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Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte II/Novella LIX

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Novella LIX - Sciocca semplicità d’un Tedesco, che avendo mandato il padrone a Corneto, glielo manifesta con sue sciocche parole
Parte II - Novella LVIII Parte III

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Quando da la villa vostra vicina a Revero il mese passato mi partii, me n’andai giù a seconda per Po sino a Ravenna, ove dal nostro gentilissimo e vertuoso messer Carlo Villanova, quivi per la Chiesa romana governatore, fui tre dì ritenuto e molto accarezzato. Ora, avendo egli il secondo dì nel monastero di Classi fatto preparare un solenne desinare ed una lauta cena, montati la matina a cavallo, con alcuni ravegnani in compagnia, quivi n’andammo, perchè il monastero è circa tre miglia fuor de la città, vicino a la Pigneta, per la via che va a la volta di Cervia, ove il sale in gran copia si fa. E cavalcando per la Pigneta, – ove per mio conseglio non è da caminare quando è gran romore di venti, – avemmo gran piacere sì per veder l’artificio che usano col fuoco a cavare fuori de le durissime pigne, come essi le chiamano, i pignuoli, ed anco per veder la moltitudine degli armenti quasi selvaggi che per la Pigneta pascono. Vedemmo altresì molte testuggini così terrestri come marine, di mirabil grandezza, ottime da mangiare. Ma più d’ogni altra assai ce n’era una, vie più grande senza parangone che non è la maggior rotella da fante a piè che mai si vedesse. Pervenimmo poi in un bellissimo pratello non di molta ampiezza, tutto circondato d’altissimi e spessi pini, ove tutto il giorno è in alcuna parte di quello ombra. E mirando e lodando molto la beltà del luogo, disse messer Carlo: – Io voglio che questa sera noi ceniamo su questa minutissima e verde erbetta, chè se non fosse tanto tardi, io manderei a prender il desinare. Ma il sole già s’innalza, e meglio è che prendiamo il camino verso Classi, e poi questa sera goderemo l’amenità di questo bellissimo luogo. – Così ci mettemmo in via, sempre a l’ombra cavalcando fin a Classi. Quivi trovammo Pandolfo di Mino, che ci aspettava ed aveva fatto l’ufficio del sescalco. Smontati adunque, essendo il desinare presto, data l’acqua a le mani, ci mettemmo a tavola. E parlando de la bellezza del luogo, disse Pandolfo: – Signor governatore, a ciò che voi sappiate, commune openione è dei ravegnani che questo sia il luogo ove Nastagio degli Onesti, amando la Traversara, quando qui si ridusse, vide il crudele strazio che di lei fu fatto da messer [p. 342 modifica]Guido degli Anastagi e da’ suoi fierissimi cani. – E ridendo ciascuno de la sciocchezza del volgo che le favole talora riputa istorie, dopo che desinato si fu, volle messer Carlo che la novella del Boccaccio, che seco aveva, de l’occorso caso, fosse letta. Ella nel vero attristò gli animi di molti come se vera stata fosse ed eglino si fossero a lo strazio trovati presenti; onde poi si cominció a dire che noi eravamo fuori per ricreazione e non per piangere. Il perchè messer Carlo narrò una piacevol novella, la quale fu in gran parte risa ed assai gli ascoltanti allegrò. Questa adunque novella, al nome vostro scritta, vi dono, la quale credo vi sarà grata, sì per esser detta da messer Carlo, e da me, chè tutti dui vostri siamo, scritta. State sano.

Sciocca semplicità d’un tedesco che avendo mandato il padrone a Corneto glielo manifesta con sue sciocche parole.


