere, mostrando tutti i suoi bianchi denti sporgenti, e cominciò a rivolgere domande curiose a signoricca Lia guardava nel cortile circondato d’alte muraglie [p. 31 modifica]ove s’aprivano, come sulle facciate d’un castello, finestruole, feritoie, loggie e balconcini fioriti, e a poco a poco si rianimava e a sua volta interrogava la serva.

— Sei da molto al servizio di mio zio?

— Da sei mesi: egli mi prese perchè come isolana potevo far compagnia a vostè, che doveva arrivare dalla Sardegna, Se non avessi avuto questa speranza, dell’arrivo di vostè, sarei scappata cento volte. Il mio padrone è un tormento: basta dirgli; questo è bianco; perchè lui risponda: no, è nero!

— Sei da molto a Roma?

— Da un anno, signorina! Son venuta perchè ho bisogno di guadagnare, e il bisogno fa correre la lepre anche attraverso il mare.

Ella raccontò una lunga storia, di un suo fratello soldato, disertore, che era riuscito a tornarsene nell’isola e a nascondersi sulle montagne, come l’aquila scappata da una gabbia; ripreso, degradato e condannato, la famiglia s’era rovinata per lui, e la sorella, da ragazza benestante, ridotta al grado di serva... Negli occhi di Costantina, mentr’ella parlava, splendeva lo stesso raggio di nostalgia che aveva spinto il fratello a disertare; e questa sua passione per la terra natia era il difetto che maggiormente urtava il suo padrone. Ma ella sopportava tutto pur di raggranellare il suo gruzzolo e tornarsene laggiù, dopo quella sua specie di emigrazione, [p. 32 modifica]o riacquistare la casupola paterna venduta per le «spese di giustizia».

— Le parole del mio padrone ormai mi sembrano il muggire d’un torrente lontano....

Infatti durante la colazione egli non fece altro che rivolgersi a lei e brontolare e maledire tutto le serve del mondo.

— Canaglia siete e canaglia resterete.

Ma Costantina taceva e guardava Lia con uno sguardo ironico e rassegnato come per chiamarla a testimonio della sua pazienza: e per un po’ Lia sorrise pur pensando ai casi suoi e aspettando invano che lo zio si rivolgesse anche a lei, le parlasse dei suoi progetti, le domandasse notizie della sua vita. Nulla: pareva che si conoscessero da anni ed anni e che nulla, d’ignoto e di nuovo fosse fra loro. Solo, appena finito di mangiare, egli si alzò premuroso e la costrinse a ritirarsi e a riposarsi ancora.

— Va, va, cara; dopo usciremo.

Ella si chiuse nella sua gabbia dorata ma non si coricò: era stanca ma il sangue le batteva forte allo tempie e un’inquietudine nervosa la agitava Le pareva che i rumori della città rombassero entro di lei; e si sentiva di nuovo vivere nella vita della moltitudine e di nuovo s’abbandonava a un senso di gioia puerile.

Nel pomeriggio uscirono; lo zio Asquer zoppicava, ma era instancabile; si fermava brontolando davanti a tutte le vetrine, mentre Lia [p. 33 modifica]sempre assalita da un senso di ebbrezza guardava i ninnoli, i gioielli, i fiori, tentata di domandare se quelle grandi cose in colore del sole al tramonto, e quei garofani che pareva avessero preso parte a una tragedia, tanto erano schizzati di sangue, e i giaggioli in colore del mare lontano e le orchidee simili a fantastiche conchiglie, fossero fiori veri o artificiali.

Sì, tutto era vero e tutto sembrava fantastico, in quel luogo di meraviglie: anche le cose piccole ed inutili destavano piacere a guardarle.

— Tutti imbrogli, tutta roba inutile, — brontolava lo zio Asquer; ma intanto guardava anche lui, e gli anelli d’oro e i brillanti della sua mano sinistra morta e adorna come un cadavere, e i bottoni della sua camicia, e i ciondoli e il pomo del bastone brillavano riflettendo lo splendore delle vetrine.

Del resto Lia osservò che molte persone si fermavano a guardare con attenzione religiosa tutti quei fragili oggetti esposti come reliquie: un altro vecchio signore fissava coi monocolo una cravatta violacea delicata come un fiore: alcune donne s’aggruppavano davanti a un ombrello dal manico d’oro; e un raggio di adorazione, più che di desiderio, brillava negli occhi di tutti.

