Novelle (Bandello, 1853, I)/Parte I/Novella XXVII

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Novella XXVII - Don Diego dalla sua donna sprezzato, va a starsi in una grotta, e come n’uscì
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[p. 295 modifica]al molto cortese signore il signor Ermes Vesconte salute


Infinite volte s’è veduto, letto e udito che amore, quando è in petto giovenile acceso, se non è col freno de la ragione moderato, induce spesso l’uomo a mille disordini e bene spesso a morte. Ed ancor che tutto ’l dì accadino e si sappiano simili essempi, non resta perciò che la gioventù dietro ai sensi sviata, col fuggir la ragione, non segua quasi di continovo a volanti passi il cieco appetito. Tuttavia, perciò che non può se non giovar la frequente dimostrazione dei mali e scandali che fa questo fallacissimo e lusinghiero amore quando è mal regolato, ho voluto un notabile accidente, che non è molto in Ispagna è avvenuto, scrivere, il quale questi dì fu narrato dal signor Girolamo de la Penna perugino a la presenza del molto valoroso signore il signor Prospero Colonna, alora che dopo la rotta de la Bicocca egli era tornato a Milano. Ed in questa novella non solamente si vedrà ciò che io ve n’ho detto, ma ancora apparirà chiaro quante fiate le donne nei lor sospetti ed imaginarie openioni s’ingannino; le quali il più de le volte, come si ficcano una fantasia nel capo, sono ostinatissime e ritrose, e a patto nessuno depor non la vogliono, e ben che conoscano il lor manifesto errore, non cessano di perseverare ne le cattive impressioni; il che spesso è cagione di grandissime rovine. Ora, perciò che voi non eravate al principio de la narrazione di detta novella, ma veniste che già più di mezza era stata detta, m’avete, mercè de la cortesia ed umanità vostra, potendomi comandare, pregato che io ve ne volessi far copia per poterla leggere e poi ritornarmela. Eccovela adunque, signor mio, qual fu recitata, ch’io ve la dono tale, e vi supplico che non vi sdegnate ancor che il dono sia picciolo di accettarlo. Vi piacerà poi farla leggere al vostro da me riverito e da tutta Lombardia amato ed onorato, il signor Francesco vostro maggior fratello, a ciò che egli veggia che tutte le donne non sono d’un temperamento, ma sono come ha fatto la natura nei suoi parti, che sempre non gli fa tutti buoni. Nè perchè ci sia talora una [p. 296 modifica]malvagia femina si vogliono l’altre sprezzare; anzi per una buona, chè molte ce ne sono, deveno tutte l’altre esser dagli uomini sempre onorate e riverite, perciò ch’io porto ferma openione che mai non sia lecito contra le donne incrudelire. Ma io non voglio adesso entrar in questo profondo abisso. Solo dico che quanto più un uomo onora una donna, tanto più mostra egli esser nobile e degno d’ogni onore. State sano.


NOVELLA XXVII
Don Diego da la sua donna sprezzato va a starsi in una grotta, e come n’uscì.


Essendosi oggi buona pezza ragionato de la passata guerra e raccontatesi molte stratageme fatte per vincer così dai nemici come dai nostri, e ricordata la disgraziata morte di quel buon uomo, valoroso ed onorato vecchio, padre de la milizia, il conte di Collisano, che tutti di nuovo ci attrista, ora mi comandate, signor mio, che io con qualche piacevol novella rallegri tutta la compagnia, che quasi per così trista ricordazione ha le lagrime sugli occhi. E perciò che io so che appo voi non mi debbo nè posso scusare, ubidirò a quanto mi comandate, cioè di narrarvi una novella. Ma di potervi rallegrare non so io come sarà. Pure egli mi pare che diletterà ciò che io vi dirò per la varietà de le cose. Dico adunque che in Ispagna vicino ai monti Pirenei, non sono ancora molti anni passati, a certe sue castella abitava una vedova ch’era stata moglie d’un cavaliero di nobilissimo sangue in quei paesi nato, la qual di lui aveva avuta una figliuola senza più, molto vaga e bella, e quella teneva quivi e nodriva con gran cura. La fanciulla si chiamava da tutti Ginevra la bionda, perciò che aveva i suoi capelli in modo biondi che parevano fila d’oro ben brunito e terso. Erano, forse mezza giornata presso al luogo dove Ginevra la bionda abitava, alcune castella d’un cavalier giovine, che era anch’egli senza padre, e la madre l’aveva lungo tempo fatto dimorar a Barcellona a ciò che imparasse lettere, e insieme con le lettere i buoni e civili costumi con creanza di gentiluomo. Egli era divenuto costumato e molto gentile e, oltra le lettere, s’era dato a l’arme, di modo che tra i cavalieri giovini di Barcellona pochi ce n’erano suoi pari. Ed avendo i barcellonesi ordinata una giostra per onorar il re Filippo d’Austria, che per la Francia passò in Catalogna per andare a prendere il possesso di quei suoi regni in Spagna, fecero scielta [p. 297 modifica]d’alcuni giovini, tra i quali fu eletto per uno dei principali don Diego, del quale parliamo. Il perchè mandò a la madre che gli provedesse di quanto era bisogno a la giostra a ciò che potesse onoratamente, come era cosa ragionevole, in tal festa mostrarsi. La madre, che era donna saggia e che il figliuolo amava a par degli occhi suoi, gli mandò danari in abbondanza e servidori onorevoli, scrivendogli che non risparmiasse cosa alcuna pur che si facesse onore. Egli poi si provide di arme e di cavalli a proposito, e ogni dì sotto la cura d’un ottimo giostratore si essercitava. Venne il re Filippo e fu dai barcellonesi onoratamente ricevuto, e fattoli tutte le dimostrazioni che a quella città erano possibili, perciò che egli era genero di Ferrando re catolico, che alora per la morte de la reina Isabella era navigato verso il regno di Napoli, e morendo esso re catolico, Filippo d’Austria ereditava il tutto. La giostra si fece, ne la quale non giostrò se non giovini nobilissimi che mai più non avevano portato arme. De la giostra, che fu molto bella, don Diego ebbe l’onore. Onde il re Filippo, che il vedeva giovine di dicenove anni, lo fece cavaliere e a la presenza di tutta la città molto lo commendò, essortandolo a perseverar di bene in meglio. Partito il re Filippo per andare in Castiglia, don Diego che desiderava veder la madre che lungo tempo veduta non aveva, dato ordine a quanto era in Barcellona, di quella si partì e andò a le sue castella. Quivi da la madre amorevolmente raccolto si diede tutto il dì andar a la caccia ora di cervi ed ora di porci cingiari, dei quali il paese era pieno. Talvolta ancora entrava dentro la montagna ed ammazzava qualche orso. Avvenne un dì che, avendo lasciati i cani dietro alcuni caprioli ed egli seguendo il corso loro, trovò dentro un boschetto molti cervi, dei quali uno saltò fuori e si mise a correr dinanzi al cavaliero. Egli come vide il cervo, lasciata la traccia dei caprioli, deliberò correr dietro a quello, e detto ad alcuni dei suoi che lo seguissero, si diede a sciolta briglia a seguitarlo. Quattro di quelli che seco erano ed avevano assai buone cavalcature, seguitarono il lor padrone. Ma il correr lor durò poco tempo, con ciò sia che il cavaliero era sovra un giannetto grandissimo corridore. Onde lo perdettero di vista, di maniera che don Diego, seguendo il velocissimo corso del cervo, s’allontanò molto dai suoi. Ma non dopo molto avendo già corso buona pezza e sentendo che il cavallo perdeva la lena e il cervo più che prima via se ne volava, si ritrovò molto di mala voglia. Il cervo si dileguò dinanzi a lui, ed egli non avendo nessuno dei [p. 298 modifica]suoi seco, si pose il corno a bocca e cominciò fortemente a suonare per dar segno ai suoi. Ma egli era tanto lungi che dai suoi non poteva esser sentito. Onde, non sentendo alcuno che gli rispondesse, si mise passo passo per ritornar indietro, e tuttavia errava il camino come colui che non era pratico de la contrada. E, secondo che credeva tornar verso casa, andava verso il castello di Ginevra la bionda, la quale insieme con la madre e i lor vassalli era quel dì uscita a la caccia di lepri e veniva verso il cavaliero, il quale sentendo il grido che la compagnia di Ginevra la bionda faceva, verso il romore s’inviò e quanto più innanzi andava più il sentiva. Ma, non gli parendo che fossero i suoi, non sapeva che si fare. Era già su la sera e il sole calando faceva l’ombre maggiori. Il perchè don Diego, sentendo che il cavallo a pena si poteva muovere, per non restar in campagna solo, a la meglio che egli puotè si mise dietro al romore che udiva. Essendo un poco andato, vide un bellissimo castello che non era lontano un miglio italiano e quivi presso scorse una compagnia di donne e d’uomini che in quel punto avevano morto una lepre, e pensò che quella devesse esser la signora del castello. La donna veggendo il cavaliero, che a l’abito e al cavallo le parve persona onorata, e conoscendo che il cavallo vinto da stracchezza non poteva caminare, mandò uno dei suoi a spiar chi fosse. E inteso chi