Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte II/Novella L

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Novella L - Arnaldo trombetta perde quanto ha a primiera, ed al correr dell’anello guadagna assai più, e si rimette in arnese
Parte II - Novella XLIX Parte II - Novella LI

[p. 285 modifica]in Boemia e, fermatisi in una città, concorreva tutto il popolo a gara a veder gli insoliti animali. Era in quella città una gentildonna, la quale avevasi allevato uno di questi cagnolini piccioli, assai bello e piacevole, il quale le era fuor di modo caro, e quasi pel continovo se lo portava in braccio. Avvenne che una sua donzella, udita la fama di questi animali, e veggendo ciascuno correr a vedergli, anco ella di brigata con altre persone vi corse. Aveva ella alora per sorte il cagnolino in braccio, il che veggendo, la madonna cominciò a garrirla e dirle che lasciasse il cane in casa, e che guai a lei se male gli interveniva. La giovanetta, accesa dal desio di veder quegli animali, se n’andò di lungo col cane in braccio. Come ella fu ove era un lione, o che piena d’ammirazione fosse e quasi fuor di sè, o che che se ne' 'fosse cagione, il cane le uscì de le braccia e corse ne le branche del lione, il quale, presolo, lo teneva e non gli faceva mal alcuno. La sbigottita giovane credette di morir di doglia, e ricordandosi de le minaccie de la padrona che sapeva amar sommamente il cane, e dubitando non esser da lei fieramente battuta, senza più starvi a pensar su, fatta per disperazion sicura, intrepidamente, con stupore di chiunque la vide, s’appressò al lione e fuor degli unghioni gli levò il cagnolino. Il lione nè più nè meno si mosse contra la giovanetta, come averia fatto una semplice pecora; il che diede assai che dire a tutti, e molti ci furono che lo attribuirono a la verginità de la giovane e a la natural clemenza del lione. A me basta d’aver narrata la cosa come fu. Voi mò investigate la cagione di questa mansuetudine.


Il Bandello al vertuoso messer Marcantonio Cavazza salute


Io mi credeva dopo il ritorno vostro da Roma che voi deveste venir a star qui con noi alquanti dì a ricrearvi un poco, e narrarci del modo che in mare capitaste in mano di quei corsari, e come poi così tosto ne foste liberato; chè, in vero, voi avete avuto una bellissima grazia ad esser uscito fuor de le mani di quegli infedeli. Del che con voi mi rallegro con tutto il core, dandovi per conseglio che un’altra volta vi guardate d’incappar in così [p. 286 modifica]mali spiriti, che non basterà nè acqua santa, nè vi varrà il segno de la croce a uscirne fuori. Noi abbiamo fatto un carnevale, secondo l’usanza nostra, assai piacevole in questo nostro luogo di Bassens. Qui capitò, già molti dì sono, messer Filippo Baldo, che veniva di Fiandra per passar in Ispagna, e con noi ha riposato questo verno. Egli è il padre vero de le novelle e sempre n’ha pieno un carnero; e tra molte altre che narrate ci ha, ne narrò una nel giardino, che ci fece molto ridere, la quale io scrissi. Sovvenendomi poi di voi che io desiderava che foste qui, poi che venuto non sète, ho voluto che questa novella sotto il vostro nome con l’altre sue sorelle s’accompagni, a ciò che veggiate, se bene da voi son lontano, che nondimeno di voi e de la cortesia vostra tengo quella memoria che l’amore, che sempre mostrato m’avete, ricerca, e che punto di voi non mi scordo. Così potessi io con altra dimostrazione farvi conoscere quanto ch’io v’ami e desideri di farvi cosa grata, a ciò che voi poteste pienamente conoscer l’animo mio! Ma chi fa ciò che può adempie la legge. State sano e non vi scordate far le mie umili raccomandazioni a l’illustrissimo e reverendissimo monsignore, commune padrone.

Arnaldo trombetta perde quanto ha a primiera, e al correr de l’anello guadagna assai più e si rimette in arnese.


