Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte I/Novella LVIII

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Novella LVIII - Fra Filippo Lipidi fiorentino pittore è preso da’ Mori e fatto schiavo, e per l’arte della pittura è fatto libero ed onorato
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[p. 176 modifica]Cesar Elcabir, cioè «il gran palazzo». Ridotta dunque la città in buonissimo essere, di quella ne fece cortese dono al povero pescatore e a’ suoi figliuoli e successori, i quali per lunga successione l’hanno posseduta, accrescendo sempre la bellezza e bontà del luogo. Quando io ci era, la vidi tutta piena d’artegiani e di mercadanti. Aveva molte belle moschee ed un collegio di scolari ed uno spedale. Vi sono molte cisterne, non si possendo cavar buoni pozzi. Gli abitatori di quella sono uomini buoni e liberali e più tosto semplici che altrimenti, e vestono bene ed usano assai tele bambagine. Fuor de la città sono molti giardini con bonissimi frutti, ed ogni lunedì si fa ne la campagna un grossissimo mercato da le terre circonvicine. È lontana da Azella, che noi chiamiamo Arzilla, che ora è in mano dei portogallesi, non più che diciotto miglia. Così adunque si conosce che a tutti si deve usar cortesia ancor che non si conoscano, perchè si fa ufficio d’uomo da bene e a la fine le cortesie sono rimeritate, come nel nostro povero pescatore s’è veduto.


Il Bandello a la molto illustre e vertuosa eroina la signora Ginevra Rangona e Gonzaga


Esser sempre stata la vertù in ogni secolo ed appo tutte le genti d’ogni parte del mondo in grandissima stima, e i vertuosi uomini così ne la dottrina de le lingue come de la filosofia e in ogni altra arte eccellenti esser stati da’ grandissimi prencipi e da le bene institute republiche sempre onorati, tenuti cari, essaltati e largamente premiati, tanto per le memorie che se n’hanno e per quello che tutto il dì si vede è chiaro che di prova alcuna non ha bisogno. Erano in Milano al tempo di Lodovico Sforza Vesconte duca di Milano alcuni gentiluomini nel monastero de le Grazie dei frati di san Domenico, e nel refettorio cheti se ne stavano a contemplar il miracoloso e famosissimo cenacolo di Cristo con i suoi discepoli che alora l’eccellente pittore Leonardo Vinci fiorentino dipingeva; il quale aveva molto caro che ciascuno veggendo le sue pitture, liberamente dicesse sovra quelle il suo parere. Soleva anco spesso, ed io più volte l’ho veduto e considerato, andar la matina a buon’ [p. 177 modifica]ora e montar sul ponte, perchè il cenacolo è alquanto da terra alto; soleva, dico, dal nascente sole sino a l’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare e il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui, tre e quattro dì che non v’averebbe messa mano, e tuttavia dimorava talora una e due ore del giorno, e solamente contemplava, considerava, ed essaminando tra sè, le sue figure giudicava. L’ho anco veduto secondo che il capriccio o ghiribizzo lo toccava, partirsi da mezzo giorno, quando il sole è in lione, da Corte vecchia ove quel stupendo cavallo di terra componeva, e venirsene dritto a le Grazie, ed asceso sul ponte pigliar il pennello ed una o due pennellate dar ad una di quelle figure, e di subito partirsi e andar altrove. Era in quei dì alloggiato ne le Grazie il cardinal Gurcense il vecchio, il quale si abbattè ad entrar in refettorio per veder il detto cenacolo, in quel tempo che i sovradetti gentiluomini v’erano adunati. Come Lionardo vide il cardinale, se ne venne giù a fargli riverenza, e fu da quello graziosamente raccolto e grandemente festeggiato. Si ragionò quivi di molte cose ed in particolare de l’eccellenza de la pittura, desiderando alcuni che si potessero veder di quelle pitture antiche che tanto dai buoni scrittori sono celebrate, per poter far giudicio se i pittori del tempo nostro si ponno agli antichi agguagliare. Domandò il cardinale che salario dal duca il pittore avesse. Li fu da Lionardo risposto che d’ordinario aveva di pensione duo mila ducati, senza i doni ed i presenti che tutto il dì liberalissimamente il duca gli faceva. Parve gran cosa questa al cardinale, e partito dal cenacolo a le sue camere se ne ritornò. Lionardo alora a quei gentiluomini che quivi erano, per dimostrare che gli eccellenti pittori sempre furono onorati, narrò una bella istorietta a cotal proposito. Io che era presente al suo ragionamento, quella annotai ne la mente mia, ed avendola sempre tenuta ne la memoria, quando mi posi a scriver le novelle, quella anco scrissi. Ora facendo la scelta d’esse mie novelle ed essendomi venuta questa a le mani, ho voluto che sotto il vostro valoroso nome sia veduta e letta. Il perchè quella vi dono e al vostro nome dedico e consacro in testimonio de la mia servitù verso voi e de le molte cortesie vostre a me, la vostra mercè, usate. State sana. [p. 178 modifica]