era, gli andò incontro e molto cortesemente lo raccolse e mostrò aver molto caro averlo veduto, per la buona fama che di lui e del suo valore aveva sentito, ed anco per rispetto de la madre, con la quale teneva buona amicizia essendo insieme confinanti. Egli era già sera, onde invitarono don Diego a restar con loro la notte, e mandarono subito uno che andasse ad avvertir la madre di lui a ciò che non lo veggendo ritornar quella notte a casa non stesse di mala voglia. Don Diego, basciate le mani a la madre ed a la figliuola, molto le ringraziò de la lor cortesia ed accettò l’invito. E così di brigata s’inviarono verso il castello de le donne, avendo elle fatto dar a don Diego un cavallo e menar a mano il suo giannetto, che era fuor di lena. Ne l’andare entrarono in diversi ragionamenti e avvenne che don Diego, che era bellissimo ed aggraziato giovine, alzando gli occhi si riscontrò a punto negli occhi di Ginevra la bionda, la quale lui fisamente guardava. Furono quei dui sguardi così focosi e di tanta forza, che don Diego di lei ed ella di lui restarono fieramente accesi e l’un de l’altro prigionieri. Risguardava l’acceso amante la bella giovanetta, che da sedeci in dicesette anni poteva avere, che suso [p. 299 modifica]una chinea guarnita di velluto cavalcava molto leggiadramente. Ella aveva in capo un cappello vagamente acconcio, con un pennacchio dietro che parte dei capelli le copriva. L’altra parte intorno al volto in due chiocchette crespe ondeggiando, pareva che proprio dicesse a chi le mirava: – Qui Amore con le tre Grazie e non altrove ha il suo proprio nido collocato. – Pendevano poi da le belle orecchie duo finissimi gioielli, e in ciascun di loro si vedeva una preziosa perla orientale. Scoprivasi l’ampia ed alta fronte di condecevol spazio, nel cui mezzo un finissimo diamante legato in oro scintillava, come nel sereno cielo le vaghe stelle talora raggiar si veggiono. Le nere come ebeno e stellanti ciglia, di minutissimi e corti peli inarcati, con debita distanza ai dui begli occhi sovrastavano, il cui splendore la vista di chi vi mirava in modo accendeva, che tutto di vivo fuoco far si sentiva, e chi fiso quelli guardava, così s’abbagliava come fa chi fiso vuol mirar l’ardente sole quando di giugno nel mezzo del puro cielo fiammeggia. Con questi poteva ella uccider ciascuno e, volendo, di morto render vivo. Il profilato naso, quanto al resto del vago volto conveniva formato, le rosate guance ugualmente divideva le quali di viva bianchezza ed onesto rossor cosperse parevano proprio duo rosati pomi. La picciolina bocca aveva duo labra che dui lucidi e fini coralli parevano. Quand’ella poi parlava o rideva, alora due filze di perle orientali si discoprivano, da le quali tale e sì soave armonia uscir si sentiva, con tanta grazia del parlare, che i più rozzi e scabri cori averebbe molli e piacevoli resi. Ma che dirò de la bellezza del vago mento? de la eburnea e candida gola? de le marmoree spalle? e de l’alabastrino petto, ove ella sotto un sottilissimo velo chiudeva due mamelline tonde, sode e delicate. Era il vergineo petto non molto rilevato, ma onestamente le sue bellezze mostrava convenienti a la tenera età de la fanciulla. Il resto de la sua snella e proporzionata persona si poteva facilmente giudicare non esser men bello, imperciò che diffetto alcuno non vi si scorgeva. Taccio le svelte braccia con le bellissime mani, le quali ella, spesso cavandosi i guanti profumati, lunghe, bianche e morbidette dimostrava. Nè faceva ella come molte fanno, le quali volendosi mostrar oneste appaiono triste e malinconiche, ma col viso temperatamente allegro, benigna, cortese e modesta appariva. Cingevale il diritto e bianco collo una catenella d’oro di sottilissimo lavoro, la quale dinanzi al petto pendente, ne l’amorosa vietta che le poppe d’avorio partiva, cadeva. La vesta era di zendado bianco, tutta maestrevolmente frastagliata, [p. 300 modifica]sotto a cui tela d’oro gaiamente riluceva. Mentre adunque che verso il castello cavalcarono, don Diego, secondo la costuma del paese, si pose dal canto destro Ginevra la bionda, e quella di redine conduceva, seco di varie cose ragionando. Era il cavaliero non meno bel giovine che ella fosse bella fanciulla. Giunti a l’albergo, volle la madre di Ginevra la bionda che il cavaliero alquanto si riposasse e fecelo condurre in una camera riccamente apparata, ove si cavò gli stivali. Egli aveva poca voglia di riposare; nondimeno per compiacer a la signora si cavò i panni da caccia, e d’altre ricche vestimenta che ella gli fece recare si vestì, tuttavia pensando a le divine bellezze de la giovane parendogli che simil beltà non avesse veduta già mai. D’altra parte, mentre egli stette in camera accompagnato da alcuni uomini de la donna, Ginevra la bionda non si poteva cavar di mente il veduto cavaliero, il quale in quella breve vista l’era parso il più bello, il più gentile e il più valoroso giovine che mai ella veduto avesse, e sentiva in pensar di lui una meravigliosa gioia per innanzi mai più da lei non sentita. E non se n’accorgendo, si sentì a la fine di lui esser fieramente innamorata, il quale medesimamente a lei pensando ed ora questa parte ora quell’altra di lei ammirando, beveva invisibilmente l’amoroso veleno, conchiudendo tra sè che per voler ammazzare un cervo egli era stato da la bella giovane d’amorosa saetta mortalmente ferito. Ora, i servidori di don Diego avendolo buona pezza ricercato ed orma di lui non ritrovando, se ne tornarono verso casa pensando che egli per altra via al castello si fosse tornato. Essendo vicini a mezzo miglio al castello incontrarono il messo mandato per avvertir la madre di don Diego che quella sera non l’aspettasse. E perchè erano circa due ore di notte, la madre, sapendo che il figliuolo era in buon luogo albergato, non volle per quella notte che altri ci andasse. Non erano i dui novelli amanti stati molto nei lor pensieri, che la cena fu in ordine, la quale era in una sala apparecchiata. Quivi condotto il cavaliero, fu da le due donne madre e figliuola graziosamente e con oneste accoglienze ricevuto e con piacevoli ragionamenti intertenuto. Si diede l’acqua a le mani e tutti tre, volendo così la signora, si lavarono, e fu astretto don Diego a mal suo grado a seder in capo di tavola. La signora si mise a banda destra e Ginevra la bionda al lato manco, e gli altri di mano in mano secondo l’ordine loro s’assisero. La cena fu di varii e delicatissimi cibi abbondante, ben che i dui amanti poco mangiassero. Aveva la signora fatto cavar vini preziosissimi, ancor che ella e la figliuola non bevessero [p. 301 modifica]vino, ma si trovò che anco don Diego mai non aveva gustato vino, essendo così da fanciullo avvezzo, di modo che essi tre bevevano acqua. Ma io, signor mio, se stato ci fossi, mi sarei accordato con gli altri che tutti bevevano vino. Chè, a dir il parer mio, e’ mi pare che tutti i cibi del mondo ove non giuoca il vino siano insipidi, e quanto il vino è megliore certamente saporisce più le vivande. La gentildonna, che era bella parlatrice, metteva gentilmente il cavaliero in varii ragionamenti, pregandolo tuttavia che mangiasse; e d’uno in altro parlare entrandosi, avvenne che ancora Ginevra la bionda si mise a ragionare di brigata, di modo che al cavaliero pareva esser in paradiso. Nè meno il ragionar di lui piaceva a le donne. E così ragionando e delicatamente cibandosi passarono quel tempo de la cena allegramente. Cenato che si fu, fin che venne l’ora di dormire il cavaliero parlò assai con la sua innamorata, ma non ardì mai di scoprirle il suo fervente amore, se non dirle generalmente che l’era servidore e che desiderava gli comandasse, perciò che stimaria che gli facesse favor grandissimo. La giovanetta, facendosi di più di mille colori, ringraziava modestamente il cavaliero de le sue offerte, ed ancora che le paresse comprender dagli atti e dal parlar di lui che egli non mezzanamente l’amasse, nondimeno ella mostrò non volersene accorgere per meglio ne l’avvenire spiar l’animo di quello. Venuta l’ora del dormire, dandosi com’è costume la buona notte, ciascuno s’andò a corcare. Ma qual fosse il sogno dei due novelli amanti, chi in simil laberinto s’è trovato il può di leggero conietturare. Eglino mai non dormirono e tutta la notte consumarono in pensieri, ora temendo, ora sperando, ora se stessi riprendendo ed ora animandosi a seguir l’impresa. A Ginevra la bionda pareva pure aver veduto non so che nel cavaliere, che indicio le facesse e le desse arra ch’egli l’amava e che se ella in lui metteva il suo amore che indarno non amarebbe, e con questo a le già cominciate fiamme amorose dava aita e fomento. Don Diego, avendo trovata al parer suo la giovane gentile, discreta, e tanto leggiadra e bella quanto imaginar si possa, si sentiva in ogni parte ardere ed era sforzato, ancor che non