Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte II/Novella XIII
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mio e tuo non hai avuto riguardo ed hai un mio soggetto più di me amato, io vo’ che di continovo con lui dimori e che teco questa rea vecchia ruffiana se ne stia. Il perchè fuor di questo luogo mai più non uscirai. – Nè furono le parole vane. Egli fece di modo con crate di ferro conciar la finestra che impossibile era uscirne; poi fece murar l’uscio e vi lasciò solo un picciolo buco per il quale a le povere donne faceva dar pane ed acqua e non altro, lasciando la cura al castellano del tutto. Le sciagurate donne amaramente il lor fallo piangendo, chiuse restarono, ove guari non stettero che cominciando l’impiccato a putire, si sentiva così gran puzzo che tutto il mondo si sarebbe ammorbato. Or qual fusse la vita de la gentildonna pensilo ciascuno. Ella era del suo amante stata manigolda e quel fiero spettacolo dinanzi agli occhi mai sempre si vedeva, e giorno e notte l’intolerabil puzzo che da le marcite membra del giovine usciva, era astretta a soffrire. In questa così misera vita stette ella forse sei anni insieme con la sua vecchia. Infermandosi poi gravemente, il marito tutte due le fece cavar fuori e in una camera porre ove in breve la gentildonna morì. Ed il signore andar lasciò la vecchia ove più le piacque.
La crudeltà più che barbara e ferina che questi giorni ne la presa di Carraglio usò Francesco Monsignore dei marchesi di Saluzzo, fu tale e tanta, quale e quanta non fu forse tra soldati cristiani usata già mai. Che se nel combattere in compagnia od in espugnar una terra o fortezza che si sia, in quel furore de l’entrar dentro, ciascuno che incontrato viene si svena ed è senza rispetto veruno morto, questo par che sia usanza generale de la milizia. Ma cessato quel furore del menar le mani, chi è sì fiero nemico che incrudelisca nei corpi morti o che quelli seppellire divieti? Per l’ordinario anco a chi per prigione si rende, suole la vita esser donata ed al reso è lecito con danari ricuperar la sua prigionia. E questo fin qui in queste guerre s’è di continovo osservato così dai nostri regii come dai cesarei. Ora, che che ne sia stato cagione, Francesco Monsignore il tutto ha pervertito, e guerreggiato di maniera che se a la futura posterità sarà narrata, non troverà fede d’essere creduta, tanto parrà lor strana e crudele. Era in Carraglio il capitano Zagaglia ariminese, il quale prima a le mura si diportò molto valorosamente ed uccise molti dei nemici di sua mano. Veggendo lo sforzo e numero grande degli imperiali, di cui era capo Francesco Monsignore, si ritirò a la piazza sempre combattendo; e non solamente aveva da combattere con i nemici, ma con gli uomini ancora de la terra, perciò che i carragliesi, oltra l’aver introdutti i nemici dentro, tutti con mano armata s’unirono a morte e distruzione dei nostri. Il Zagaglia adunque, dopo l’essersi lungamente diffeso e morti di sua mano degli avversarii più di sessanta, a la fine avendo molte ferite di picca e di saette, mancandogli il sangue, nel mezzo dei morti nemici, non potendo più sostenersi, si lasciò valorosamente con la sua spada in mano e con la rotella al braccio andar in terra, e quivi fu da la moltitudine dei combattenti oppresso. Tutti gli altri soldati combattendo furono morti, perchè Francesco Monsignore sotto pena de la vita comandò che nessuno si pigliasse prigione. Alcuni, ben che pochi, si salvarono per beneficio de la notte. Il giorno seguente parlandosi del combattere che s’era fatto e lodando molto il valore e fortezza del Zagaglia, Francesco Monsignore fece ricercar il corpo morto, ed avutolo dinanzi a sè, in luogo di fargli dar sepoltura, come onoratamente fece Annibale a Marcello, non so da che