Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua/Decennale I del secolo I dal 1260 al 1273/Andrea Tafì

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Andrea Tafì

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Decennale I del secolo I dal 1260 al 1272 - Apologia Decennale I del secolo I dal 1260 al 1274 - Arnolfo di Lapo
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ANDREA TAFI

PITTORE FIORENTINO

Della scuola di Cimabue. Nato 1213, morto 1294.

In quella infelice età, nella quale la bell’arte del disegno, più tosto condannata a morirsi affatto sotto la tirannia di alcuni goffissimi artefici greci, o d’altra nazione, che esposta a fare alcuna pompa di sua bellezza alla vista degli uomini, miseramente giaceva già da gran tempo, dico circa gli anni di nostra salute 1213 nacque Andrea Tafi fiorentino, e conciossiacosaché non fusse mai la madre natura scarsa dal canto suo, e restia in somministrare agli uomini, anche nell’età più grosse, alcun talento, col quale, e coll’aiuto d’una lodevole industria potessero quelle cose apprendere che son più giovevoli all’umana conversazione, diede ella a costui un genio non ordinario agli esercizi di questa bell’arte; ma contuttociò poco poteva egli profittare, mentre non pure i popoli di quei tempi avvezzi a non veder altro modo che quel goffissimo, che allora per ognuno si teneva, ma eziandio gli stessi professori, non passando più là coll’ingegno di quello a che arrivava la rozza mano, s’eran formati un gusto tanto infelice, quanto dimostrano oggi le poche lor pitture che son rimaste, credendosi che nè più nè meglio si potesse far di quello che essi facevano. Che però il Tafi, conosciuto sè stesso e le gran difficultà dell’arte, desiderando pure di procacciarsi nome fra gli uomini, deliberò d’attaccarsi dove potè il [p. 73 modifica] meglio, dico allo studio del musaico, pittura che per ragion della materia di che è composta, è la più durevole d’ogni altra, sperando, per così dire, fondar sua gloria più nella durevol materia, che nell’ingegnoso artifizio. Per tal effetto non solo si portò alla città di Venezia, per veder l’opere de’ maestri, che operavano di musaico nella chiesa di S. Marco, fra’ quali era Apollonio Greco uomo assai rinomato in quel modo di dipignere, ma cercando tutte le vie di pigliar con loro, e con Apollonio in particulare, dimestichezza, seppe così bene diportarsi e con doni, e con promesse che il condusse alla città di Firenze sua patria, e ne cavò il segreto di cuocere i vetri del musaico, e far lo stucco per commettergli. Acquistata che egli ebbe ragionevol pratica in quella sorte di lavoro, operando sempre con Apollonio, è probabile che molte opere fussero loro date a fare da’ nostri cittadini, ma egregia veramente fu quella che all’uno, e all’altro insieme fu assegnata dell’antichissimo, e mai a bastanza lodato tempio di S. Giovanni, stato edificato da’Fiorentini fino nel tempo dell’idolatria, con disegno d’alcuni eccellenti maestri romani, come si dice, in onore del falso dio Marte. In questo, cioè nella parte di sopra della tribuna, fecero uno spartimento che stringendo da capo appresso alla lanterna, andavasi allargando fino in sul piano della cornice di sotto, e la parte più alta divisero in cerchi di varie storie. Nel primo, come bene avvertì il Vasari, rappresentarono i ministri ed esecutori della volontà divina, cioè gli Angeli, gli Arcangioli, i Cherubini, i Serafini, le Potestadi, i Troni, e le Dominazioni. Nel secondo grado espressero le più maravigliose opere di Dio fatte nel mondo, da che creò la luce fino al diluvio. Nel giro che è sotto a questo grado, che allarga l’otto facce della tribuna, figurarono fatti di Ioseffo, e de’ suoi fratelli. Sotto questi, in altrettanti vani di grandezza simile, fecero vedere storie della vita di Gesù Cristo, dalla sua incarnazione nell'utero di Maria [p. 74 modifica]sempre vergine, fino alla sua gloriosa ascesa al cielo. Seguono appresso i fatti della vita di S. Gio. Battista, dall’apparizione dell’angelo a Zaccheria, fino alla morte, e sepoltura: opera, che per la sua gran vastità, e per lo buon modo di commettere il musaico, merita molta lode; benchè per quello che al disegno, al colorito, ed ad ogn’altra buona qualità dell’arte appartiene, si possa con verità dire, ch’ella non abbia in sè parte alcuna che buona sia, nè che punto si discosti da quella goffa, e al tutto spiacevole maniera de’ Greci. Fecesi egli aiutare in quest’ opera a Gaddo Gaddi assai miglior maestro di lui; onde non è gran fatto che vi si riconoscano, da chi bene osserva, l’ultime cose di non tanta mala maniera, quanto le prime. Cominciano intanto intorno all’anno 1260 a risplendere in Firenze l’opere di Cimabue, e secondo quello che di più luoghi dello stesso Vasari si ricava, e che si riconosce da ciò che il Tafi operò di poi, è nata comune opinione, ch’egli, o s’accostasse a lui o ne ricevesse i precetti migliori dell’arte, o sì vero si mettesse a studiare di proposito le sue opere; perch’egli è certo, che da lì innanzi egli migliorò alquanto l’antica maniera, tenendosi sempre in su ’l fare di Cimabue: e lasciato Apollonio, o pur lasciato da lui, o per morte, o per suo ritorno a Venezia, cominciò a operar da sè, e condusse di mupure saico la gran figura del Cristo alta sette braccia, che fino a oggi benissimo conservata si vede in essa tribuna di S. Giovanni, in quella parte ch’è sopra l’altar maggiore, della qual opera ricevette gran lode, e stima. In questo luogo mi conviene correggere il detto d’un moderno scrittore1, che parlando di questa figura, dice così:

Fece poi egli solo il Cristo d’altezza di sette braccia, che è sopra la cappella maggiore, nella qual opera fece quel magnifico spropositone, d’effigiargli una mano [p. 75 modifica] a rovescio: ma si deve nondimeno compatire, perchè il disegno era allor rozzo, e rinascente di fresco, e non aveva ancora ripreso il vigore d’oggi giorno.

Fin qui l’autore, il quale nell’affermar tal cosa molto s’ingannò, perchè qualunque professore di quest’arti che osserverà quella mano, chiaramente riconoscerà non esser ella altrimenti stata fatta a rovescio, ma a diritto; anzi con molto ingegnoso avvedimento dell’artefice; il quale nel dipinger che fece con gran diligenza la mano destra del Signore sedente in trono, quasi in atto di giudicare il mondo, fece vedere di essa mano destra la parte di dentro aperta, dimostrante la piaga, quasi invitando a sè l’anime giuste; e così essendo essa destra mano veduta dalla parte interiore, vedesi altresì il dito grosso della medesima nella parte di sopra. Volendo poi il pittore dimostrar la sinistra in positura di scacciar dalla sua presenza i reprobi, che si scorgono da quella banda nell’eterne pene, la fece vedere aperta sì, ma non dalla parte di dentro, com’aveva fatto la mano destra, ma dalla parte di fuori: quasi che con essa volesse quelli togliere dalla propria faccia; nel qual caso doveva fare, siccome fece, il dito grosso veduto nella parte inferiore. Con tale invenzione fece egli conoscere ciò che alla pittura sarebbe per altro stato impossibile a mostrare, cioè che le mani erano dalle ferite dall’una all’altra parte trapassate, ed insiememente spiegò il suo bel concetto, di far fare alla mano sinistra, ufficio di discacciare i presciti; ed alla destra d’invitare i giusti, a godere il frutto di sua passione. Che poi la mano sinistra, che è quella che dall’autore è stata creduta a rovescio, sia fatta vedere dalla parte di fuori, la destra dalla parte di dentro, il conosce il professore dell’arte; perchè, dove la destra ha il pollice dalla parte di sopra il muscolo o monte del pollice eminente su la palma, la quale chiaramente si vede incavata, le piegature degli articoli inclinate all’indentro; la mano sinistra ha il pollice dalla parte di [p. 76 modifica]sotto, che non ha muscolo o monte, ma sta appiccato al carpo della mano in veduta dalla parte di fuori; e questa parte di fuori non è incavata, ma gonfia; nè si vedono le piegature delle dita, ma le nocca; e ’l d’intorno di esse dita volge per lo contrario di quello della destra: poteva ben dire questo scrittore, che uno sbattimento oscuro, che ha questa sinistra mano dalla parte di sopra, non sia al luogo suo; ma qualcosa convien perdonare a quel secolo infelice.