volesse, d’amarla. Ma, parendo a lui che pure se le fosse in qualche parte scoperto e non aver in lei trovata corrispondenza come averia voluto, restava di questo suo amore in dubio. Pensando poi che ella era ancor fanciulletta e che per l’ordinario le fanciulle deveno esser modestissime e non così di leggero dar credenza a le ciancie dei giovini, si confortava alquanto e sperava [p. 302 modifica]con fedel servitù acquistarla. Tali furono i pensieri quella notte dei dui nuovi amatori. Fatto il giorno, vennero i servidori di don Diego per accompagnarlo a casa. Erasi già levata la gentildonna del castello, la quale, dato ordine che il desinare fosse onorevole e presto, non volle che il cavaliero partisse la matina. Ed egli di grado si lasciò sforzare come colui che sempre averebbe voluto veder Ginevra la bionda; la quale quella matina, levatasi di letto, per meglio compiacer al suo amante s’abbigliò molto riccamente, ma con tanta galanteria che pareva che ogni cosa intorno le ridesse. E ben miratasi e rimiratasi ne lo specchio e consigliandosi ancora con le sue donzelle a ciò cosa in lei non fosse che potesse esser ripresa, se n’uscì di camera e venne in un giardino ove la madre di lei col cavaliero ragionando passeggiava. Come egli la vide, riverentemente la salutò, e fiso mirandola, se il giorno innanzi gli era paruta sommamente bella, ora gli parve che quanta mai beltà si potesse in donna desiderare o che dagli scrittori sia stata scritta già mai fosse perfettamente in costei, di maniera che non poteva levarle gli occhi da dosso. Medesimamente a lei parve che il cavaliere fosse pure il più bello e leggiadro giovine che trovare si potesse. E così vagheggiandosi pascevano gli occhi di quella dolce vista. Udirono poi messa in una capella nel castello e dopo la messa andarono a desinare. Come si fu desinato e che gli uomini con i cavalli di don Diego furono ad ordine, egli, rese quelle grazie a la signora del castello che seppe e puotè le maggiori, le basciò le mani offerendosi per sempre ai servigi di lei prontissimo. Rivoltatosi poi a Ginevra la bionda, umilmente le basciò le mani e volendo non so che dirle, vinto da soverchio amore, mai non seppe formar parola e meno sapeva lasciarle la delicata mano. Il che fu a la giovane certo segno che sommamente il cavaliero l’amava. Del che ella se ne ritrovò contentissima e disse quasi con tremante voce: – Signor don Diego, io son tutto vostra. – Preso adunque a la meglio che puotè da tutti congedo, montò con i suoi a cavallo e a la madre se ne ritornò a la quale disse le grate accoglienze e il grand’onore che aveva ricevuto. Era tra queste due vedove antica amicizia, di modo che assai sovente si solevano visitare e mangiar l’una a casa de l’altra. Onde don Diego, intendendo questo da la madre, ordinò di far una festa e farvi invitar Ginevra la bionda con la madre, e così fu fatto. La festa fu bellissima e piacevole d’apparato di suoni e d’onorevoli e belle donne. E ballando alcune danze il cavaliero con Ginevra la bionda e a poco a poco seco venendo domestico, le cominciò con accomodate parole [p. 303 modifica]il suo amore e la passione che lei amando sofferiva a discoprire. Ella, ben che volesse star alquanto ritrosetta, nol puotè perciò fare. Onde il cavaliero s’accorse molto agevolmente che ella di lui non meno ardeva. Dopo il danzare si fecero alcuni giuochi, e non lasciò il cavaliero cosa che potesse dar piacere a la brigata, onorando quanto più poteva Ginevra la bionda e la madre di lei. Cercando adunque i dui amanti mitigar le fiamme ne le quali l’uno per l’altro ardeva, più l’accrescevano bevendo l’uno de l’altro con la vista l’amoroso veleno. Avvenne che il giovine continuando questa pratica, e spesso a casa de la sua amante andando e quella a casa sua invitando, che le due madri s’avvidero di questo amore, nè punto spiacque loro questa pratica, con ciò sia cosa che la madre del cavaliero volentieri averebbe presa Ginevra la bionda per nora e l’altra vedova non men volentieri averebbe voluto don Diego per genero. Ma come spesso accader suole che certi rispetti che hanno le persone guastano mille bei disegni, nessuna voleva esser la prima a metter la cosa a campo. Era a queste castella vicina l’abitazione d’un ricco cavaliero molto di don Diego amico, al quale fu più volte don Diego per palesar questo amore e chiedergli conseglio, e nondimeno, dubitando offender la sua amante, si ristette. Era già tanto cresciuta la domestichezza tra i dui amanti, che quasi ogni dì don Diego andava al castello de la donna ed ivi tre e quattro ore se ne stava a diporto e spesso vi cenava e poi a casa riveniva, di maniera che ciascuno s’avide di questo lor amore. I dui amanti altro non desideravano che congiungersi con nodo maritale insieme, ma Ginevra la bionda non ardiva a la madre manifestar il suo disio ed altresì il cavaliero nulla a la madre diceva. E parendo anco a le madri loro che tutti dui fossero assai giovinetti e che tempo ci sarebbe da vantaggio a maritargli insieme, se ne passavano senza dir altro, avendo piacere di questa pratica. Mentre che le cose erano in questi termini, occorse che una giovane assai bella e figliuola d’un gentiluomo del paese, che molto spesso in casa di Ginevra la bionda si trovava, s’innamorò fieramente di don Diego e quanto più poteva s’ingegnava di far che egli l’amasse. Ma il cavaliero, che tutto il suo core aveva in Ginevra la bionda, non metteva mente a cosa che quella si facesse. Venne a le mani di questa giovane un perfettissimo sparviero, e sapendo ella quanto don Diego d’augelli di rapina si dilettasse, glielo mandò a donare. Il cavaliero più oltra non pensando l’accettò, e donato un paio di calze al portatore, mandò mille grazie a la giovane offerendosi ai suoi servigi. E alora [p. 304 modifica]essendo il tempo d’augellare ai pernicioni e provato l’augello esser dei megliori che si trovassero, non è da domandare se lo teneva caro. Egli aveva mandato due volte a donar dei pernicioni a Ginevra la bionda, ed essendo anco ito a vederla aveva portato lo sparviero in pugno. E ragionando de la sua bontà disse che lo teneva caro quanto gli occhi suoi. Ciascuno, come s’è detto, s’accorgeva de l’amor di questi dui. E ragionandosi un giorno in casa di Ginevra la bionda a la presenza sua di don Diego ed essendo da tutti lodato per un vertuoso e compito cavaliero, un ser Graziano disse ch’era vero che don Diego era giovine vertuoso, ma che era come l’asino del pentolaio, che dà del capo per ogni porta. Maravigliatasi Ginevra la bionda di questo motto, pregò colui che più chiaramente parlasse. Egli, che si teneva un gran savio, disse: – Signora, i pentolai che vanno vendendo pentole, scudelle ed altri vasi di terra per le ville su l’asino, si fermano ad ogni uscio. Così fa il cavalier don Diego. Egli fa a l’amor con quante giovanette vede ed ora egli è ardentemente innamorato de la figliuola del signor Ferrando de la Serra, da la quale ha avuto uno sparviero che tien più caro che la propria vita. – Non so se queste parole quel ser Bufalone dicesse da sè o che da altri fosse indutto a dirle. Ben so che furono cagione di grandissimo male, come intenderete, perciò che come Ginevra la bionda l’ebbe udite si partì dal luogo ov’era e se n’andò a la sua camera, ove entrò in tanta gelosia ed appresso in così fiera còlera che fu più volte per disperarsi, e tanto prese questa cosa a sdegno che l’amore che a don Diego portava convertì in crudelissimo odio, non pensando che colui che la cosa aveva detta poteva esser mosso da altrui, o dettola per invidia e malignità. Da indi a poco tempo il cavaliero, com’era usato, venne a veder la non più sua Ginevra la bionda, la quale come udì ch’egli era smontato in castello, di fatto se n’andò a la sua camera e dentro si serrò. Il cavaliero venuto in sala si mise a ragionar con la madre de la irata giovane, e buona pezza vi s’intertenne, ed aveva in pugno quello sparviero del quale contava i miracoli che faceva. Ora, veggendo che Ginevra la bionda non compariva come era solita, domandò ciò ch’era di lei e gli fu risposto che quando egli venne, che ella se n’era andata in camera. Di che egli non fece altro motto. Quando poi gli parve tempo, tolta licenza da la signora vedova si partì, e discendendo le scale riscontrò una donzella de la giovane, a la quale disse che in nome di lui basciasse le mani a la sua padrona. Questa cameriera era consapevole de l’amor di tutti dui, e de lo [p. 305 modifica]sdegno de lo sparviero nulla ancora sapendo, fece l’ambasciata a la sua signora. Aveva già Ginevra la bionda saputo che don Diego era con lo sparviero in pugno venuto, e quello mirabilmente commendato. Onde ella teneva per fermo che in dispregio di lei recato lo avesse. Il perchè, oltra che credeva fermamente che egli con quell’altra giovane facesse a l’amore, si teneva anco da lui