NOVELLA LVIII
Fra Filippo Lippi fiorentino pittore è preso da’ mori e fatto schiavo e, per l’arte de la pittura, è fatto libero ed onorato.


Questo monsignor cardinale s’è molto meravigliato de la liberalità che meco usa questo nostro eccellentissimo e liberal signor duca Lodovico; ma io assai più di lui mi meraviglio e de la sua, – sia mò questo con riverenza del suo rosso cappello detto, – ignoranza, dimostrando egli poco esser essercitato ne la lezione dei buoni autori. E per non dirvi de l’onore che era fatto agli uomini eccellenti ne le varie scienze e ne l’altre arti, che sempre furono in grandissimo pregio, voglio per ora solamente parlarvi de l’onore e riverenza avuta ai pittori. Nè pensate che io voglia tenervi lungamente a bada e discorrer per il catalogo di tutti i pittori famosi che fiorirono in quei buon tempi antichi; chè se ciò far volessi, il giorno d’oggi non ci basterebbe. Voglio che circa gli antichi d’un sol essempio del magno Alessandro e del gran pittore Apelle siamo contenti, e che dei moderni un solo d’un pittor fiorentino ci basti. Venendo adunque al fatto, vi dico che Apelle fu in grandissima riputazione appo Alessandro magno e tanto suo domestico che assai sovente egli entrava ne la bottega d’Apelle a vederlo dipingere. Ed una volta tra l’altre, disputando Alessandro con alcuni e dicendo molte cose indottamente, Apelle assai mansuetamente lo riprese dicendogli: – Alessandro, taci e non dir coteste fole, perchè tu fai rider i miei garzoni che distemperano i colori. – Vedete se l’autorità d’Apelle appo Alessandro era grande, ancora che egli fosse superbo, sdegnoso e fuor di misura iracondo. Lasciamo che Alessandro per publico editto comandasse che nessuno il dipingesse se non Apelle. Volle egli che una volta Apelle facesse il ritratto di Campaspe sua bellissima concubina e che la dipingesse ignuda. Apelle veduto l’ignudo e formosissimo corpo di così bella giovane, fieramente di quella s’innamorò; il che Alessandro conoscendo, volse che egli in dono l’accettasse. Fu Alessandro d’animo grande, e in questo caso divenne di se stesso maggiore, nè men grande quanto s’avesse acquistato una gran vittoria. Vinse egli se stesso, e non solamente il corpo de la sua amata Campaspe donò ad Apelle, ma gli diede anco l’affezione che a quella aveva, non avendo rispetto veruno a lei, che d’amica d’un tanto re ella divenisse amica d’un artefice. Ora vegniamo ai tempi nostri, e parliamo d’un pittor fiorentino e d’un corsaro di mare. Fu in [p. 179 modifica]Firenze Tomaso Lippi, il quale ebbe un figliuolo chiamato Filippo, che d’anni otto, essendo morto il padre nè avendo come sostentar la vita, fu da la povera madre dato a’ frati del Carmeno. Cominciò il fraticello in luogo d’imparar lettere, tutto il dì ad imbrattar carte e mura facendo qualche schizzo di pittura; il che veduto dal priore e conosciuta l’inclinazione del fanciullo, gli diede comodità di darsi a la pittura. Era nel Càrmino una cappella di nuovo dipinta da un ecellente pittore. Piaceva ella molto a fra Filippo Lippi, che così il fraticello era appellato, onde tutto il dì era dentro con altri garzoni a disegnare, e gli altri di così gran lunga avanzava di prestezza e di sapere, che appo ciascuno che il conosceva era ferma ed universal openione ch’egli ne l’età matura devesse riuscire pittor eccellentissimo. Ma fra Filippo nel fiorir degli anni non che ne l’età matura tanto s’avanzò e così divenne nel dipinger perfetto, che tante lodevoli opere fece che fu un miracolo, come in Firenze nel Carmeno e in altri luoghi oggidì si può vedere. Il perchè sentendosi da molti lodare e rincrescendogli la vita fratesca, lasciò l’abito da frate ancor che già