maligno spirito preso, crudelissimamente gli fece cavar il core e darlo ai cani, nè volle che fosse sepellito. Nè altro sapeva dire se non che il Zagaglia gli aveva ammazzato, senza il numero degli altri, otto o nove dei migliori soldati che avesse. Fu appresso il cartaginese, perpetuo e crudelissimo nemico dei romani, la vertù del romano Marcello in prezzo: non guardò Annibale che Marcello più volte l’avesse superato e fattogli morire migliaia e migliaia di soldati, del quale già aveva detto che nè vittore nè vitto sapeva riposare, chè trovato il corpo suo, con debito onore gli fe’ dar convenevol sepoltura. E ai giorni nostri in Italia s’è trovato un prencipe italiano che ad un fortissimo soldato italiano, che onoratamente aveva mostrato il suo valore e con l’arme in mano da par suo era morto, non solamente non ha voluto lasciarlo seppellire, ma gli ha, così morto com’era, fatto cavar il core? Ma dove egli si credeva il Zagaglia disonorare, se stesso ha meravigliosamente disonorato, perciò che ovunque la morte del Zagaglia sarà narrata, tutto ’l mondo come merita lo loderà, ed insiememente sarà astretto la crudeltà di Francesco Monsignor biasimare, e crudelissimo e barbaro nominarlo. E di già nel campo cesareo tutti i grandi e i piccioli abborriscono questo fatto, ed in privato e publico dicono che è stata cosa indegna d’un signore e che non starebbe mai bene ad alcuno a farla. Il medesimo diceste voi questi dì, signor mio, essendo a la presenza vostra molti capitani e soldati, e di più aggiungeste che se nessuno dei vostri usasse una sì fatta crudeltà, che voi accerbissimamente ne lo castigareste. Era quivi Ferrando da Otranto, il quale aveva praticato lungo tempo a Constantinopoli e sapeva cose assai de le pratiche dei turchi. Egli veggendo che si parlava di crudeltà e da quella di Carraglio si passava a dir de l’altre usate in altri luoghi da diverse persone, narrò di Maometto imperador de’ turchi molti atti crudelissimamente da lui usati contra i fratelli, nipoti ed altri, i quali fecero senza fine meravigliare chiunque gli udì. Voi alora, signor mio, mi diceste che io quanto Ferrando narrato aveva devessi scrivere; il che avendo fatto, a voi lo dono. Ed ancor che il dono sia picciolo, voi risguardarete non a quello, ma a l’animo mio, sapendo quanto io vi son servidore e quanto desidero rendermi grato di tanti beni da voi ricevuti. State sano.
novella XIII.
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Stette sempre Maometto presente e tacito a sì fiero spettacolo. Fatto poi pigliar il corpo di Tursino, quello insieme con Amurato suo padre con funebre e regia pompa fece sepellire, facendolo portar alla sepoltura in braccio al padre. Aveva Amurato un’altra moglie, figliuola di Sponderbeo, nobile e ricco signore: da questa ebbe un figliuolo nomato Calapino, che era di sei mesi quando Amurato morì, e prima che morisse, molto a Calì bascià lo raccomandò. Calì, convenutosi con la madre, ebbe modo d’aver un figliuolino della medesima età del vero Calapino, e prima mandato Calapino a Costantinopoli, offerse a Maometto il suppositizio e finto Calapino. Maometto, creduto che fosse il fratello, subito lo fece strangolare e poi onoratamente sepellire. Il vero Calapino al tempo dell’assedio di Costantinopoli fu celatamente condotto a Vinegia, e poi ad instanzia di Calisto sommo pontefice menato a Roma e tenuto molto tempo in palazzo. Alla fine convertito a la fede nostra, si battezzò e gli fu posto nome Calisto Ottomanno. Morto papa Calisto, egli si ridusse nella Magna sotto l’ombra di Federico III imperadore, dal quale fu graziosamente ricevuto e di buone rendite provisto, e sempre dimorò in Austria a Vienna. Fu uomo molto quieto, e nelle lettere greche assai ammaestrato e nelle latine. Ed essendo