beffata e schernita, onde di maggior sdegno s’accendeva, e così l’era entrata questa fantasia nel capo che non era bastante cosa del mondo a levarle questo farnetico di mente. Ora la cameriera venne in camera e le fece l’ambasciata del cavaliero, di che ella più sdegnata: – Ahi sleale amante, – disse, – e temerario, che avendomi tradita e me, per un’altra a me in nessuna parte uguale, abbandonata, ancora ardisce di venir ov’io sono e mandarmi per più mio dispregio a basciarmi le mani. Ma a la fè di Dio io gliene farò l’onore che merita. – E alora disse il tutto a la donzella, de lo sparviero e de l’amore di don Diego con la figliuola del signor Ferrando. La cameriera queste favole sentendo e verissime credendole commendò molto la sua padrona di questo proposito, aggiungendo stipa al fuoco. Amava questa donzella un giovine in casa, il quale, non saperei dire per qual cagione, voleva un gran male a don Diego, e spiacevagli oltra modo che egli devesse prender per moglie Ginevra la bionda. Onde, intendendo la cagione di questo sdegno, ordì tra sè una certa favola: fingendo aver da persona degna di fede udito dire che don Diego, se non fosse stata la riverenza che a la madre portava, averebbe di già quell’altra giovane de lo sparviero sposata, fece che la cameriera quest’altra favola a la sua donna disse la quale ella troppo bene credette. E deliberata troncar questa pratica e far che don Diego più innanzi non le venisse, domandò un paggio e strettamente gli commise che il dì seguente devesse star fuori del castello a certo luogo, ove, venendo, don Diego per forza giungeria e a lui dicesse: – Signor don Diego, Ginevra la bionda mi manda a voi e per me vi dice che debbiate andar al luoco donde il vostro buon sparviero a voi tanto caro viene, perciò che qui non prenderete voi più nè pernicioni nè quaglie. – Andò al tempo suo al luogo a lui assegnato il paggio, e tanto ivi stette che don Diego, secondo la sua usanza, ci venne. Come il paggio il vide, così se gli fece incontro e li disse quanto la padrona sua comandato gli aveva. Il cavaliero, che era intendente ed accorto, intese assai bene il gergo. Onde, senza andar più innanzi, a casa ritornò tutto di mala voglia, e come fu giunto andò a la sua camera e scrisse una lettera tale [p. 306 modifica]quale il caso richiedeva, e preso lo sparviero quello ammazzò ed insieme con la lettera per un suo servidore che fece montare a cavallo a Ginevra la bionda mandò. Ma ella, giunto a lei dinanzi il servidore, non volle nè lettera nè sparviero accettare. Solamente a bocca disse al messo: – Compagno, ne dirai al tuo signore che più non mi venga dinanzi e che io sono assai chiara dei casi suoi, ringraziando con tutto il core Iddio che assai a buon’ora de la sua poca fede avvista mi sono. – Ritornò il messo con questa fiera ambasciata al signor suo ed il tutto per ordine li riferì. Egli quanto a questo annunzio si smarrisse, quanto sbigottito restasse, quanto si lamentasse de la sua disgrazia ed affligesse, non è da dire. Tentò mille vie per chiarirla e farle conoscere che ella da maligne lingue era ingannata, ma il tutto fu indarno, chè mai ella non sì volle rappacificare nè prestar orecchie a le veraci escusazioni del vero amante, perciò che già s’aveva così saldamente chiavata questa falsa openione nel core, che non era possibile indi diradicarla. Onde nè lettere nè ambasciate mai più volle da lui accettare. Veggendosi lo sfortunato amante senza sua colpa esser di questa maniera trattato, e non potendo tanta doglia sofferire nè ritrovando via nè modo di scemar le sue fiamme, che pareva che tuttavia s’augumentassero, egli cascò in tanta malinconia che quasi ne fu per morire. Fu legger cosa a conoscer l’infermità del cavaliero non frequentando più come soleva la pratica de la giovane, e le due vedove se ne ridevano pensando che fossero corrucci fanciulleschi. Don Diego, poi che vide invano aver tentato tutti quei rimedii e mezzi che gli potevano recar profitto, avendo il viver in dispregio e per se stesso non si volendo uccidere, deliberò tentar un’altra via, cioè allontanarsi da la cagione del suo male e andar qualche dì vagabondo in qua e in là, sperando che questo gli devesse scemar tanta sua fiera doglia. E fatto questo suo sì fiero proponimento, mise ad ordine tutto quello che gli parve di far portar seco, e tra l’altre cose fece far un abito di romito per sè e per un compagno che intendeva menare ovunque egli andasse. Scrisse anco una lettera e quella diede ad uno dei suoi servidori e disse: – Io vo’ andar in un certo mio bisogno, nè voglio che mia madre nè altri sappia ov’io vada; come io sia partito, dirai a la signora mia madre, se ella dimanda ove sia ito, che nol sai, ma che ho detto che fra venti dì ritornerò. Appresso, passati i quattro giorni dopo il mio partire e non più tosto, tu porterai questa mia lettera che ora ti do a Ginevra la bionda, e s’ella non volesse accettarla [p. 307 modifica]tu la darai a sua madre. E guarda, per quanto hai cara la vita, non preterir quest’ordine. – Il servidore gli rispose che non dubitasse, che il tutto farebbe come egli ordinato gli aveva. Fatto questo, don Diego chiamò un altro suo fidatissimo servidore, che era uomo da bene e pratico de le cose del mondo, e a lui aperse tutto il suo core di quanto intendeva fare. Il buon uomo biasimò assai questa sua irragionevole deliberazione e si sforzò con buone ragioni levarlo fuor di questo farnetico, ma nulla fece di profitto chè egli aveva deliberato far così. Il che veggendo, il leale ed amorevole servidore pensò tra sè che era minor male che egli andasse seco, perciò che poteria a lungo andare levargli di capo questa fantasia, e stando al continovo con lui guardarlo da qualche altro più noioso accidente. E così disse che anderebbe seco e che mai non lo abbandoneria. Accordati adunque insieme e messo ad ordine il tutto, la seguente notte tutti dui montarono a cavallo, don Diego sovra un buon giannetto di meraviglioso passo ed il servidore sovra un gagliardo cavallo con la valige. Erano circa tre ore di notte quando si partirono, e cavalcarono tutta la notte gagliardamente, e come cominciò a farsi il giorno si diedero a caminar per traversi e vie disusate, a ciò da nessuno fossero veduti; e così andarono fin a quasi mezzo dì. Egli era del mese di settembre e non faceva molto caldo. E parendo al cavaliero che molto da la sua stanza si fosse dilungato e che potevano i cavalli rifrescare, andò ad un casale che era fuor d’ogni strada commune, e quivi comprato ciò che ai cavalli e loro era bisogno, mangiarono e lasciarono riposar circa tre ore i cavalli, che bisogno ne avevano. Montati poi a cavallo, andarono tre giornate di questa simil maniera e pervennero al piede d’un’alta montagna, che molte miglia era fuor de la strada commune. Il paese era selvaggio e solitario, pieno di varii arbori, di conigli e lepri ed altre salvaticine. Era quivi una capacissima di molte genti grotta, presso a la quale sorgeva una limpida e fresca fontana. Come il cavaliero vide il luogo, e senza fine piacendoli, disse al servidore: – Fratello, io voglio che questa sia la mia stanza fin che questa breve vita mi durerà. – Quivi adunque smontati e ai cavalli levati i freni e le selle, quelli lasciarono andare ove più lor aggradiva, dei quali mai più non si seppe novella, perciò che pascendo l’erbe e da la caverna allontanandosi creder si deve che divenissero èsca di lupi. Il cavaliero, fatto porre in un canto de la spelonca le selle, i freni e l’altre cose, deposti i panni consueti, si vestì col servidore l’abito da romito, e con legni di modo [p. 308 modifica]la bocca de la grotta conciò che fiera alcuna non ci poteva entrare. Era la grotta molto spaziosa e tutta ne l’arido fondo cavata. Quivi di foglie di faggio s’acconciarono duo lettucci a la meglio che si puotè. E così se ne stettero molti dì, vivendo di bestie salvagge che il servidore con una balestra che recata aveva ammazzava, ed assai sovente di radici d’erbe, di frutti selvaggi, di ghiande e d’altre simili cose, e la sete si levavano con l’acqua de la fontana, cosa che al cavaliero non deveva dar noia non bevendo egli vino. In questa sì povera e selvestre vita se ne stava don Diego ed altro mai non faceva che pianger la durezza e crudeltà de la sua donna, e come una fiera tutto il dì per quei borroni solo se n’andava, forse cercando qualch’orso che la vita gli levasse. Il servidore attendeva quanto più poteva a pigliar de le salvaggine, e come comodamente gli veniva l’occasione, essortava il suo padrone a lasciar questa vita bestiale e a casa tornarsene, e trattar Ginevra la bionda da sciocca come ella era, che non conosceva il suo bene e non meritava che sì nobil e ricco cavaliero l’amasse. Come si veniva su questi ragionamenti, don Diego non poteva soferire che mal di lei si dicesse e comandava al servidore che