fosse ordinato diacono. Fece molte belle tavole dipinte al magnifico Cosimo de’ Medici, al quale fu di continovo carissimo. Era il pittore sovra modo libidinoso ed amator di femine, e come vedeva una donna che gli fosse piacciuta, non lasciava cosa a far per averla e le donava tutto ciò che aveva, e mentre in lui questo umor regnava, egli nulla o poco dipingeva. Faceva fra Filippo una tavola a Cosimo dei Medici che egli voleva donar a papa Eugenio veneziano; e veggendo il Magnifico che egli assaissime volte lasciava il dipingere e dietro a le femine si perdeva, volle tirarlo in casa, ve lo tirò, a ciò che fuor non andasse a perder tempo, ed in una gran camera le rinchiuse. Ma statovi a gran pena tre giorni, la seguente notte con un paio di forbici fece alcune liste de le lenzuola del letto, e da una finestra calatosi, attese per alquanti giorni a’ suoi piaceri. Il magnifico Cosimo che ogni dì era solito visitarlo, non lo trovando, molto fu di mala voglia, e mandatolo a cercare lo lasciò poi dipingere a sua volontà, e fu da lui con prestezza servito, dicendo egli che i pari suoi, d’ingegni rari e sublimi, sono forme celestiali e non asini da vettura. Ma vegniamo al fatto per cui mosso mi sono a ragionarvi di lui, per mostrarvi che la vertù ancora appresso ai barbari è onorata. Era fra Filippo ne la Marca d’Ancona, e andando un dì in una barchetta con alcuni amici suoi a diportarsi per mare, ecco che sovragiunsero alcune fuste d’Abdul Maumen, gran corsaro alora de le [p. 180 modifica]parti di Barbaria, e il buon fra Filippo con i compagni fu preso, e tutti furono tenuti schiavi e messi a la catena e in Barberia condotti, ove in quella miseria furono tenuti circa un anno e mezzo, nel qual tempo in vece del pennello conveniva al Lippi a mal suo grado menar il remo. Ora essendo tra l’altre una volta fra Filippo in Barberia, non essendo tempo da navigare fu posto a zappare e coltivar un giardino. Aveva egli in molta pratica Abdul Maumen suo padrone, onde toccato dal capriccio, un giorno quello con carboni sì naturalmente suso un muro ritrasse con suoi abbigliamenti a la moresca che proprio assembrava vivo. Parve la cosa miracolosa a tutti, non s’usando il dissegno nè la pittura in quelle bande; il che fu cagione che il corsaro lo levò da la catena e cominciò a trattarlo da compagno, e per rispetto di lui fece il medesimo a quelli che seco presi aveva. Lavorò poi fra Filippo con colori alcuni bellissimi quadri ed al padrone gli diede, il quale per riverenza de l’arte molti doni e vasi d’argento gli diede ed insieme coi compagni liberi e salvi, con le robe a Napoli fece per mar portare. Certo gloria grandissima fu questa de l’arte, che un barbaro natural nostro nemico si movesse a premiar quelli che schiavi sempre tener poteva. Nè meno fu la virtù di fra Filippo tra noi riverita. Ebbe modo egli d’aver una bellissima giovane fiorentina detta Lucrezia, figliuola di Francesco Buti cittadino, e da quella ebbe un figliuolo chiamato anco egli Filippo, che poi riuscì pittore molto eccellente. Vide papa Eugenio molte meravigliose opere di fra Filippo, e tanto l’amò, tenne caro e premiò, che lo volle, ancor che fosse diacono, dispensare che potesse prender la Lucrezia per moglie. Ma egli non si volse a nodo matrimoniale legare, amando troppo la libertà.


Il Bandello al molto magnifico e reverendo signor Giorgio Beccaria


Secondo la commission vostra, venendo da Pavia a Milano il nostro piacevole e vertuoso messer Amico Taegio mi portò la vostra bellissima ed amorosa Psiche, da voi da l’Apuleio latino tradotta ne la lingua italiana, e strettissimamente mi pregò che io volessi con diligenza leggerla e rileggerla, e con libero giudicio