già vecchio, prese per moglie una bellissima e nobilissima giovane di Ohenfel; ma devendo' 'far le nozze, infermò e morì e fu sepolto in Vienna. La giovine, non si volendo più maritare, entrò in un monastero, e si fece monaca. Ma tornando a le crudeltà di Maometto, non contento il perfido tiranno de le morti dei fratelli e d’un suo compagno nodrito seco fin da la fanciullezza, avendo fermato il piede ne l’imperio, cominciò ad incrudelire contra molti suoi cortegiani e baroni. È notissima e da molti eccellenti scrittori divolgata la crudeltà che egli usò nella presa di Costantinopoli e di molti altri luoghi da lui espugnati; ma non è meraviglia se fu crudele e sanguinario contra i nemici su la guerra, se anco contra i suoi e che da lui meritavano essere guiderdonati, senza cagione alcuna fu crudelissimo. Aveva, come già s’è detto, Amurato fin da la fanciullezza dato Calì bascià per governatore a Maometto; il qual Calì era di nazion turca, uomo di grandissima esperienza ed i cui progenitori per molti secoli sempre erano ai tiranni ottomanni stati accetti e fedelissimi ed appo la nazione turchesca in grandissimo prezzo. Per questo avendolo Amurato conosciuto per lunga esperienza uomo da bene e grandemente affezionato al sangue ottomanno, l’aveva dato al figliuolo per
e quando fu vicino a la morte comandò ad esso Maometto che nè più nè meno avesse sempre in riverenza Calì ed a quello ubidisse come a proprio padre. Ma lo scelerato e più che barbaro tiranno, acquistato che ebbe l’imperio costantinopolitano, subito deliberò di voler incrudelir contra Calì suo tutore, il quale già vecchio non poteva lungamente vivere. Egli s’era contra lui forte sdegnato perciò che ne la guerra contra gli ungari era stato autore di rivocar Amurato a ripigliar l’imperio, e sempre il suo sdegno s’aveva serbato chiuso nel petto. Ma io dirò come mi dicevano quei turchi che mi narrarono queste sue crudeltà, cioè che questo sdegno non fusse la total cagione de la rovina di Calì, ma che le sue ricchezze fossero quelle che lo fecero morire. Egli era il più ricco uomo che fosse sotto il dominio del Turco. Maometto che era avarissimo e de la roba altrui più bramoso che l’orso del mele, non potendo aspettar che Calì morisse rotto e consumato dagli anni, gli impose che sempre era stato fautore de l’imperadore di Constantinopoli e che ad Amurato aveva dissuaso che non facesse l’impresa contra esso imperadore, da quello con gran somma di danari corrotto. Impostagli questa calunnia, fece pigliar il povero vecchio e prima con varii e crudelissimi tormenti, standoli di continovo presente, lo fece miseramente lacerare, ed in ultimo, essendo Calì quasi morto, gli fece dal petto strappar il core e ne la via publica gettar il corpo; e non volle che fosse sepellito, ma tirato come una morta bestia fuor de la città e lasciato per èsca a le fiere. Poi in un subito privato i figliuoli di Calì de l’eredità paterna e di quella insignoritosi, cacciò da la corte e da’ suoi servigi tutti i parenti di Calì. Era in corte un giovine il quale aveva nome Maometto, molto dal tiranno amato sì perchè era con lui allevato ed altresì perchè era giovine industrioso e pratico de la milizia turchesca. Fu figliuolo costui di padre e madre cristiani. Il padre era triballo, che oggi sono bulgari, e la madre costantinopolitana. Costui era sovra modo insolente e superbo. Fu adunque dal tiranno in luogo di Calì sustituto, e non solamente ebbe la cura degli esserciti occidentali che si fanno tutti de le genti d’Europa, ma aveva il carico di tutti gli affari di grandissima importanza, e dove era maggior periglio e più difficultà, sempre era intromesso. Egli, simile al tiranno, era simulatore e dissimulator eccellente, avveduto sovra modo, astuto, pronto di mano e provido di