d’altro parlasse, e a pianger e sospirar si dava, di modo che in breve perduto il natural colore e divenendo tuttavia più macilente e magro, più a uomo selvaggio che ad altro rassembrava. L’abito anco bigio con quel cappuccino di dietro che portava, la barba che gli cresceva ed i capelli sbaruffati e gli occhi che ne la testa più ognora gli entravano, l’avevano di modo trasformato che non ci era rimasa nessuna de le sue solite fattezze. La madre non veggendo la matina don Diego venir a desinare domandò di lui. Il servidore, a cui il cavaliero aveva data la lettera per dare a Ginevra la bionda, disse a la madre com’egli era cavalcato con un sol servidore e che fra spazio di venti dì aveva detto che tornarebbe. A questo la buona madre s’acquetò. Passati i quattro dì dopo il partire del cavaliero, il servidore portò la lettera a Ginevra la bionda, e la ritrovò a punto in sala con la madre, e fatta la debita riverenza le diede in mano la lettera. Come ella conobbe che era lettera di don Diego di subito la gettò in terra e tutta cangiata di colore e piena d’ira disse: – Io gli ho pur fatto intendere che non voglio sue lettere nè ambasciate. – La madre ridendo: – Questa per certo è una gran còlera, – disse, – recami qua la lettera, ed io la leggerò. – Uno di quei di casa, presa la lettera, la porse a la padrona, la quale, aprendola, trovò che diceva in questo modo: «Poi che, signora mia, la mia innocenzia appo voi [p. 309 modifica]non ritrova luogo che nel vostro core possa imprimer cosa alcuna de le sue veraci ragioni, veggendo io per manifestissimi segni che a noia vi sono, anzi pur che mortalmente mi odiate, e non potendo sofferire che in nessuna quantunque minima cosetta io vi sia cagione di dispiacere, ho deliberato andarmene tanto lungi da queste contrade, che nè voi nè altri mai più abbia nuova di me, a ciò che restando io sfortunatissimo voi possiate viver contenta. Durissimo m’è e fuor di modo tormentoso il vedermi da voi sprezzato; ma molto più duro e di maggior tormento mi è saper che voi per me o per cosa che io mi faccia, ancor che ben fatta sia, vi debbiate adirare o averla per male, per ciò che in me ogni supplizio è minore di quello che un vostro sdegno mi genera. E perchè la mia vita, come debole, non potria lungamente tanti aspri martìri quanti ognora soffro sopportare, prima che ella manchi, che sarà in breve, ho eletto in questa mia ultima lettera far nota la semplice verità dei casi miei, non perchè a voi ne venga infamia, ma per testimonio de la mia innocenzia. Chè non volendo io in disgrazia vostra vivere, sappia almeno il mondo che quanto si possa donna da un uomo amare vi ho io amata, amo ed amerò eternamente, portando ferma speranza che quando io sarò morto averete, ben che tardi, di me pietà, perciò che a la fine conoscerete che io mai non commisi nè pensai far cosa che ragionevolmente vi potesse recar noia. Vi amai, come sapete, non per rubarvi l’onor de la vostra verginità, ma per avervi, piacendo a voi, per sposa, e di questo non ci è meglior testimonio che voi. Ora, non avendo voi mostrato ira contra me se non per cagione de lo sparviero che mi fu questi dì donato, vi dico che Isabella figliuola del signor Ferrando mi mandò a donar il detto augello, e mi sarebbe paruto far gran discortesia a non accettarlo, essendo doni che tra gentiluomini si costumano. Ma con Isabella non ho parlato già mai se non in casa vostra ed a la presenza vostra. Che ella m’abbia amato del modo che voi vi sète imaginata, questo non so io, perciò che meco non ne parlò già mai. E se parola detto me n’avesse, ella sarebbe restata chiara che io non aveva se non un core che più non era in mia libertà, avendone io a voi di già fatto un dono irrevocabile. Ora, sapendo ella che io per rispetto vostro abbia il suo sparviero strangolato e dato a mangiar a’ cani, credo che sia certa che io punto non l’ami. E questo deveva pur anco farvi conoscer l’innocenzia mia. Ma folto ed oscuro velo di fiero ed ingiusto sdegno v’ha di maniera velati gli occhi ed accecati, che non vi lascia veder il vero. Nè io altro [p. 310 modifica]testimonio saperei de l’innocenzia mia darvi che il mio core che vosco alberga. Sia adunque così, poi che così vi piace. Avendomi voi in odio, non potrei far altrimenti che odiar me stesso, e veggendo che la mia morte v’aggrada, ed io ne morrò. Una sola cosa mi duole, che rimanendo io innocente voi debbiate restar colpevole. La mia morte altro non sarà che un brevissimo sospiro, e la vostra crudeltà che meco usate vi sarà sempre innanzi agli occhi. Io priego Iddio che tanto vi faccia lieta, quanto voi desiderate che io sia tristo. Statevi con Dio.» Restò piena d’infinito stupore la donna vedova quando ebbe letta la lettera, e forte biasimò la figliuola che a simil rischio avesse condotto sì gentil ed onorato cavaliero, e molto le disse male. Ma ella era tanto adirata e sì odiava il cavaliero, che le pareva gioire udendo che egli era in pena. Fatto poi chiamar il servidore di don Diego, gli domandò quanto era che il suo padrone si partì. Egli disse che erano cinque giorni. – E bene, – rispose la donna, – va e raccomandami a sua madre. – Ella non volle che del tenore de la lettera alcuno fosse consapevole se non la figliuola, e quando la sgridò elle erano sole. La madre di don Diego, poichè passati i quindici e venti dì non vide rivenir il figliuolo, e che molti altri giorni l’ebbe indarno aspettato, tutta di mala voglia, mandò in quanti luoghi ella puotè imaginarsi per aver nuova di lui; ma nulla mai ne puotè spiare. Ed avendo pur inteso non so che del corruccio di Ginevra la bionda per rispetto d’uno sparviero, mandò a la madre di lei per intendere se cosa alcuna sapeva dove don Diego fosse. Ma ella, per non la metter in disperazione, non le volle far sapere ciò che la lettera scritta a la figliuola conteneva. Ora, qual fosse la vita de la sfortunata madre di don Diego, pensilo ciascuno che sa che cosa sia amor di madre verso un figliuolo, e tanto più quanto è vertuoso, ben allevato e pieno di buon costumi. Ella, piangendo tutto il dì, chiamava come forsennata il suo figliuolo, e miseramente s’affligeva, ma non morì perchè si muor di doglia a ciò che tuttavia il tormento divenga maggiore. Erano già passati circa quattordici o quindici mesi che il misero don Diego s’era partito da casa e fatto compagno de le fiere selvagge tra spelonche e boschi, e dal suo servidore in fuori mai non aveva veduto uomo, e per l’aspra vita che di continovo aveva fatto e l’accerbo pianger che faceva e la mala contentezza de l’animo che ognora il rodeva era sì trasfigurato, che se la madre istessa l’avesse veduto non l’averebbe raffigurato. Ora, pentita la fortuna di tanta indegnità quanta il povero cavaliero a torto sofferiva, [p. 311 modifica]cominciò a volersi pacificare. Avvenne adunque che quel cavaliero, di cui di sopra vi ragionai che volle don Diego far consapevole del suo amore, e poi, non so come, si restò che nulla gli disse, ritornando di Guascogna ove per suoi affari era ito, passò per quelle contrade ove don Diego era boscareccio cittadino, e la via errando s’abbattè a passar per dinanzi l’abitata caverna, e quivi veggendo molti vestigi umani, essendo quasi un’arcata da quella lunge, gli parve vedervi entrar dentro uno, ma non puotè scernere chi si fosse. Egli era don Diego, che tornando da’ vicini luoghi, ove sovente andava piangendo la sua mala sorte, e sentendo il calpestio dei cavalli, vi s’era dentro appiattato. Come il cavaliero cavalcante, che si chiamava Roderico, vide questo, e conoscendo aver errato il camino, disse a uno dei suoi servidori che spingesse innanzi il cavallo e vedesse chi fosse là dentro e domandasse il gran camino. Andò il servidore e, veggendo l’entrata de la grotta con pali turata, non ardì appressarsi, e meno ardì spiar del camino, dubitando che là dentro non abitassero malandrini. Onde, essendo al padron ritornato e dettoli quanto aveva veduto e il dubio che aveva, si tacque. Il cavaliero, che era valente ed animoso e ben accompagnato, con tutti i compagni a la spelonca andò e, chiamato chi là dentro fosse, vide aprir l’uscio ed uscir il servidore di don Diego sì trasformato da quello ch’esser soleva, che proprio assembrava ad uomo selvaggio. A costui domandò il signor Roderico chi fosse e quale era il diritto camino per andar al suo viaggio. – Siamo, – rispose il servidore, – dui poveri compagni come volle fortuna capitati qui per nostra mala ventura, e ci stiamo a far penitenza dei nostri peccati. Ma che paese sia questo e qual sia il camino, io non vi saprei insegnare. – Venne desiderio al signor Roderico d’entrar dentro la grotta e smontò con alcuni dei suoi e v’entrò. E veggendo quivi don Diego che passeggiava, ma nol conoscendo, gli fece la simil domanda che al suo servidore fatta aveva. Or mentre che egli con lo sconosciuto don Diego