Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte II/Novella LVIII

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Novella LVIII - Niccolò senese, dalla sua innamorata disprezzato, per disperazione, da se medesimo si impicca
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[p. 335 modifica]loro. Ma sono alcuni che dicono che la donna conobbe molto bene il marito, e molto si meravigliò de la sua poca considerazione, e conobbe meglio che prima la dapocaggine di quello. Or ecco che la signora Margarita esce di camera, ed io vado a farle la debita riverenza.


Il Bandello al reverendo e dotto messer Stefano Dolcino


Ebbi dal servidor vostro, essendo in casa di monsignor lo protonotario da la Torre, i vostri numerosi e dotti endecasillabi, cantati da voi de la beltà, amenità e bellissimo sito del famoso lago di Garda, chiamato dagli scrittori Benaco. Io, essendo a casa ritornato, tutti prima che di mano m’uscissero gli lessi, e, come si suol dire, in una volta d’occhi tutti più tosto furono da me inghiottiti che masticati, e nondimeno molto mi piacquero. Poi con più agio ripigliatogli, cominciai a leggergli e di passo in passo, a la meglio ch’io sapeva, a gustargli. Dio buono, quanto mi sodisfecero, quanto mi dilettarono! Ma a chi non piacerebbero eglino, essendo dolci, rotondi, soavi e numerosi? Non è persona che abbia lustrati quei luoghi e navigato il lago, che leggendo il vostro ingegnoso poema non si creda d’esser in quelle contrade a diporto, così al pescare come a tender le reti e lacci e il vischio ai semplici augelli. Che dirò poi di quel divino e veramente poetico epigramma, che voi essendo ne l’Andina villa che oggi Pietole si chiama, patria del nostro gran poeta Vergilio, su le rive del lago che circonda ed abbraccia Mantova, sì felicemente componeste? Perchè non ho io quella vostra incessabile, candida, latina e sì dolce vena che sì facile e dotta in voi scaturisce, a ciò che di voi tanto cantar potessi quanto meritate? Felice voi che volete e potete quanto v’aggrada comporre cose ottime, che dopo la morte vi terranno chiaro e famoso in vita e vi diffenderanno, fin che il mondo duri, da la edacità e pungenti morsi del vorace tempo! Voi se in prosa scrivete, si vede in quella lo spirito del padre de l’eloquenza romana Cicerone, sì bene lo imitate e rappresentate. Ma se col canto e certa legge di numeri i vostri mirabili concetti cantate, Febo con voi di [p. 336 modifica]pari canta e i numerosi numeri vi dona, nè mai v’abbandona. Ora io sono entrato nel cupo mare de le vostre chiare lodi, ed essendo senza timone, vela e remi, meglio è che fuori n’esca che perdermi in quello. Vi ringrazio adunque e senza fine obligato mi vi confesso del piacere che ho preso in leggere i vostri poemi. E non avendo io cosa da ricambiarvi per mostrarmivi grato, vi mando e dono una novella da me pochi dì sono scritta, la quale fu non è molto nel bellissimo ed ameno giardino di messer Tomaso Pagliaro e fratelli narrata da messer Giovanni Meraviglia, uomo, come devete sapere, che gran parte d’Italia ha trascorso e che tutte le guerre dei nostri tempi, distinte per annali, scrive. E per non tenervi più a bada, mi vi raccomando. State sano.

Niccolò senese da la sua innamorata disprezzato per disperazione da se medesimo s’impicca.