Io ho fin qui parlato delle pitture di questo tempio, al quale ho io dato nome dell’antichissimo tempio di S. Giovanni, ma non vorrei perciò che il mio lettore credesse, ch’io tenessi per fermo, come si trova da molti essere stato scritto, anche ne’secoli passati, che esso tempio, mancato che fu il culto degl’idoli, e toltane la statua del falso Dio, che in forma d’un cavaliere armato per entro il medesimo, come si dice, si vedeva sopra d’un’alta colonna esposto, fusse subito dedicato al Precursore S. Giovambattista, come particolarmente ne lasciò scritto Giovanni Villani nella sua Storia, e Dante nella Commedia; giacchè io non ho per indubitata tale opinione; ma ciò dissi per non mi opporre così di subito alla autorità di tanti; stimando io per altro cosa assai probabile, che questo tempio, cioè la chiesa, o vogliamo dire oratorio di S. Giovanni di Firenze, fusse avanti al seicento di nostra salute intitolata in S. Salvadore, e non in S. Giovambattista: e perchè non so come scorrendo per l’antiche storie mi son venute fatte sopra di ciò alcune reflessioni, mi conceda chi legge, ch’io con una breve digressione le porti in questo luogo; non già per dar sentenza in tale particulare, ma per accennar qualcosa di ciò che si potrebbe dire in contrario; lasciando però a’ più eruditi d’antichità il darne intero giudizio.

Primieramente, che la chiesa, o oratorio di S. Giovanni, stato per prima, come si dice, tempio di Marte, sia stato sempre il domo, la cattedrale, o la chiesa maggiore,´ [p. 77 modifica]o vescovile di Firenze, avanti che fosse fabbricata S. Maria del Fiore, è cosa certa, e notissima.

Secondo, che nella primitiva chiesa, o cristianità, la chiesa cattedrale si dedicasse al Salvatore, ad imitazione di quella di Laterano, fatta da S. Silvestro, non ha dubbio: perchè tutte le chiese si dedicano a Dio in onore de’ santi, la quale usanza di dedicarle in onor de’ santi è posteriore alla prima detta, come è noto per le storie ecclesiastiche.

Terzo, che il corpo di S. Zanobi, dalla basilica ambrosiana detta di S. Lorenzo, fosse portato alla cattedrale, lo dice il pitaffio della colonna che è su la piazza di S. Giovanni.

dvm de basilica sancti lavarentii ad majorem ecclesiam florentinam corpvs sancti zenobii florentinorvm episcopi feretro portaretvr etc.

Quarto, che questa cattedrale fusse intitolata in S. Salvadore, è chiaro per cinque testimonianze, cavate dalla Vita di S. Zanobi, scritta da S. Simpliciano vescovo, successor di S. Ambrogio. Questa è nella libreria di S. Lorenzo al banco 27 in un libro in cartapecora, il cui titolo è:

Vitae Sanctorum Patruum Incerti Authoris:

alla pagina 129 dove si parla delle reliquie portate a Firenze da S. Zanobi:

Trigesimo autem die Sanctorum corpora, quæ supra diximus, in majori ecclesia sancti Salvadoris sollicitè condidit.

Secondo, nel miracolo degl’indemoniati dicesi, che S. Zanobi commosso a pietà delle preghiere della madre loro:

Secum lacrymis in orationem dedit, prostratusque ante vexillum sanctae Crucis, in eadem basilica sancti Salvatoris, ab hora diei prima, usque in horam tertiam jacuit. [p. 78 modifica]

Terzo, e dove si dice, che san Zanobi, con sant’Ambrogio, diedero sepoltura a sant’Eugenio defunto:

Tunc Sancti Dei Ambrosius et Zenobius, tulerunt Corpus ejus, et honorificè sepelierunt intra civitatem, in majori ecclesia, quæ dicitur sancti Salvadoris.

Quarto, e trattandosi della sepoltura data a san Crescenzio, si dice:

Cujus corpus sanctus Zenobius, juxta Eugenium, honorificè recondit in eadem basilica sancti Salvatoris.

Quinto, e della traslazione di san Zanobi si dice:

Cujus etiam corpus, quinto anno dormitionis ejus, translatum fuit VII Kal. Feb. de basilica ambrosiana ad majorem ecclesiam quae supra dicitur Salvatoris.

Per lo contrario si potrebbe rispondere che il Razzi, ne’ Santi e Beati Toscani, alla Vita di S. Zanobi, par che voglia che questa chiesa di S. Salvadore sia quella dell’arcivescovado, il che non puol essere, perchè essa chiesa allora non era in piedi; anzi dove è il palazzo, e la stessa chiesa, era la piazza del Domo, o della cattedrale, perchè il tempio da noi ora detto di S. Giovanni, in antico aveva la sua porta principale, dove è ora il coro. Dalla furia del popolo fu portata la cassa del santo a toccar l’olmo, che era dove ora è la colonna. Potrebbe anche esser detto, che dal Borghino si ricava, che i canonici del nostro domo, siccome si son detti di S. Giovanni, e di S. Reparata, non mai si son detti di S. Salvadore; ma si risponde collo stesso Borghino, ch’egli intende di parlare dal mille in qua; ecco le sue parole:

Ma i canonici, i quali anno per proprio lor titolo di S. Giovanni, e piglisi tutto questo discorso da quattrocento anni indietro; così si può dire de’ vescovi; perchè notizie particolari di come s’intitolassero i detti vescovi, e canonici, non si hanno dal 600 in là.