ragionava, quelli che seco erano smontati, per la caverna or qua or là andando, il tutto curiosamente rimiravano. E ritrovate quivi due selle in un cantone, de le quali una era riccamente guarnita e molto ben lavorata, disse un di loro scherzevolmente al servidor di don Diego: – Padre romito, io non veggio qui nè cavallo nè muletto nè asino, onde sarà meglio che voi mi vendiate queste selle. – Se elle, signori, vi piaceno, – rispose il romito, – prendetele senza prezzo a vostro piacere. – In questo il signor Roderico, avendo [p. 312 modifica]ragionato con don Diego e non potendo cavarne cosa alcuna, disse ai suoi: – Orsù andiamo e lasciamo questi romiti con Dio, procacciando altrove ritrovare chi la strada ci insegni. – Alora uno dei suoi gli rispose: – Signore, qui sono due selle, de le quali una è signorilmente guarnita e mostra che sia stata di qualche giannetto. – Egli le fece a sè dinanzi recare e come videla bella così, gli occhi corsero ad una impresa che ne l’arcione era maestrevolmente dipinta, a cui era questo motto scritto: «Quebrantare la fe es cosa muy fea», che in lingua nostra vuol dire: «romper la fede è cosa molto brutta». Come egli vide l’impresa ed il motto, così tantosto conobbe quella sella esser stata di don Diego. Onde caddegli ne l’animo che egli uno di quei dui romitelli fosse. Il perchè, mirando quanto più poteva fisamente l’uno e l’altro, mai non puotè sembianza di lui conoscere: così l’aveva la selvaggia vita, e il dirotto pianto che di continuo faceva, da le prime fattezze cambiato. Domandò poi loro come quelle selle quivi fossero state recate. Don Diego, che il cavalier suo amico conobbe a la prima e dubitava forte esser da lui conosciuto, tutto a questa domanda nel viso si cambiò e disse che in quella grotta l’avevano trovate. Veggendo il signor Roderico il cambiar del colore che il romito fece e più diligentemente riguardandolo, s’avide d’un neo che di sei o sette peluzzi più biondi che oro brunito egli sul collo aveva. Per questo, credendo fermamente che questo fosse don Diego, se gli lasciò cadere al collo abbracciandolo tenerissimamente, e tuttavia diceva: – Veramente voi sète il signor don Diego. – L’altro romito, che ben aveva conosciuto il signor Roderico, come il vide piangere e così amorevolmente abbracciare il suo padrone, tutto s’intenerì e con molti singhiozzi cominciò forte a piangere. Don Diego altresì, che si sentiva al collo uno dei cari amici che al mondo avesse, non si puotè tanto contenere che a mal suo grado gli occhi di lagrimosa rugiada non se gli colmassero; nondimeno egli niente rispondeva. Ma tuttavia dicendo il signor Roderico: – Voi sète pur quello, voi sète il mio signor don Diego, – egli lasciò in abondanza di molte calde lagrime rigarsi il volto, e quello che con parole non poteva e non voleva esprimere, il natural instinto con le lagrime assai apertamente manifestava. Il perchè il signor Roderico gli replicava pure: – Signor mio, voi non me lo potete negare; io vi conosco, e so che sète quello. – A la fine fu astretto per mille vie don Diego a manifestarsi, e disse: – Io sono l’infelice don Diego, quel tanto vostro amico, e poi che la fortuna vi ha condotto in questo solitario luogo, io vi priego che vi contentiate di [p. 313 modifica]avermi veduto, e andarvene, e lasciarmi finir qui quel poco di vita che mi avanza, e mai non palesar che io sia vivo, e così comandare a questi vostri che a nessuno mi manifestino. – Il signor Roderico piangendo così gli rispose: – Signor mio, io ringrazio Iddio d’avervi ritrovato, cosa che punto non pensava, perciò che vostra madre e tutti credevano che voi fossi morto. Ora disponetevi a ritornar meco a casa e rallegrar vostra madre, che tanto de la perdita vostra s’afflige, e consolarla insieme con gli amici vostri. – Assai furono le parole che si dissero, ma egli non voleva intender di tornar a casa, e menato in disparte il signor Roderico a quello tutta l’istoria del suo infortunio e de la sua deliberazione puntualmente narrò. Quando il buon signor Roderico intese questa cosa, quasi isvenne per pietà, e sovennendogli alora di colei che egli ardentissimamente amava e temendo a simil disaventura pervenire, restò quasi morto, e tanta compassione a don Diego ebbe quanta egli a se stesso averebbe avuta. Onde propose quindi non partir senza lui, e usata ogni persuasione che seppe, si sforzava indurlo a lasciar quella sì aspra e bestial vita. Ma tanto mai non puotè dire nè tanto mai seppe persuaderlo che egli volesse consentir di partirsi, perciò che diceva che senza la grazia di Ginevra la bionda quindi mai non partiria. Il signor Roderico poi che invano vide affaticarsi, il pregò che di questo almeno gli volesse compiacere, di prometterli d’aspettarlo, per duo mesi in quel luogo e cangiar vita, perchè gli dava l’animo di far che Ginevra la bionda seco si rappacificarebbe. A questo egli consentì. Onde il signor Roderico gli lasciò il suo letto che portava seco in viaggio, e volle che lasciati quei panni da romito egli si vestisse i suoi panni, che ancora erano ne la caverna. Ma don Diego disse non voler cangiar abito fin che non aveva la pace. Gli lasciò anco il signor Roderico dui servidori a cavallo con danari a bastanza, a fine che sempre un di loro procacciasse in qualche villa vicina da vivere e quanto era bisogno fin ch’egli tornasse. Poi con molte lagrime da don Diego partito, ritornò al suo viaggio, notando ben la via per sapervi tornare; e caminando pensava di continovo a la sventura de l’infelice suo amico, biasimando la fiera crudeltà de la giovane. Ora, poi che egli fu giunto a casa, ordinò ai suoi che nessuno facesse motto di don Diego e perchè era vicino e domestico in casa di Ginevra la bionda, cominciò a praticarvi più spesso che non soleva e con sommissima diligenza spiar tutta la vita di lei. Ed oggi una cosa e dimane un’altra intendendo, si accorse assai di leggero che ella d’un servidore allevato in casa molto si fidava. Il perchè [p. 314 modifica]cominciò di quello farsi domestico e con doni farselo amico. Nè guari continuò questa pratica che da lui conobbe tutti i segreti di Ginevra la bionda. Conobbe adunque come ella, dopo il corruccio contra don Diego, s’era innamorata d’un giovine biscaglino, che in Biscaglia aveva certa poca giurisdizione in una villa ed in casa di lei serviva per trinciante, uomo di molte parole e che si faceva molto ricco sotto speranza de la morte di certi suoi parenti. Egli alora non era in casa, ma in breve ci deveva tornare, e come fosse tornato Ginevra aveva conchiuso con una sua donzella e questo servidore nodrido in casa d’andarsene seco in Biscaglia. Come il signor Roderico intese questo, forte si meravigliò di tanta pazzia che voleva far Ginevra la bionda e diceva tra sè: – Quanto sei ingrata, giovane, e crudele a la fedele e lunga servitù di così nobile, ricco e vertuoso cavaliere come è don Diego, che più assai che la vita propria ti ama! Ma se le forze mie non mi verranno meno, io spero che i tuoi mal regolati pensieri non ti riusciranno e che di don Diego sarai e non d’altrui. – Ora egli disse al servidore che la trama gli aveva scoperta: – Veramente questa giovane fa bene a torsi marito, poi che a sua madre par che non caglia di maritarla. Ella è giovane e bella e d’età convenevole ed ha preso un gentiluomo, e se non è egli sì ricco come si vorria, ella ha roba per tutti dui perchè dopo la morte de la madre resterà erede del tutto. – Dopo queste parole, il signor Roderico stava attento quando venisse il giovine biscaglino, il quale fra tre di ritornò ed aveva condutto duo biscaglini, uomini prodi de la persona, a ciò ch’eglino l’accompagnassero quando si partiria con Ginevra la bionda. Quel dì medesimo che il biscaglino arrivò, era il signor Roderico al castello di Ginevra la bionda, e veggendo che l’amante era ritornato disse al servidore che ogni cosa gli rivelava: – Io veggio ritornato l’amico, e tosto vi partirete. Se tu prima che partiate vuoi nulla, domanda, e guarda far le cose tue saggiamente e non dir così coteste cose a ciascuno. A me tu puoi dir il tutto, perciò che da me mai non ne uscirà parola. Quando partirete voi? – Noi partiremo, per quanto mi ha detto la mia signora non è un’ora, la tal notte a le quattro ore di notte. – Inteso che ebbe questo il cavaliero, se ne tornò al suo castello, ove ordinò quel tutto che a lui parve bisogno per far quanto gli era caduto ne l’animo. Giunta la notte che Ginevra la bionda deveva col suo amante fuggire, quando furono le quattro ore di notte, ella con la donzella che seco dormiva per una finestra, dove le scale erano apprestate, discese a basso tanto chetamente che nessuno sentì, [p. 315 modifica]ed uscita de la terra venne dove i cavalli erano ad ordine, e quivi tutti montati cominciarono a cavalcare. Il signor Roderico, che sapeva il viaggio che devevano fare, s’era