La meraviglia e' 'stupor grande che in tutti voi, giovini nobilissimi, veggio per la morte di quel rimbambito veglio ed usuraro che, per esser venuto il grano a picciolo prezzo e non averlo venduto quando era carissimo, s’è per se stesso sui suoi granai impiccato, mi fa sovvenire d’un caso altre volte ne la città di Siena avvenuto, ben che in parte differente, perchè il veglio per l’ingordigia del danaro è ito a casa di cento paia di diavoli, e quello di Siena per irregolato amore e soverchio appetito avvenne. Io volentieri l’accidente vi narrerò, perchè so esserci alcuni di voi, e forse tutti, che ne l’amorosa pania sète irretiti e potrete da la mala sorte d’uno sfortunato amante far profitto a voi stessi. Io non vitupero già che un giovine apra il petto a le fiamme amorose, anzi lo lodo, perchè chi in giovinezza non ama si vede poi ne la vecchiaia far le pazzie; ma vorrei che ciascuno in qual età si sia, quando ama, (chè anco i vecchi possono amare), che sapesse temperar i suoi sfrenati appetiti e non si lasciar trasportar a far le sconce e sconvenevoli cose che molte volte si fanno. E chi avvisto non è al principio a non si lasciar adescare dal senso, si troverà tutto il dì andar di mal in peggio, e al fine sì accecato che non sarà poi padrone de le sue operazioni, ma come un buffalo si lascerà tirar per lo naso a le passioni e concupiscibili appetiti. Ma perchè più commoveno gli essempi che le parole, io verrò a la narrazione de la mia novella, che di questa [p. 337 modifica]maniera occorse. Nel tempo che papa Pio secondo – che fu senese de la nobil famiglia di Piccioluomini – celebrò il gentil concilio di tutti i prelati ecclesiastici e prencipi cristiani per far il passaggio contra gli infedeli, si ritrovò in Siena un giovine d’onorata e antica famiglia chiamato Niccolò, il quale, dei beni de la fortuna abondevolmente ricco, menava una vita splendida e magnifica. Ora egli, incontratosi un giorno in una bellissima giovane, figliuola d’un povero uomo che era muratore e con l’arte sua la vita si guadagnava, di lei oltra ogni credenza s’innamorò, e sì a dentro nel core gli penetrarono le fiamme amorose che egli in poco di tempo si conobbe non esser più suo, ma tutto dipender da l’amata giovane. Il perchè, spiato ove era di quella la stanza, ancor che a l’abito e ai panni povera l’avesse giudicata, nondimeno poi che intese quella esser poverissima e che filando lana la sua vita reggeva, molto si trovò di mala voglia e mille volte biasimò la natura che così bassamente l’avesse fatta nascere. E quasi vergognandosi che ad amarla si fosse messo, volentieri, se potuto avesse, si sarebbe da simil impresa ritratto. Ma il manigoldo d’Amore l’aveva in modo concio che ’l povero amante più non poteva di se stesso a sua voglia disporre, ma a mal grado suo gli conveniva la veduta giovanetta amare e le pedate di quella di continovo seguitare. Onde sapendo ove era l’albergo del padre di lei, per quella strada due e tre volte passando, non dico la settimana ma ogni giorno, vedeva quella che filando lana in compagnia d’alcune altre povere donne dimorava, e quanto più spesso la vedeva più sentiva accendersi e crescer il disio tanto più di vederla. Sentendosi adunque fieramente struggere e non potendo da la giovane aver una guardatura, si trovava il più disperato uomo del mondo. E tra l’altre sue doglie non era picciol dolore questo, che a nessuno ardiva palesar questo suo male, parendogli pure di deverne esser forte biasimato che, essendo egli nobile e de le prime schiatte di Siena, si fosse posto ad amar sì bassamente. Chè se avesse avuto alcuno fidato compagno con cui si fosse potuto scoprire e communicargli le sue passioni, averebbe senza dubio sentito alcun conforto e forse con il fedel conseglio de l’amico ritiratosi da sì penosa impresa. Vennegli assai volte un pensiero di farla rapire, ma non gli pareva esser atto da gentiluomo, e tanto più quanto che credeva che ella sdegnata se ne sarebbe; il che a lui sovra ogni cosa averia recato estremo dolore, perchè averebbe prima voluto morire che farla sdegnare. Stare anco così e di passione consumarsi, troppo duro gli pareva. Mentre che egli in questi travagli riposo non ritrovava [p. 338 modifica]e ogni dì andava di mal in peggio, vennegli a le mani una buona femina, di coteste ruffe che vanno per tutto con i paternostri in mano e sempre muoveno le labra che paiono simie, la quale sapeva benissimo l’arte di corrompere le fanciulle da marito e maritate. A costei parve a l’amante potersi senza vergogna discoprire e dirle tutto il caso suo. Fecela adunque a la casa venire e, dopo molte parole, lo stato in cui si trovava puntalmente le manifestò, e con affettuose preghiere la richiese che volesse di lui aver compassione e far con la giovane, – che dato ad intendere le aveva qual era, – che pieghevole in verso lui si rendesse. La vecchia