— Un tempo — disse a un tratto lo zio Asquer — io spendevo i denari in queste sciocchezze. Visto l’oggetto e comprato; ma quando lo avevo in mano mi domandavo: perchè l’ho preso? Che [p. 34 modifica]devo fame? Ma, vedi, — proseguì, mentre Lia lo guardava con ingenua meraviglia, — le piccole tentazioni sono più forti delle grandi. Molta gente si rovina per il superfluo. Vedi tu tutte queste cosettine messe in fila, carine, graziose? Sai cosa sono? Te lo devo dire? Tanti piccoli nemici. E le donne specialmente, ah, le donne, come si lasciano vincere da questi piccoli nemici! Ma anche gli uomini, non dico! Uomini e donne siamo tutti e sempre bambini; abbiamo bisogno di giocattoli, e a furia di usarne consideriamo tali anche le cose serie e persino le persone. L’amico, per esempio, l’amante od il parente, che sono? Giocattoli, oggetti inutili, o tutto al più salvadanai graziosi, buoni a spezzarsi al momento opportuno.... perciò ti dico e ti ripeto: facciamone a meno.

Ella non rispose. Che poteva dire? Non s’intendeva di certe cose; solo le dispiaceva l’accenno ai «parenti salvadanai».

Arrivati in fondo a via Nazionale sedettero avanti a un caffè, e lo zio tese di nuovo il bastone e indicò una torre e raccontò la leggenda di Nerone.

— Era un ometto che aveva buoni rognoni, direbbe un nostro compaesano. Oh, dimmi un poco, tua zia Gaina è sempre pazzerella?

Oh, egli finalmente si ricordava! Lia stanca ma beata succhiava con voluttà il suo gelato, e guardava la torre, oscura sul cielo di raso [p. 35 modifica]azzurro, mentre dai giardini pensili della Villa Aldobrandini il vento faceva piovere petali di rose e di glicine, e le sembrava, parlando del paese e dei parenti, di raccontare un sogno.

— Sì, ella fa il pane per vivere.... È tanto buona, ma ha le sue idee.... Sì, io volevo studiare per diventar maestra come Pasqua Desortes, ma la fortuna non mi ha aiutato.... La casa cade in rovina; c’è molta miseria in tutto il paese.... Ah, come son poveri, se sapeste....

— Lo vogliono loro! — egli disse, quasi minaccioso. — Indolenti, asini! Si meritano la loro sorte....

Convinta dell’inutilità di combattere l’odio tenace dello zio contro i suoi compaesani, Lia non li difese: in fondo anche lei li considerava miseri, infelici, esiliati in un deserto ben lontano dal mondo civile: mondo per lei, in quel momento, rappresentato dalle vetrine, i caffè, i marciapiedi innaffiati di via Nazionale: la Sardegna era al di là di ogni orizzonte, faceva porte dell’Africa....

Ma ad un tratto lo zio Asquer s’alzò, e ripresero a camminare, a guardar monumenti e vetrine; e quando ella si trovò in mezzo alla folla, in una via stretta ove le donne eran vestite a festa e spandevan profumi, e gli uomini camminavano indolenti come chi non ha più nulla a fare, provò di nuovo un senso di solitudine e d’abbandono: le pareva di aver intorno una [p. 36 modifica]muraglia fatta di corpi umani insensibili, e sollevava gli occhi per vedere il cielo, corno un prigioniero dalla sua cella. Ma dopo lungo andare si trovò improvvisamente libera in un grande spazio chiaro rallegrato da un rumore d’acque, e chiuso in alto da una fila d’alberi e da un orizzonte vaporoso.

— Piazza del Popolo: il Pincio, — annunziò lo zio Asquer.

Salirono, lenti e stanchi, e sedettero su mia pietra sporgente da una nicchia, davanti a un paesaggio orientale con palme e alberi violetti su uno sfondo di cielo argenteo.

Lia sentiva un lieve capogiro; ma la gioia di muoversi, di veder ad ogni istante cose nuove, vinceva ogni altra impressione. Rientrata a casa si buttò stanca morta sul suo tettuccio, con gli occhi ancora abbagliati dallo splendore del crepuscolo e dei lumi, e le parve di essere tornata bambina, quando sognava di trovarsi galleggiante sul mare, col viso rivolto in su: era lo stesso terrore, lo stesso piacere; una ebbrezza di luce e di spazio, la sensazione del pericolo, della solitudine infinita, e la speranza di un aiuto sovrumano.