con una decina di buoni uomini suoi soggetti posto quella sera in aguato in un bosco lontano da ogni abitazione circa sei miglia, Ed ecco che di due ore innanzi dì arrivarono i fuggitivi presso l’imboscata ove il cavaliero con i suoi armati aspettava, il quale tutti aveva ottimamente ammaestrati di quanto era di bisogno. Come furono per scontro l’imboscata, il signor Roderico con i suoi uscì gridando: – Ahi, traditori, voi sète morti! – ed egli con una lancia sovra mano corse a dosso a l’amante, che ancor che fosse notte conobbe, e quello de la lancia aspramente ferendo, gli passò la gola di banda in banda, di modo che il misero cadde a terra morto. I biscaglini, veggendo il lor capo ucciso diedero degli sproni ai cavalli e fuggirono ove più loro piacque, senza saper chi avesse il giovine morto. Il che molto facile gli fu, perchè i compagni del cavaliero, veggendo che non s’erano posti a la diffesa come credevano che devessero fare, attesero a pigliar le due donne ed il servidore che la cosa aveva manifestata, confortandogli che non avessero paura. Era il cavaliero con i suoi stranamente abbigliato per non esser di leggero conosciuti; e subito fatto porre il morto giovine suso il suo cavallo, ma prima con drappi turatoli i buchi de la gola a ciò che più sangue non ne uscisse, fece ciascuno cavalcare. Ginevra la bionda amarissimamente piangeva e fieramente gridava. Onde uno di quelli armati, che aveva una barbaccia nera con dui occhi stralunati che pareva il gran diavolo, se le fece innanzi con un pugnale in mano, e con una terribil voce le disse minacciando: – Giuro a Dio, se tu gridi, che io ti segherò la gola. Taci, chè tu hai meglio che tu non meriti, chè si fa il tuo bene e non lo conosci. – E cavalcando pervennero ad una chiesetta fuor di strada, ove più tosto che si puotè interrarono il morto e attesero a cavalcare. Erano quattro o cinque ore di giorno quando in certo boschetto vicino ad una villa si fermarono, e mandato a la villa a pigliar da mangiar per loro e per i cavalli si rifrescarono. Ginevra la bionda tuttavia piangendo, nulla o poco mangiò, e non puotè mai conoscere chi fossero quelli che la conducevano. La notte albergavano in case lontane da le ville e non permettevano che nessuno potesse parlare nè a lei nè a la donzella, nè anco al suo servidore. Ora, essendo una notte alloggiati in una picciola villa vicina a la grotta ove don Diego albergava circa sette miglia, il signor Roderico mandò un suo a don Diego, facendogli sapere quanto [p. 316 modifica]fatto s’era e che innanzi al desinare egli con la compagnia sarebbe là. Erano circa cinquanta giorni che il signor Roderico aveva lasciato il misero amante in qualche speranza di racquistar la grazia de la sua signora, il quale in questo tempo essendo vivuto assai bene e con lieta compagnia più del consueto, aveva in gran parte ricuperato il natural suo colore e quasi a la sua bellezza e vivacità restituito esser si vedeva. Or quando egli dal mandato messo del suo amico intese le cose come erano seguite, stette buona pezza attonito e quasi fuor di sè. Poi pensando che egli fra un’ora vederebbe colei che tanto amava, sentì un riscaldamento di sangue, un batter di core ed un sudor freddo per tutte le membra con mill’altri accidenti, di modo che luogo non trovava nè sapeva che farsi. Fra questo mezzo avvicinandosi il signor Roderico a la caverna, s’accostò a Ginevra la bionda, a cui sempre celato s’era, e a quella, di continovo per la morte del suo innamorato e disgrazia ove si trovava lagrimante, disse: – Io so che forte vi meravigliarete, signora mia, di vedermi qui come mi vedete, e parravvi gravissimo che essendo io sempre stato di casa vostra amico nè da voi avendo ingiuria ricevuta già mai, abbia voi ne la via publica presa ed in luoghi solitarii e selvaggi ridotta. Ma quando di ciò vi fia la cagione aperta, io non dubito punto che dando voi luogo a la ragione io non sia da voi lodato. E perchè siamo presso al luogo ov’io ho a condurvi, vi dico che non per rapirvi la vostra verginità hovvi qui menata, chè sapete che per altra io ardo, ma per rendervi il vostro onore e la fama, che voi trascuratamente in tutto cercavate macchiare; per altri ho fatto quello che per me vorrei che in simil accidente si facesse. Il signor don Diego, per non tenervi più a bada, il quale già tanto amaste e che sì fedelmente v’ha sempre amato ed ama, anzi che v’adora, e che per non soffrir l’ira dei vostri sdegni si era come disperato chiuso in una spelonca a vivere come selvaggio e fuor di speme d’esser mai più al mondo, è colui al quale io v’accompagno e conduco. – E narratole come di Guascogna tornando l’aveva ne la deserta grotta trovato e tutto quello che seco tramato aveva, la pregò a rasciugar le lagrime, deporre gli sdegni dei quali ragion alcuna non ci era e ricever esso don Diego ne la sua solita grazia. Era stata la disperata giovane a questi parlari sì stordita e fuor di sè che quasi non poteva formar parola, e de la morte del suo nuovo amante sì era in còlera e doglia, che se avesse potuto con le mani cavar gli occhi al signor Roderico l’averebbe ella fatto più che volentieri; e tanto [p. 317 modifica]a sentir nomare colui che acerbamente odiava se le radoppiò il dolore, che ella ne scoppiava di rabbia. Onde al cavaliero rivolta iratamente disse: – Io non so mai come possa esser possibile che tanta ingiuria quanta voi fatta slealmente mi avete vi sia da me perdonata. E non crediate che io come vil femina voglia di parole bravare, chè il luogo non me lo dà; ma ben mi chiuderò il tutto in core, e se mai occasione mi verrà di potermene in qual si voglia modo vendicare, vi farò conoscere che avete fatto opera d’assassino e non da cavaliero. Basta che a voi non appartiene a pigliar più cura dei casi miei di quella che io prender mi voglia. Io son libera e posso di me far ciò che m’aggrada; lasciatemi adunque andare ove mi piace e non vi pigliate le gabelle degli impacci, e governate voi stesso e farete bene; perciò che il volermi condurre ove don Diego sia, mentre mi tenete a questo modo, è in vostra libertà, ma non potrete già mai far che io di mia voglia seco resti nè punto l’ami. Io prima in qual si sia modo mi ucciderò che sopportare che egli di me goda. Onde farete il debito vostro a lasciarmi con questa mia donzella e questo servidore andar ove mi piace. – Il cavaliero con molte ragioni s’affaticò assai persuaderle il meglio che ella deveva fare, ma il tutto indarno, tanto era ella ostinata e piena di sdegno. E così tra questi ragionamenti pervennero a la spelonca, ove don Diego, veduta la sua crudel donna che già era stata posta in terra, se le gettò umilmente a’ piedi e lagrimando dirottamente le gridava mercè, se mai l’avesse offesa. Ma ella tutta piena di veleno e di donnesca rabbia, rivoltata altrove la faccia, non degnò mirarlo nè parlarli. Questo veggendo don Diego si levò in ginocchioni e dopo mille preghi e calde lagrime così le disse: – Poi che la mia sincera fede appo voi, signora mia, non può de la sua candidezza acquistar credenza e che io senza la grazia vostra viver non potrei, questo almeno non mi sia da voi per l’ultima grazia che vi chieggio negato, se in voi punto di gentilezza e di nobiltà regna. E questo è che voi con le mani vostre quella di me vendetta prendiate che più v’aggrada. Il che mi sarà di somma contentezza, veggendo che del sangue mio vogliate sodisfarvi. E certo sarà assai meglio sodisfacendovi morire che restar vivo ne la vostra disgrazia, perciò che sapendo io che la vita mia v’annoia e che la morte vi piace, sarò da me stesso astretto per sodisfazion vostra ammazzarmi, chè almeno potrò dire d’avervi una volta contentata. – Stava la giovane assai più dura che un marino scoglio, nè mai al supplicante cavaliero degnò risponder una parola sola. Il che veggendo il signor [p. 318 modifica]Roderico ed infinitamente dispiacendoli tanta crudeltà, da giusta ira e ragionevole sdegno mosso, a la giovane con fiero sembiante mosso disse – Io veggio bene che mi converrà metter le mani in pasta e far de le cose che io non vorrei. Pertanto intendimi, Ginevra, e metti mente a quanto ti dico. O tu perdona al cavaliero che mai non ti offese e rendeli la grazia tua che egli in mille maniere ha meritata, o aspetta che io contra te e questi tuoi incrudelisca, e ti faccia a mal tuo grado far quello che tu da te stessa deveresti già aver fatto, chè giuro a Dio mai non fu donna a par di te ingrata e crudele. Pensi tu se egli, come tu credi, per dispregio tuo avesse il maledetto sparviero in dono accettato e la figliuola del signor Ferrando più di te amata, che avesse lo sparviero ucciso e fosse venuto a starsi in questo luogo deserto e vivere come fanno le fiere tra caverne selvagge? Chi gli vietava prender colei per moglie e seco gioiosamente vivere, se egli avesse voluto? E forse ti staria