Poi che io, per farvi legger l’artificiosa novella del Boccaccio, de lo strazio fatto de la giovane dei Traversari, sono stato cagione di contristarvi, a ciò che debita penitenza ne faccia e con medicina contraria curi la vostra malinconia, forza m’è di farvi ridere. Onde per ora non ci essendo altro che dire, farò che la mano che ha fatto la piaga, quella anco la sanerà. A ciò adunque che rider possiamo, vi dico che nel tempo che Massimigliano Cesare era con quella numerosissima oste a torno a Padova, un gentiluomo vicentino, che con la famiglia' 'in Mantova s’era ridutto, m’affermò che non molto innanzi la guerra e rotta di Giara d’Adda venne un tedesco giovine e s’acconciò in Vicenza con un gentiluomo per famiglio di stalla, perchè altro essercizio non sapeva fare che acconciar cavalli. Egli era d’assai piacevole e buon aspetto, ma tanto sempliciotto che ogni cosa se gli saria data ad intendere. Il gentiluomo con cui s’era messo, sopra ogni cosa si dilettava d’augelli, ed al tempo suo ogni giorno era a cavallo a far volare; e veggendo che il tedesco non attendeva ad altro che a la stalla, gli diede anco la cura di tener netti gli stivali e rendergli, ungendogli di grasso, molli. Del resto nessuno lo molestava. Era Arrigo, – chè così il tedesco si chiamava, – di ventiquattro in venticinque anni, nè ancora aveva provato che cosa fosse rimetter il diavolo ne l’inferno. E perchè egli mangiava da lavoratore e beveva a la tedesca, il guardiano [p. 343 modifica]degli orti gli dava grandissimo impaccio, e quasi di continovo teneva l’arco teso, non sapendo che rimedio far al suo male. Ma poi che vide ed alcune volte provò che gli stivali del suo padrone, essendo durissimi, per esser unti di grasso e messi al sole, divenivano pastosi e molli, s’imaginò il semplice giovinaccio d’aver trovato il modo d’intenerire e far molle la sua facenda. Onde cominciò col grasso, essendo sbracato, al sole ungerla; ma per questo niente faceva e la piva stava più gonfia che mai e punto non si mollificava. Di che egli di malavoglia si ritrovò, pensando perciò che bisognasse perseverare e ogni dì adoperar de l’unto. Ora avvenne che una volta la moglie del vicentino, essendo andata nel cortile a far certe sue bisogne, vide dietro la stalla Arrigo al sole con la lancia in resta, che quella di grasso ungeva, e parvele pure la più dolce cosa e bella del mondo, perchè era bianca come neve: e le venne grandissima voglia di provarla e veder come la si manteneva su la giostra, e tanto più quanto che quella del marito non era appresso la metà così grossa nè nervosa. Onde non istette molto che fece domandare Arrigo e cominciò seco a ragionar del governo de la stalla. E veggendo che non ci era persona presente, gli disse: – Arrigo, io non so quello che di te mi dica, quando penso che in quindeci giorni hai consumato più grasso intorno agli stivali di messere che non farebbe un altro famiglio in tre mesi. Che cosa è questa? Io dubito che ne faccia altro e che lo vendi. Dimmi la verità, ch’io la vo’ sapere: che cosa ne fai tu? – Intendeva Arrigo quasi ogni cosa che se gli diceva, ma non sapeva poi in italiano ben isprimere il suo concetto; pure semplice anzi scioccamente a la padrona rispondendo, le confessò il fatto come stava. E per meglio farsi intendere, si slacciò il braghetto e prese la sua lancia in mano, e a lei, che già tutta gongolava ed aveva la saliva a la bocca di provar come a le bòtte reggesse, mostrò come il grasso adoperava soggiungendo che quella medicina giovamento nè profitto alcuno gli recava. – Mai sì, – disse alora la donna, – che tu sei un bel fante! Ben sai che codesta è una sciocchezza e nulla vale a questa tua infermità. Ora io ti vo’ insegnare un ottimo rimedio; con questo patto: che tu altrui non lo ridica già mai. Vieni, vieni meco, e vederai quanto tosto io te lo farò, questo tuo piviolone, dico, divenire più molle che una pasta. – Era il marito fuor de la città e in casa non si trovava di chi la donna avesse a temere; onde conduttolo in una camera, seco amorosamente trastullandosi, volle che egli cinque volte nel suo grasso s’ungesse. Questa medicina, oltra che mirabile al tedesco parve, piacque meravigliosamente [p. 344 modifica]a tutti dui; ed ogni volta che commodità v’era, e sentiva crescersi roba a dosso, con l’unto de la padrona ammorbidava il fatto suo. Ed avendo Arrigo l’animo più a questo unto che a quello degli stivali, volendo andar il padrone a far volare, avvenne che un giorno trovò gli stivali non esser nè netti nè unti, di che fieramente entrò in còlera. Il buon Arrigo non sapeva che dire. Ed il padrone a lui: – Come vuoi tu, – disse, – che io faccia, tedesco' 'ubriaco che tu sei? come farò mò io, brutto poltrone? Questi stivali sono tanto duri e secchi che nè tu nè altri me gli potrà calzare già mai. Che ti vengano mille cacasangui, asino da basto! – Temendo Arrigo non avere de le busse: – Non vi turbate, – disse, – non vi turbate, messere, chè io in un tratto gli farò venir molli. – Tu farai il gavocciolo che ti venga, sozzo cane, unto, bisunto! – rispose il padrone. Arrigo alora, che lo vedevadi [p. 345 modifica]

La pena e il fastidio, lettori miei umanissimi, che io ho sofferto in raccogliere le scritte da me novelle, poi che io partii d’Italia e venni ad abitare su la Garonna ne l’Agenese, molti hanno veduto, i quali sanno che due volte ho mandato a posta in Italia per la ricuperazione di quelle. Nè perciò, con quanta diligenza mi sia sforzato usare, ho saputo tanto studiarmi già mai che intieramente le abbia potute ricuperare. Onde essendo data fuori la prima e seconda parte di quelle, non mi pare per convenienti rispetti tardar più a mandar appo le due la terza. E non avendo potuto servar ordine ne l’altre, meno m’è stato lecito servarlo in queste. Il che certamente nulla importa, non essendo le mie novelle soggetto d’istoria continovata, ma una mistura d’accidenti diversi, diversamente e in diversi luoghi e tempi a diverse persone avvenuti e senza ordine veruno recitati. Ora ci saranno forse di quelli che vorrebbero ch’io fosse, non so se mi dica, eloquente, o vie più di quello che io mi sia in aver scritte queste novelle; e diranno ch’io non ho imitato i buoni scrittori toscani. A questi dirò io, come mi sovviene altrove d’aver scritto, che io non sono toscano, nè bene intendo la proprietà di quella lingua, anzi mi confesso lombardo, anticamente disceso da quelli ostrogoti che, militando sotto Teodorico loro re ed avendo le stanze a Dertona, edificarono la mia patria ne la via Emilia tra i liguri cisapennini, non lungi da la foce de la Schirmia, ove quella le prese acque fontanili de l’Apennino e da torrenti accresciute