Per esser il tempo del carnevale, che, come più volte ho detto, suole per l’ordinario gioiosamente in feste e piaceri dispensarsi, e veggiamo tutte le sorti degli uomini più del solito allegramente trastullarsi, non reputo che a noi altri sia disdicevole il ricrearsi con piacevoli ragionamenti. Io v’ho questi dì narrate alcune novelle, per la maggior parte a la presenza di madama e de le sue damigelle. Ora che ella non ci può essere, per trovarsi in affari di grandissima importanza occupata, noi che nel giardino siamo, diportandoci sotto questi pergolati, logoraremo questa breve ora passeggiando e ragionando. Chè se al gran filosofo Aristotele e ai sagaci suoi peripatetici non pareva disconvenevole, passeggiando, di filosofare e disputar questioni altissime e profonde de le cose de la natura, meno deve esser disdetto a noi, ragionando di cose festevoli e da far rider Saturno che mai non ride. Dicovi adunque che, le guerre di Lombardia guerreggiate sotto il governo del signor Prospero [p. 287 modifica]Colonna d’onorata memoria, si fece una tregua per molti mesi; onde Arnaldo francese, che era trombetta d’esso signor Prospero, domandò congedo per alcuni dì per andar in Francia a casa sua, e graziosamente gli fu concesso. Egli aveva sì ben fatti i casi suoi che si trovava più di seicento ducati d’oro, i quali deliberava portar a casa e comperarsi un poderetto, con speranza di guadagnarne degli altri a la giornata, e così crescer i suoi beni, per poter poi riposare ne la vecchiezza. Avuta licenza e montato a cavallo, cominciò a buone giornate a seguir il camino verso Francia, e, passate l’Alpi e la Savoia, andar a la volta de la città di Parigi. Era costui d’un villaggio che è di là da Parigi tre o quattro leghe verso Normandia. Pervenuto adunque presso a Parigi ad una buona osteria, dismontò a disinare. Erano poco innanzi quivi albergati alcuni gentiluomini e già desinavano. Smontato il trombetta, e fatto metter il cavallo ne la stalla e ben curare, fu messo in una camera e datogli da desinare. Egli era un bel compagno, molto ben vestito, con gasacca di velluto e con la berretta ricca di puntali d’oro e d’una preziosa medaglia. Aveva anco al collo una catena d’oro di settanta in ottanta scudi, con ricchi anelli ne le mani. Come ebbe desinato, si mise andare per l’osteria e vide i gentiluomini sovradetti, che in camera ove desinato avevano giocavano una grossa primiera. Era Arnaldo assai più vago del gioco che le gatte dei topi; il perchè, salutati con riverenza i giocatori, s’accostò a vedergli giocare. Non stette guari a vedere che si fece un resto di forse cento scudi, nel quale uno aveva arrischiato tutti i danari che dinanzi aveva. Questi, perduta la posta, si levò dal gioco dicendo di non voler più giocare. Il trombetta alora, messa la mano a la berretta, disse: – Signori, quando non vi dispiaccia, io giocherò volentieri venticinque scudi. – Siate il ben venuto, – risposero coloro. – Sedete. – Arnaldo, assiso, cacciò mano a la borsa e cavò fuor venticinque scudi e cominciò a giocare. Vinceva ora una posta, ora un’altra ne perdeva. Come poi cominciò a riscaldarsi su il gioco, tratto tratto faceva del resto, e per lo più de le volte perdeva. E di modo tanto strabocchevolmente giocava, che in poco d’ora perdè la somma di più di seicento scudi; nè gli bastando questo, si giocò tutti i panni, la berretta, la catena, gli anelli ed il ronzino, e restò un bel fante a piede, in colletto, con la tromba a le spalle, la quale non vi saperei ben dire come gli rimanesse: se fu che egli per riverenza de l’insegna giocar non la volesse, o pure che i giocatori non le volessero dir sopra. Sia come si voglia, egli si trovò il più disperato [p. 288 modifica]uomo del mondo e non sapeva ciò che farsi. A la fine pur si mise a caminar a piede, e a buon’ora, chè era di state, arrivò a Parigi. Era altre volte dimorato per molti dì esso Arnaldo in un albergo dentro Parigi, ove aveva avuta amorosa pratica con una giovane assai bella che là entro era servente de l’oste. Colà adunque inviatosi, e inteso che la giovane più non ci dimorava, ma che serviva la moglie d’un grosso mercadante, l’andò a cercare; e trovatala ed insieme riconosciutisi, la giovane lo vide molto volentieri ed amorevolmente lo raccolse. Arnaldo le diede ad intendere che era stato svaligiato da certi malandrini, che gli avevano levato il valore di circa mille scudi, e che buon mercato avuto n’aveva che non l’avessero anciso. Mossa la giovane a pietà, lo introdusse in casa e lo mise in una guardacamera, dove gli portò molto bene da cena e gli fece molte carezze; e più di due volte amorosamente insieme si trastullarono. Era la padrona, come v’ho detto, moglie d’un gran mercadante, il quale in quel tempo era per suoi traffichi ito in Fiandra; e la buona donna per non perder la sua giovanezza, essendo molto bella, s’aveva eletto per innamorato un giovine mercadante fiorentino molto ricco e splendido, col quale ella, mentre il marito stava fuor di Parigi, si dava il meglior tempo del mondo, e trafficava forte a cacciar il' 'diavolo ne l’inferno. Aveva commesso la donna a la servente che avesse cura di preparar in camera del confetto, de le frutte secondo la stagione e del buon vino, perchè l’amante suo quella sera doveva venire a giacersi con esso lei. La servente, che de l’amore de la padrona era consapevole, fece l’apparecchio del tutto. E perchè la donna era consueta a starsi con il fiorentino in camera e quivi corcarsi, non si curò altrimenti far cangiar luogo al trombetta, perchè, dormendo ella ne la guardacamera, sperava quella notte godersi il suo trombetta. Ma, come dice il proverbio, chi fa il conto senza l’oste lo fa due volte. Pareva a la padrona che, per esser il caldo grande, la guardacamera fosse luogo molto più fresco che la camera; il perchè, venuto che fu il giovine fiorentino suo innamorato, commise a la servente che lo menasse ne la guardacamera. Ella non ebbe tempo di cavarne fuori il suo trombetta; ma, corsa innanzi, lo fece nasconder dentro il camino del fuoco, dinanzi al quale era tirato un gran tapeto. Il trombetta subito si ricoverò là dietro e cheto se ne stava. Il fiorentino, come là dentro fu, per il caldo grande che faceva cominciò a spogliarsi. Il trombetta, guardando per un pertugetto che nel tapeto era, vedeva tutto ciò che ne la [p. 289 modifica]guardacamera si faceva. Vide adunque il giovine levarsi dal collo una bellissima catena d’oro con un ricchissimo fermaglio a quella pendente, nel quale erano quattro perle con un orientale rubino in mezzo a quelle legato in oro, che in tutto valevano più di mille ducati. Vi pose anco una borsa piena di scudi, e in fine restò tutto spogliato in camicia, avendolo la servente aiutato a cavarsi le calze. Venne poi la padrona, la quale anco ella con aita de la fante si spogliò in camicia. La fante se n’uscì de la guardacamera e lasciò i dui amanti, che credevano d’esser senza testimoni. Quivi abbracciando l’un l’altro, amorosamente si basciavano, dicendo la donna al giovine: – Ove tutto oggi sei tu stato, che dopo desinare sin ora non ti sei lasciato vedere? Tu devi esser dimorato con alcuna tua amica che più di me t’è cara. – Il giovine basciandola le rispondeva: – Vita mia cara, io non amo altra donna al mondo che te. Ma da certi miei compagni sono stato condutto a le Tornelle a veder correre a anello. – E che cosa è questo correre? – disse la donna. Il giovine alora le narrò come si faceva; il perchè soggiunse la donna: – Corri anco tu, e vedi se sai di prima botta dar ne l’anello. – E conciatasi a gambe aperte, stava aspettando che il giovine corresse. Il quale, ritiratosi alquanto indietro, corse per investir al luogo debito; ma, che che se ne fosse cagione, egli non seppe entrare col piuolo in casa. – O bel giostratore! tu non guadagnerai già l’anello, – disse la donna. Soggiunse alora di burla il giovine: – Se ci fosse la tromba, io farei benissimo. – A questo motto il trombetta con voce orrenda disse: – Per tromba non si resti. – E tutto a un tratto sonò un tremendo suono con la tromba e saltò fuor del camino altamente sonando; il che di modo spaventò i due amanti, che non raffigurando chi fosse quello che sonava, ma credendolo un diavolo, si misero a fuggire su per una scala ne l’alto de la casa. Il trombetta che adocchiato aveva la borsa e la catena, come vide salire coloro in alto, sonando serrò loro l’uscio su le spalle; e presa la catena con la borsa ed il mantello del giovine, senza esser veduto se n’uscì di casa, essendo già su l’imbrunir de la notte, e via se ne fuggì, divenuto in un punto vie più ricco d’assai che prima non era.