ricagnata, avendo da l’amante ricevuti alcuni danari, promise di far il possibile per indurre la giovane a far ciò ch’egli volesse; di che l’amante rimase di speranza pieno, aspettando con desiderio grandissimo la rivenuta di quella. Andò la ribalda vecchia un giorno di festa e ritrovò la giovanetta che tutta sola in un cortile sedeva, ove molte famiglie di poveri uomini albergavano; e datole il buon giorno salutandola, appo lei s’assise. La giovane, che altrimenti non la conosceva, la risalutò e le disse che fosse la ben venuta e ciò che ella andava ricercando. La maliziosa vecchia che sapeva la madre de la giovane esser di molti mesi avanti morta, quasi piangendo disse: – Figliuola mia, se tu non mi conosci io punto non mi meraviglio, perchè sono circa tre o quattro anni che io dimoro in contado a la villa di Corsignano. Ma io era ben forte domestica de la benedetta anima, che Dio abbia in gloria, di tua madre, e più volte t’ho avuta in queste braccia quando tu eri garzonetta. E Dio per me ti dica quanto m’è rincresciuta la morte di tua madre, che veramente era buona donna. Onde essendomi occorso di venir a Sierra per alcune mie faccende, ho voluto venir a vederti, parendomi di veder tua madre quando ella era giovane come ora tu sei. Che Dio ti benedica, figliuola mia cara! Io credeva oggimai trovarti maritata, perciò che tu sei grandicella e non deveresti perder il tempo indarno. Ma io credo che la povertà di tuo padre sia cagione che non ti lascia maritare, come sarebbe il debito di prender marito. Or dimmi, prenderesti tu volentieri marito? – Sì, prenderei, – rispose ella, – quando fosse volontà di mio padre, perchè senza sua licenza non farei cosa alcuna. – Vedi, figliuola, molte volte i padri non si curano di levarsi d’appresso le figliuole, ricevendone profitto, come io mi credo che tuo padre faccia da te. E se tu baderai che egli ti mariti, avverrà per ventura che tu sarai prima vecchia che egli ti venga fatto di prender marito, onde poi indarno ti pentirai d’aver lasciato scorrere [p. 339 modifica]tanto che tu non abbia goduta la tua giovanezza. Ed a dirti il vero, questa tua bellezza non si deverebbe così perder senza frutto. Ma se tu punto mi crederai, e deimi tu credere perchè so ciò che dico, tu ti provederai per te stessa, chè chi fa i fatti suoi non s’imbratta le mani. Io non sono venuta qui a parlarti senza fondamento, come colei che t’amo e ti vorrei veder menar una vita allegra e darti buon tempo, e far di modo che per l’avvenire tu non istessi sempre a spolparti le dita filando. Se tu vuoi, e’ mi dà il core di farti aver tal dote che tu potrai maritarti in persona che non ti converrà sempre filare, perchè averai il modo di tener de le serventi e non t’affaticar sempre mai. E poi che in cotesto ragionamento entrate siamo, io ti dirò pure il come e ti porrò innanzi il tuo bene. Fa poi tu. Uno dei primi gentiluomini de la città è tanto innamorato di queste tue bellezze che non ritrova requie, e se non ha la tua grazia egli ne è per impazzire. Se tu vuoi amarlo come vuol il debito che tu faccia, averai di dote mille fiorini d’oro. Non ti par egli che questa sia dote da una gentildonna e cavaleressa? Piglia la ventura fin che Dio te la manda, e non lasciar passar questa occasione che di rado suol venire. – E come vuol egli, – disse la giovane, –' 'darmi sì fatta dote, che io non so chi si sia? – Oh! – rispose la messaggera, – tu sei sempliciotta anzi che no, e non intendi o mostri non voler intender il fatto come sta. Io t’ho già detto che egli è di te grandemente innamorato e più brama che tu l’ami che cosa che sia al mondo. E tu deveresti tenerti ben avventurosa che un simile gentiluomo t’amasse. Perciò, figliuola mia, disponti ad amarlo e donagli il tuo amore. Noi faremo bene le cose, che nè tuo padre nè altri lo risaperà già mai. – La giovane, quantunque di basso legnaggio e vilissimo fosse, era nondimeno d’animo generoso, altissimo e casto. Il perchè, come ella sentì la conchiusione e scelerata domanda de la ribalda vecchia, tutta arrossì nel viso e piena d’onesto sdegno con minacciosa voce le disse: – Taci, taci, ruffa e ribalda vecchia! che venga fuoco dal cielo che te e tue pari arda! Io non so che mi tenga che io non ti cavi gli occhi con queste dita. Via col malanno che Dio ti dia, femina del diavolo! che possi tu fiaccarti il collo! A me sei venuta con queste tue disoneste ciance? Se tu ci torni più, a la croce di Dio che tu non ti partirai sana da me! Io te l’ho detto e dico: che tu non abbia più ardir di venirci, perchè certamente tu pagheresti questa e quella insieme. – Partissi cheta cheta la malvagia vecchia tutta scornata, e il successo de la cosa a l’amante narrò. Egli pensando che la giovane forse non si fosse [p. 340 modifica]voluta fidare de la vecchia, ancor che molto gli dispiacesse la rigida risposta, propose tra sè d’adoperar altro