conseglio, ed in molte imprese aveva tal saggio dato di sè che appo tutti si trovava in estimazion grandissima, di modo che il signore sommamente mostrava d’amarlo e l’aveva fatto ricchissimo. Ora parendogli poter del suo padron disporre come più gli piaceva, deliberò, se possibil era, di schiavo divenir libero, chè ancora che sin da' 'fanciullo avesse rinegato la fede cristiana e fosse stato secondo il costume turchesco circonciso, nondimeno ancora non aveva conseguita la libertà. Fatta questa diliberazione, apparecchiò un desinar molto sontuoso ed a la foggia lor tanto abbondante di vivande dilicatissime e d’ogni sorte che dava la stagione, quanto avesse potuto far apparecchiar il medesimo signore. Fatto l’apparecchio, invitò l’imperadore, il quale accettò l’invito e v’andò a desinare. Dopo che si fu mangiato e bevuto assai più del devere, perchè al bere il tiranno non servava legge maomettana, ma trangugiava ed incannava tanto vino che bene spesso s’inebriava, parendo al servo poter ottener dal signore l’intento suo, con accomodate parole gli espose il desiderio che aveva d’esser libero, supplicandolo umilmente che più tosto volesse usar l’opera di lui libero che servo. E conoscendo l’ingordigia ed avarizia de l’imperadore, gli fece portar dinanzi cinquanta mila ducati d’oro in oro. Udita questa domanda, il crudelissimo tiranno entrò in tanta còlera e sì accese in lui l’ira che, dato di mano ad un assai grosso e noderoso bastone d’olmo, non avendo rispetto che colui seco era stato da fanciullo nodrito e che era capitano famoso e per molte vittorie illustre, quello buttò furiosamente per terra e cominciò con gran fierezza a sonarlo col bastone dandogli mazzate da orbo, e tanto lo percosse e ripercosse e sì gli fiaccò la schiena, che egli si sentiva non poter più muover le braccia e con i piedi lo percoteva. Il misero servo tutto pesto e mezzo morto teneva pur gridato: – Signor mio soprano, io sono e sarò sempre tuo schiavo e con tutto il core ti ringrazio del conveniente e degno castigo che al mio peccato dato hai, perchè conosco che io maggior supplizio meritava. – Simil crudeltà anzi maggiore usò il perfido tiranno contra alcuni giovanetti tenuti da lui in luogo di femine, i quali pareva che amasse più che gli occhi suoi. Questi poveri fanciulli avevano bevuto del vino che al signor era avanzato, il che da lui inteso, gli, fece tutti senza pietà alcuna crudelmente morire. Con questa sua inudita crudeltà si rese a tutti i sudditi suoi così terribile che ciascuno di lui tremava. Molti ne fece morire per levar lor la roba, altri ammazzò per torgli le mogli, e per ogni minima occasione comandava che uno fosse ucciso. E se il carnefice sì tosto come averebbe voluto non si trovava o non veniva, egli con le proprie mani faceva l’ufficio di manigoldo. Aveva fatto questo scelerato tiranno uno splendidissimo convito ai suoi bascià e primi uomini dopo la presa di Costantinopoli, e ne l’ardore del convivare comandò che gli fosse menato dinanzi Rireluca con dui suoi figliuoli che erano prigionieri, fatti cattivi ne la presa di Costantinopoli. Come gli furono avanti, fece tagliar per mezzo e spaccar il maggior figliuolo come si suol far un porco. Pensate che animo era quello del misero Rireluca veggendo il suo maggior figliuolo nel suo cospetto a quel modo ucciso. Il minor figliuolo, perchè era fanciullo e bello, volle Maometto che si mettesse nel serraglio e si serbasse ai suoi illeciti e disonestissimi appetiti. Poi comandò che il padre fosse strangolato. Io non so certamente che conviti e banchetti fossero questi suoi, e meravigliomi senza fine come quei suoi satrapi potessero tanta crudeltà sofferire. Ma che dirò io de la crudeltà ch’egli usò contra David Comneno imperadore di Trapezunte che Trebisonda si