Il Bandello al magnifico suo nipote messer Gian Michele Bandello
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Sogliono ordinariamente le donne, còlte a l’improviso, aver secondo i casi le risposte pronte, e in un subito proveder a quanto bisogna; e dando loro questo la natura, non deve esser dubio che più provide e più accorte saranno quelle che più averanno praticato. Ma qual donne praticano più diversità di cervelli de le cortegiane de la corte di Roma? Quivi communemente concorrono tutti i belli e i più elevati ingegni del mondo, essendo Roma commune patria di tutti; quivi d’ogni sorte le buone lettere fioriscono, così latine come greche e volgari; quivi sono iureconsulti eccellenti, filosofi e naturali e morali consumatissimi; quivi pittori si veggiono miracolosi. Ci sono scultori che nel marmo cavano i volti vivi, e i conflatori col metallo gittano ciò che vogliono. Ma per non raccontare d’una in una l’arti, elle in perfezione tutte ci sono, di maniera che in ogni specie di vertù chi vuole farsi eccellente vada ad imparar a Roma. E perciò che, come dice l’ingegnoso sulmonese, avviene assai spesso ch’un medesimo terreno produce la rosa e l’ortica, così anco a Roma ci sono uomini buoni e tristi. Ma lasciando il resto, parlerò de le cortegiane che, per dar qualche titolo d’onestà a l’essercizio loro, s’hanno usurpato questo nome di «cortegiane». Sono per l’ordinario tutte più avide del danaro che non sono le mosche del mèle, e se casca loro ne le mani alcun giovine di prima piuma, che non sia più che avveduto e scaltrito, vi so dire che senza oprar rasoio lo radono fin sul vivo e ne fanno anotomia. Ora ragionandosi in Milano in una onorata compagnia di molti gentiluomini d’alcune cortegiane e dei loro modi che assai sovente usano, il capitano Gian Battista Olivo, uomo molto faceto e gentile, narrò una novelletta a Roma accaduta, la quale avendo io scritta secondo la narrazione da lui fatta, ho voluto che sia vostra. E così ve la mando e dono, essendo tutte le cose mie vostre. State sano.