bene che egli come meriti ti sprezzasse e ti desse mangiar a’ lupi e si procacciasse d’altra amante, e farti lamentar da dovero. Ben si puote egli, se il troppo amor che ti porta non l’accecasse e lo lasciasse scerner il vero, giustamente di te querelare e ramaricar amaramente, anzi ti deverebbe odiare come mortale e fiera nemica ed in tutto sprezzarti, pensando che da te senza cagione sia stato sì villanamente abbandonato. E forse, per Dio, che tu avevi eletto giovine a par di lui ricco, bello, vertuoso e nobile? O bella scielta che fatta avevi tra tanto numero di gentiluomini in quelle nostre contrade! Tu t’eri pur attaccata al tuo peggiore, amando un biscaglino che era senza roba, vantatore, e che mai non diceva verità se in fallo non la proferiva. Io credo che ti menava in Biscaglia per farti guardar le capre, chè ben si sa ciò che egli possede, chè se stesse a casa e tenesse un paggio seco non averebbe da viver per sei mesi. Ma tu dirai forse: – Io son ricca e ho tanta roba che da par mia potrei onoratamente vivere. – Ricordati che tua madre è fresca donna e può lungamente vivere, e mentre che vive che ella è padrona del tutto, e se avessi preso il biscaglino per marito mai non ti averia voluto vedere, e in questo mezzo non so come saresti vissuta, ed averesti avuta invidia a’ morti. Io so bene se don Diego si lasciasse da me consegliare, che le cose sue anderiano meglio, e tu saresti eternamente vergognata, nè così di leggero trovaresti chi ti volesse per moglie. Chè sapendosi che tu fossi fuggita dietro a un biscaglino tuo servidor di casa, chi non pensaria che tu fossi stata sua bagascia? Gli uomini sono assai più facili a pensar il male [p. 319 modifica]che il bene. Ma poi che don Diego così vuole, segua egli questo suo amore e te contra ogni devere apprezzi ed ami. Il perchè attendi a quanto ti ho detto e deponi oggimai questa tua ostinazione e sì fiera durezza, e consigliati bene a ciò che tu non abbia cagione di pervenir a quel che tu non vorresti, e tien per fermo che io non ho dato principio a questa impresa per lasciarla imperfetta. Sì che io ti metto innanzi l’acqua ed il fuoco, e tu piglia qual più ti piace. – La giovane alora più che mai ostinata e dura, con fiero e turbato viso, non già come tenera e timida fanciulla, ma come donna a mille casi di fortuna avversa avvezza, in questo modo altamente al signor Roderico rispose: – Cavaliero, tu hai detto ciò che t’è piacciuto, o bene o male che si sia, chè adesso di questo non voglio teco contrastare; ma io vo’ che tu sappia che prima io son disposta ogni acerba passione sofferire che mai questo sleale amare. E se tu, come minacci, la morte mi dai, io la riceverò di grado e farò compagnia al mio sfortunato amante e marito, che tu crudelmente hai ammazzato. Sì che comincia pur da qual capo ti piace, sempre più costante mi troverai, perciò che nè tu nè tutto il mondo che io ami costui farete già mai. – Tanta fu la pietà che a queste acerbissime parole da la irata giovane dette assalse il signor Roderico, imaginandosi esser dinanzi a la sua donna e che ella seco sdegnata simil cose gli dicesse, che per soverchia doglia quasi isvenne e fu necessario che in terra si mettesse, ove buona pezza dimorò con le forze sue sì deboli e smarrite che non poteva formar parola. In questo mezzo la donzella ed il servidor de la giovane, che dubitavano che il signor Roderico, come aveva minacciato, incrudelisse contra loro, si gettorono ai piedi de la padrona e lagrimando la pregavano che ella condescendesse a l’oneste preghiere del signor Roderico e si pacificasse con don Diego. Ma eglino cantavano a’ sordi. Il lagrimante don Diego, avendo udita la crudelissima risposta de la sua signora, si lasciò a terra cader al quale il suo compagno romito corse e pigliatolo in braccio lo dimenava come in simili accidenti si suole. Tutti gli altri erano a torno a Ginevra la bionda e le dicevano ciò che loro occorreva per pacificarla, ed ella se ne stava immobile come tra l’onde del mare durissimo scoglio. Il signor Roderico, ripresa alquanto la lena e tra sè pensando ciò che far devesse, nè potendo sofferire di veder il suo amico in così tormentoso affanno come lo vedeva, tuttavia sospirando disse a Ginevra la bionda: – Io fortemente di te mi meraviglio, nè so come esser possa che in petto d’una giovanetta sì fiera crudeltà alberghi. Egli [p. 320 modifica]mi pareva d’esser ora dinanzi a la mia donna e da lei udir sì malvagia risposta come tu hai ultimamente data, di modo che mi parve che il core mi fosse di pungente coltello ferito, ed ancora mi pare che tuttavia mi sia da acutissimi spiedi trapunto. E perchè da la mia, che è imaginaria, io misuro quella acerbissima pena che questo sfortunato don Diego ognora per te patisce, nè so come non mora, ho deliberato te di fastidio levare, ed a lui dando una doglia levarlo di questa e di tutte l’altre, sperando che egli col tempo conoscerà che io ho fatto il suo profitto e che tutto il mondo me ne loderà. – Detto questo, ai suoi rivoltato disse: – Menate questa crudelissima giovane qui vicino, ove sia qualche altra grotta, e fatene quello strazio che ella merita; ed a ciò che le cose nostre siano segrete, svenate anco questa sua donzella ed il servidore. E così non resterà chi manifesti i casi nostri. – A questo crudel comandamento la giovane tutta smarrita diede un alto grido, e la povera donzella e il servidore piangendo gridavano mercè. Fecero vista quei servidori del signor Roderico di voler essequire il comandamento del padrone, quando Ginevra la bionda senza piangere disse: – Compagni, io vi prego che a me sola diate la morte e non a questi miei; e tu, Roderico, perchè fai morir questi che mai non ti offesero? – In questo, essendo don Diego in sè ritornato, accennò che tutti si fermassero e al signor Roderico rivolto disse: – Signor mio, se io mill’anni vivessi, mai non potrei a tanto obligo quanto ti ho sodisfare, perciò che quello di gran lunga ogni mio poter sormonta. E conoscendo quanto m’amate, io vi prego che mi facciate una grazia che sarà per ubligarmi più, se più si può. Voi, la vostra mercè, avete per me fatto più assai che io stesso fatto non averei. Sarete adunque contento rimenar questa mia signora a casa sua e farle quella compagnia che a una vostra sorella fareste, imperò che durissimo mi è vedermi da lei sprezzare, che io più che la vita amo, ma m’è molto più grave e noioso vederla per me in doglia. Pertanto, a fine che ella de la sua pena più tormento in me non accresca, vada ove più le piace. Chè io a finire i miei brevi giorni in questa selvaggia caverna resterò, con questa contentezza che ella sia fuor di travaglio. – Mirabilissime sono le forze de l’amore quando egli adoperar le vuole, e spesso le cose che paiono impossibili fa lievi e facili. La giovane, che tanta servitù e tanta miseria in quanta vedeva il suo amante e la morte che innanzi agli occhi volar si vedeva non avevano potuto piegare, a queste ultime parole di don Diego, aperti gli occhi de l’intelletto, [p. 321 modifica]l’aspra sua d


Il Bandello a la molto magnifica [p. 322 modifica]signora la signora Ippolita Vesconte ed Attellana salute


Io crederei d’esser degno d’un grandissimo castigo, s’io una de le mie novelle che di giorno in giorno scrivo al vostro nome non dedicassi, non perchè voi siate consorte del nobilissimo e vertuoso signor Lucio Scipione Attellano, che è quell’uno a cui la vita debbo, ma perchè sempre v’ho conosciuta donna di grandissimo giudicio ed ornata d’innoverabili e lodevoli doti. Questa adunque al vostro nome ho dedicata, che non è molto il gentilissimo messer Filippo Bosso narrò in un’onorata compagnia. So che non m’accade dirvi che cortesemente l’accettiate, sapendo per chiara esperienza tutte le cose mie esservi accette. State sana.


NOVELLA XXVIII
Varii accidenti e pericoli grandissimi avvenuti a Cornelio per amor d’una giovane.


L’anno a punto che Massimigliano Sforza per suo mal governo miseramente perse lo stato di Milano, dopo la famosa rotta fatta degli svizzeri tra San Donato e Melegnano, fu generalmente quasi di tutto lo stato cacciata la fazione ghibellina per conseglio ed opera del signor Gian Giacomo Triulzo, che ad altro non attendeva che a deprimerla. Il perchè in quei dì ai fuorusciti di Lombardia fu la città di Mantova sicurissimo porto e refugio certo, ove il signor Francesco Gonzaga marchese, uomo liberalissimo, assai ne raccolse. E ben che egli avesse dato per ostaggio ne le mani del re cristianissimo Francesco, primo di questo nome, il signor Federico suo primogenito, nondimeno volle che Mantova fosse a chiunque ci capitava libera stanza. Gran numero adunque di fuorusciti quivi dimorava, aspettando col braccio di Massimigliano Cesare esser a la patria ritornati. Ma l’impresa non successe, perciò che Massimigliano con bellissimo essercito fin su le porte di