mezzo; onde primieramente, col mezzo d’un domestico del padre di lei, con danari tentò di corromperlo. Ma il buon uomo non volle udirne parola, risolvendo l’ambasciatore che prima affogarebbe la figliuola che mai comportare che ella divenisse bagascia di chi si sia. Il giovine, molto di mala voglia che il fatto non gli succedeva secondo il suo disio, tentò molte altre vie, e tutte furono indarno, con ciò sia che la fanciulla era nel suo casto proposito più salda e ferma che non è un duro ed antico scoglio in mare contra le impetuose onde. Degna veramente era ella a cui natura dato avesse origine generosa e ricchezze convenienti a sì nobil animo com’era in lei; tuttavia merita ella d’esser celebrata, perchè l’animo suo gentile e casto la rendeva commendabile. Ora l’infelice amante, poi che vide da la giovane al tutto disprezzarsi e che egli medesimo, avendo preso ardire di parlarle, altra mai risposta da lei cavato non aveva se non che ella serbava la sua verginità a colui che sarebbe suo marito, e che prima era per morire che altrimenti fare, si ritrovò il più disperato uomo del mondo. E poi che alcuni giorni si sforzò smenticarsi costei, e conobbe non esser a lui possibile levarsela di mente, anzi che pareva di punto in punto che l’amor crescesse e più ardente divenisse, d’estrema malinconia perdette il cibo e il sonno, di modo che pareva una persona incantata. Menato adunque da la fiera sua passione che mordacemente lo struggeva, andò un dì ove la giovane in compagnia d’alcune altre donne filava, e quivi, amaramente piangendo, si sforzò, seco parlando, quella ai suoi disii far arrendevole. Ma egli pregava un monte che s’inchinasse, perciò che ella gli diceva che seminava ne la rena. Onde il misero giovine, veggendo la durezza di quella, le disse: – Ahi bella giovanetta! poi che ai miei estremi martìri e gravose pene, che per te di continovo soffro, non vuoi aver pietade, ed io senza te viver non posso, che vuoi ch’io faccia? – Ella, che mal volentieri si vedeva quella seccaggine a le spalle, quasi in còlera gli disse: – Se mi volete far piacere, andate e non mi venite innanzi gli occhi più mai. – Avuta questa risposta, Niccolò disse: – Ed io t’ubidirò e farò di modo che tu nè altri da oggi in là più non mi vedrà. – Andato con questo a casa, entrò in una camera, e con una fune attaccata ad un chiodo, come poi si vide, s’impiccò, e miseramente la gioventù sua e il mal regolato amore finì. Sì che, giovini, io v’essorto ad amar moderatamente, a ciò che non v’intervenga come al povero senese avvenne.


Il Bandello al magnifico messer Lorenzo Zaffardo
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Quando da la villa vostra vicina a Revero il mese passato mi partii, me n’andai giù a seconda per Po sino a Ravenna, ove dal nostro gentilissimo e vertuoso messer Carlo Villanova, quivi per la Chiesa romana governatore, fui tre dì ritenuto e molto accarezzato. Ora, avendo egli il secondo dì nel monastero di Classi fatto preparare un solenne desinare ed una lauta cena, montati la matina a cavallo, con alcuni ravegnani in compagnia, quivi n’andammo, perchè il monastero è circa tre miglia fuor de la città, vicino a la Pigneta, per la via che va a la volta di Cervia, ove il sale in gran copia si fa. E cavalcando per la Pigneta, – ove per mio conseglio non è da caminare quando è gran romore di venti, – avemmo gran piacere sì per veder l’artificio che usano col fuoco a cavare fuori de le durissime pigne, come essi le chiamano, i pignuoli, ed anco per veder la moltitudine degli armenti quasi selvaggi che per la Pigneta pascono. Vedemmo altresì molte testuggini così terrestri come marine, di mirabil grandezza, ottime da mangiare. Ma più d’ogni altra assai ce n’era una, vie più grande senza parangone che non è la maggior rotella da fante a piè che mai si vedesse. Pervenimmo poi in un bellissimo pratello non di molta ampiezza, tutto circondato d’altissimi e spessi pini, ove tutto il giorno è in alcuna parte di quello ombra. E mirando e lodando molto la beltà del luogo, disse messer Carlo: – Io voglio che questa sera noi ceniamo su questa minutissima e verde erbetta, chè se non fosse tanto tardi, io manderei a prender il desinare. Ma il sole già s’innalza, e meglio è che prendiamo il camino verso Classi, e poi questa sera goderemo l’amenità di questo bellissimo luogo. – Così ci mettemmo in via, sempre a l’ombra cavalcando fin a Classi. Quivi trovammo Pandolfo di Mino, che ci aspettava ed aveva fatto l’ufficio del sescalco. Smontati adunque, essendo il desinare presto, data l’acqua a le mani, ci mettemmo a tavola. E parlando de la bellezza del luogo, disse Pandolfo: – Signor governatore, a ciò che voi sappiate, commune openione è dei ravegnani che questo sia il luogo ove Nastagio degli Onesti, amando la Traversara, quando qui si ridusse, vide il crudele strazio che di lei fu fatto da messer