Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte II/Novella XV

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Novella XV - Alessandro duca di Firenze fa che Pietro sposa una mugnaia che aveva rapita, e le fa far molto ricca dote
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[p. 318 modifica]al molto illustre signore il signor Luigi Gonzaga marchese di Castiglione


Aveva il signor conte Guido Rangone vostro cognato e, conte sapete, luogotenente generale in Italia di Sua Maestà cristianissima, comandato che qui in Pinaruolo un giovine molto prode de la persona s’impiccasse, perciò che egli aveva sforzata violentemente una giovane, non ostante che i parenti de la donna avessero a lo sforzatore già perdonata l’ingiuria e la giovane stessa si contentasse che da la giustizia fosse assoluto. Essendone poi anco esso signor conte da molti capitani e valenti soldati pregato, tutti brevemente risolse: che senza fine gli doleva far morir un uomo, fosse chi si volesse, non che poi un soldato e valente; ma che era necessario che la giustizia avesse luogo e che simil enorme delitto non restasse impunito, perciò che se l’esser giusto stava ben a tutti i rettori e giudici dei popoli e a tutti i prencipi e signori, che meno non stava bene a un capo e governatore d’esserciti, nei quali l’ubidienza e giustizia era più che necessario che s’essequisse. E così il misero e sfortunato giovine pagò un poco di piacer venereo con il prezzo de la vita e fu impiccato. Erano quel dì ne la sala del palazzo ove alloggiava il signor conte molti gentiluomini in drappello, essendo veramente in questo felicissimo campo il fior di tutta la nobiltà italiana, e variamente del successo caso secondo la diversità de le affezioni si ragionava. Onde il capitano Vincenzo Strozzi figliuolo di Filippo, che era di brigata con loro, disse: – Signori, non vi meravigliate se il signor conte ha voluto che lo stupratore muoia, perciò che in vero se la giustizia non si facesse negli esserciti, essi non sarebbero esserciti ma spelonche di ladroni. La giustizia in effetto dispiace a quelli contra i quali si fa, ma ella è di tanta vertù che nessuno ci è che mal ne possa dire, e sforza gli animi degli uomini a temere, amare e riverir tutti i giudici giusti. E pare che un prencipe ancor che abbia di molte taccarelle, se è giusto, è da dire che la giustizia sia un manto che copra gli altri suoi errori. Sapete se la casa mia ha cagion di lodarsi d’Alessandro Medici duca di Firenze. Nondimeno io son astretto a dire che egli governa quello Stato [p. 319 modifica]con gran giustizia. – E quivi esso capitano Vincenzo narrò un atto di giustizia d’esso duca, molto bello. Il quale avendolo io scritto, ho voluto che sotto il nome vostro esca insieme con l’altre mie novelle in mano del publico, non avendo per ora altro con che io possa in qualche parte pagar tanti beneficii da voi ricevuti, i quali eternamente mi vi rendono ubligato. State sano e nostro signor Iddio vi feliciti.

Alessandro duca di Firenze fa che Pietro sposa una mugnaia che aveva rapita e le fa far molto ricca dote.