E lo stesso Borghino non nega affatto che la cattedrale si chiamasse S. Salvadore. [p. 79 modifica]

A tutto ciò si aggiunga, che la devozione di S. Giovambattista cominciò ne’ Longobardi ad esser grandissima intorno all’anno 600. Veggasi il Baronio all’anno 616 che dal Rinaldi compendiato, dice così:

Agilulfo re de’ Longobardi si muore avendo regnato 26 anni: e succedegli Adavaldo figliuolo suo maggiore, che rimase in guardia e tutela di Teodolinda reina madre: a tempo de’ quali principi (dice Paolo Diacono scrittore delle cose longobardesche) si restaurarono chiese, e fecesi donazioni a luoghi pii. È assai famosa la loro liberalità verso la basilica di S. Giovambattista fabbricata in Monza dalla medesima reina, mentre che Agilulfo ancor vivea. E dal punto che Teodolinda gli fece ricchissimi doni, cominciarono i Longobardi a invocare in tutte le loro azioni S. Giovanni, pregandolo, che porgesse loro aiuto in virtù di Cristo Redentore, ed erano vincitori delli avversarj loro. Tutto questo Paolo Diacono, lib. 4, cap. 22, in veteri editione.

Lo stesso Baronio, all’anno 659, num. 4.

Nel qual tempo Rodoaldo re de’ Longobardi è tratto a fine etc. e regnò (come dice Paolo Diacono, lib. 4, cap. 49 e 50, novæ editionis) cinque anni, e sette dì. Al tempo del quale non si trova esser succeduta altra cosa degna di nota, se non che la reina sua moglie fabbricò in Pavia a simiglianza di Teodolinda una basilica in onore di S. Giovambattista, adornandola a maraviglia d’oro e d’argento, e dotandola di ricche rendite.

Finalmente Firenze non era allora disfatta o disabitata, com’è stata opinione di alcuno; ma era in essere, e sottoposta al dominio de’ Longobardi, e facilmente prese per protettore S. Giovambattista, che era il protettore divenuto della nazione dominante; e dedicogli la chiesa cattedrale, presa forse l’occasione di qualche restaurazione, ch’ella abbia avuto di bisogno: e che e’sia vero che i Fiorentini facevano tutto quello vedevano esser di genio de’ re Lon[p. 80 modifica]gobardi loro signori, si vede chiaro, secondo il Borghino; poichè edificaron la chiesa di S. Piero in ciel d’oro, ad imitazione d’una edificata, con real magnificenza, dal re Liomprand2o sotto questo nome in Pavia.

Tornando ora alle notizie del Tafi, dalle quali pur troppo mi sono dilungato; egli avendo sì grand’opere condotto, non solamente si acquistò gran fama nella sua patria; ma fu con grande onorevolezza ristorato e premiato. Fu poi chiamato a Pisa, e nella tribuna principale del domo aiutò a fra Jacopo da Turrita dell’ordine di S. Francesco, insieme con Gaddo Gaddi, a fare gli Evangelisti, ed altre cose, pure di musaico; perchè lo stesso fra Jacopo che di compagno gli divenne discepolo, riportò miglioramento nell’arte sua. Puossi applicare all’opere e fama di questo artefice quello del nostro poeta, allor che disse parlando di Cimabue suo maestro:

               O vana gloria dell’umane posse,
                    Com’poco verde in su la cima dura,
                    Se non è giunta dall’etadi grosse!

perchè al comparir che fecero poi le pitture del famosissimo Giotto, restarono le sue dico in quanto a quello che al disegno appartiene, di niun pregio e valore; ma ciò dico non ostante farà sempre memorabile costui, per essere stato il primo che introducesse nella nostra patria il musaico, e che anche assai lo megliorasse, con mettere i pezzi in piano; cosa tanto necessaria a quell’arte: onde si puole affermare, ch’egli in tal magistero aprisse la strada di far bene allo stesso Giotto; e a tutti gli altri che anno operato dipoi, fino a’nostri tempi, ne’ quali ell’è ridotta al sommo di sua perfezione.

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  1. Gio. Battista Cinelli.
  2. Cioè Liutprando.