chiama? Fu David, perduto l’imperio, con dui figliuoli e tutti i primi baroni e gentiluomini di Trebisonda condutto prigione a Constantinopoli e quivi alcuni giorni tenuto in misera prigionia. Dopo non molto tempo Maometto, un giorno dopo desinare, comandò che l’imperadore di Trebisonda con i figliuoli ed altri prigioni gli fosse menato avanti, e così tutti a la sua presenza fece tagliar a pezzi. Il medesimo fece del signor Francesco Gattalusio di nazione genovese, il quale possedeva e signoreggiava l’isola di Lesbo che oggidì si chiama Mettelino, chè avendo tutte le fortezze de l’isola debellate e preso prigione esso Gattalusio e molti altri, gli fece menar a Costantinopoli e tutti crudelmente morire. Ma se io vorrò tutte le crudelissime crudeltà di questo fierissimo tiranno annoverare, prima il giorno è per mancarmi che io ne possa venir al fine, perciò che ancora nel sangue ottomanno non è stato prencipe nessuno, ben che ce ne siano stati di crudelissimi, che Maometto di gran lunga tutti avanzati e superati non abbia. Egli si persuase non esser Dio alcuno: si beffava de la fede dei cristiani, sprezzava la legge giudaica. e nulla o ben poco stimava la religione maomettana, perciò che publicamente diceva che Maometto, quel falso profeta, era stato servo cirenaico, ladrone ed assassino di strada, e con ferite in faccia cacciato di Persia con grandissima sua vergogna, di modo che non ci era setta alcuna che da lui non fosse sprezzata. Ora tornando al nostro primo parlare, vi dico che non è gran meraviglia se il saluzziano usò sì fiera crudeltà contra il capitano Zagaglia, perciò che costume fu sempre dei tiranni d’esser crudelissimi.
Suole assai sovente, signor mio splendidissimo, il mal regolato appetito de la vendetta, mischiato col zelo de l’onore, indurre l’uomo a perigliosi e strabocchevoli accidenti, perciò che per l’ordinario nessuno ingiuriato, s’ha punto di sangue nei capelli, si contenta render a l’ingiuriante l’offesa che bramava fargli, uguale a l’ingiuria o danno ricevuto, ma rendergliene a buona derrata il doppio si sforza, facendo nel vendicarsi molto del liberale, anzi, per dir meglio, del prodigalissimo. Si vede ancora alcuno di vil condizione offeso da grandissimi uomini, non si curar di porsi a mille rischi di morire, pur che imaginar si possa in parte alcuna vendicarsi. Indi in molti luoghi d’Italia e altrove abbiamo veduto e udito raccontar infiniti omicidii e rovine di nobilissime famiglie. E questo credo io che avvenga perciò che l’appetito de la vendetta che par così dolce, a poco a poco tira l’uomo fuor dei termini de la ragione e in modo l’ira accende che, accecato l’intelletto, ad altro non può rivolger l’animo che a pensar tuttavia come offender possa il suo nemico, nè mai riflette la considerazione a tanti e sì diversi perigli che tutto ’l dì occorrer si vedeno. Avviene anco il più de le volte questo accecamento de l’intelletto, perchè impregionata la ragione, lasciamo al dissordinato nostro appetito pigliar il freno in mano de le nostre mal considerate azioni. Onde ingannati da le proprie passioni che ci dipingono il nero per il bianco ed il bianco per il nero, andiamo come cechi a tentone brancolando qua e là e non sappiamo ritrovar il mezzo in cui consiste la vertù, e per il più de le volte tanto andiamo errando che ci accostiamo agli estremi che sempre sono viziosi, ed invece di congiungerci a la vertù, abbracciamo il vizio. Così avviene che il giudicio nostro, trovandosi infetto ed ammorbato, non sa discernere nè elegger ciò che sia il meglio da operare e quasi sempre s’appiglia al suo peggio. Per questo veggiamo tutto il dì esser molto più di numero coloro che dietro al vizio s’abbandonano che non sono quelli i quali seguitano la vertù, tanta è la difficultà di ritrovar