Alessandro de’ Medici, il quale, come sapete, è stato il primo che col favor de la Chiesa sotto titolo di duca ha occupato il dominio de la nostra republica fiorentina, ha molte parti in sè che al popolo lo rendono grato; ma tra tutte non mi pare che nessuna ce ne sia che meriti esser agguagliata a la giustizia, de la quale egli mostra esser tanto amatore che nulla più. E tra molte sue azioni lodevoli che circa questo ha fatte, io ne voglio ora dir una, che certamente è di quelle che merita esser commendata, e tanto più di lode se gli può dare quanto che egli è' 'molto giovine ed assai dedito ai piaceri venerei. Onde in ciò che io ora son per narrarvi ha dimostrato esser pieno di prudenza, che di rado suol esser unita con la giovinezza, perciò che ordinariamente dove non è grande esperienza non può esser quella prudenza, chè il lungo uso de le cose rende i vecchi prudenti e fa l’azioni umane degne di lode. Ora dicovi che il duca Alessandro tien bella ed onorata corte di gentiluomini assai, così stranieri come di Toscana, e tra gli altri v’era un giovine cittadino di Firenze suo favorito, il cui nome per ora sarà Pietro. Questi un dì essendo in contado ad un suo podere non molto lungi da Firenze, vide una giovanetta figliuola d’un mugnaio, che era molto bella e gentile, che gli piacque pur assai. Ed il molino del padre di lei era vicino al podere dove Pietro aveva una bella ed agiata stanza. Egli veduta che ebbe la giovane, cominciò seco stesso ad imaginarsi come farebbe a divenir di quella possessore e coglierne quel frutto che tanto da tutte le donne si ricerca. Onde avendo avuto licenza dal duca di star in villa otto o dieci dì, cominciò a far la ruota del pavone a torno a costei, e con tutti quei modi che sapeva i megliori s’affaticava di renderla pieghevole ai suoi piaceri. Ma ella punto di lui non si curava, e [p. 320 modifica]tanto mostrava aggradir l’amor che Pietro le portava quanto i cani si dilettano de le busse. E perchè il più de le volte avviene che quanto più un amante si vede interdetta la cosa amata egli più se n’accende e più desidera venir a la conclusione, e molte volte ciò che da scherzo si faceva si fa poi da dovero, l’amante tanto si sentì accender de l’amore de la detta mugnaiuola che ad altro non poteva rivolger l’animo, di modo che desperando di conseguir l’intento suo e non potendo molto lungamente restar in villa, più sentiva crescer l’appetito e l’ardente voglia di goder la cosa amata. Onde provati tutti quei modi che gli parvero a proposito di facilitar l’impresa, come sono l’ambasciate, i doni, le larghe promesse e talora le minaccie ed altre simili arti che dagli amanti s’usano e che le ruffiane sanno ottimamente fare, poi che s’accorse che pestava acqua in mortaio e che effetto alcuno non riusciva, avendo assai pensato sopra la durezza de la fanciulla e sentendosi indarno affaticare ed ogni ora mancar la speranza, dopo varii pensieri che assai combattuto lo avevano, deliberò, avvenissene ciò che si volesse, rapir la giovane e quello che con amore ottener non poteva, goderlo con la forza. Fatta questa deliberazione, mandò a chiamar dui giovini amici suoi, che avevano i lor poderi a lui vicini e a caso si ritrovavano fuori. A questi dui communicò egli il suo pensiero e gli pregò che di consiglio ed aiuto lo volessero soccorrete. Eglino che giovini e di poca levatura erano, consigliarono Pietro che la rapisse, e s’offersero esser con lui a questa impresa. Onde per non dar indugio a la cosa, parendo lor un’ora mill’anni d’aver rubata la mugnaiuola, come la notte cominciò ad imbrunire, tutti tre con i famigli loro, prese l’armi, se n’andarono al molino dove ella col padre era, e a mal grado di lui che fece quanto seppe e puotè per salvezza de la figliuola, quella violentemente rapirono, minacciando al padre che direbbero e che farebbero. E ben che la giovane piangesse e gridasse e ad alta voce mercè chiedesse, quella menarono via. Pietro quella notte, con poco piacer de la giovane che tuttavia con singhiozzi e lagrime mostrava la sua mala contentezza, colse il fiore de la verginità di lei, e tutta notte con quella si trastullò, sforzandosi di farsela amica e tenerla qualche tempo a posta sua. Il mugnaio poi che si vide per forza rubata la figliuola e che egli da sè non era bastante a ricuperarla, deliberò il dì seguente di buon matino presentarsi al duca e gridargli mercè. E così a l’aprir de la porta entrò ne la città e di fatto se n’andò al palazzo del duca, e quivi tanto stette che il duca si levò ed uscì di camera. Il [p. 321 modifica]povero uomo, come vide il duca, con le lagrime su gli occhi se gli gittò a’ piedi e cominciò a chiedergli' 'giustizia. Alora il duca fermatosi: – Leva su, gli disse, – e dimmi che cosa c’è e ciò che vuoi. – E a fine che altri non sentissero di quanto il mugnaio si querelasse, lo trasse da parte e volle che a bassa voce il tutto gli narrasse. Ubidì il buon uomo e distintamente ogni cosa gli disse, e gli nomò i dui compagni che erano di brigata con Pietro, i quali il duca ottimamente conosceva. Udita così fatta novella, il duca disse al mugnaio: – Vedi, buon uomo: guarda che tu non mi dica bugia, perciò che io te ne darei un agro castigo. Ma stando la cosa de la maniera che tu detto m’hai, io provederò a’ fatti tuoi assai acconciamente. Va, e aspetterammi oggi dopo desinare al tuo molino che io so ben ov’è, e guarda per quanto hai cara la vita di non far motto di questa cosa a persona, e del rimanente lascia la cura a me. – Così racconsolato con buone parole il povero mugnaio, lo fece ritornar al molino. Ed avendo desinato, comandò che ciascuno a cavallo montasse, perchè voleva andar fuor di Firenze. Così il duca con la corte s’inviò verso il molino, e quivi giunto si fece insegnare il palazzo di Pietro, che non era molto lontano, e a quello si condusse. Il che sentendo esso Pietro e i compagni, lo vennero ad incontrar dinanzi a la casa, ov’era una bella piazza con un frascato fatto di nuovo. Quivi il duca da cavallo smontato, disse a Pietro: – Io me n’andava qui presso a caccia, e veduto questo tuo bel palagio e domandato di chi fosse, intendendo che egli è tuo e che è molto agiato e bello, con bellissime fontane e giardini, m’è venuta voglia di vederlo. – Pietro che si credette il fatto star così, umilmente lo ringraziò di tanta umanità, scusandosi che non era tanto bello esso luogo quanto forse gli era stato detto. Cominciarono tutti a salir le scale ed entrarono in belle ed accomodate stanze. Il duca entrava per tutto, e lodando or una camera ed or un’altra, si pervenne ad un verone che aveva la veduta sovra un bellissimo giardino. In capo del verone era una cameretta il cui uscio era fermato. Il duca disse che il luogo fosse aperto. Pietro che, sentito il venir del duca, ivi dentro aveva chiusa la giovane, rispose: – Signore, cotesto è un luogo molto mal ad ordine, e certo io non saperei ove por la mano su la chiave, ed il castaldo non è in casa, chè io l’ho mandato a Firenze per alcune bisogne. – Il duca che quasi tutti i luoghi di casa aveva visto, presago che la mugnaia vi fosse dentro: – Orsù, – disse, – aprasi questo luogo o con chiave o senza. – Pietro alora accostatosi a l’orecchia del duca, ridendo gli fece intendere che quivi aveva una garzona [p. 322 modifica]con cui era dormito la notte. – Cotesto mi piace, – rispose il duca; – ma veggiamo com’è bella. – Aperto l’uscio, il duca fece uscir la giovane, la quale tutta vergognosa e lagrimante se gli gettò a’ piedi. Volle intender il duca chi fosse e come era stata quivi condutta. La giovane con lagrime e singhiozzi narrò il tutto, il che Pietro non seppe negare. Il duca alora con un viso di matrigna a Pietro ed ai suoi compagni disse: – Io non so chi mi tenga che a tutti tre or ora non faccia mozzar il capo. Ma io vi perdono tanta sceleratezza quanta avete commessa, con questo che tu, Pietro, adesso sposi per tua legitima moglie questa giovane e le facci duo mila ducati di dote, e che voi altri dui participevoli del delitto gli facciate mille ducati per uno di dote. E non ci sia altra parola. Ora, Pietro, io te la do come mia sorella carnale, di maniera che ogni volta che io intenderò che tu la tratti male, io ne farò quella dimostrazione che d’una mia propria sorella farei. – Onde alora fece che Pietro la sposò e che l’obligo dei quattro mila ducati da tutti tre fu fatto. E così a Firenze tornò, ove generalmente da tutti questo suo giudicio fu con infinite lodi commendato.


A l’illustre e valoroso signore il signor conte Annibale Gonzaga di Nuvolara il Bandello


Narrò non è molto il capitan Vicenzo Strozzi di qual modo il duca Alessandro de’ Medici si governasse con un giovine suo cortegiano, che aveva involata una figliuola per forza ad un mugnaio e seco la notte amorosamente s’era giaciuto; e fu da tutti il duca sommamente commendato. Era di brigata con quelli che a la narrazione si trovarono presenti il luogotenente del vostro colonnello, il capitan Tomaso Ronco da Modena, uomo ne l’arme molto essercitato e prode de la persona e di gentilissimi costumi quanto dir si possa dotato. Egli poi che vide a le lodi donate al duca Alessandro esser dato fine, disse: – Signori miei, chi volesse raccontar tutte l’operazioni che il duca di Firenze Alessandro de’ Medici in cose di giustizia ha fatto, averebbe nel vero troppo più da fare che forse non si pensa, perciò che sono