Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte IV/Novella III

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Novella III - Un cortigiano va a confessarsi: e dice che ha avuto volontà di ancidere un uomo, benché effetto nessuno non sia seguito. Il buon frate, che era ignorante, noi vuol assolvere, dicendo che voluntas pro facto reputatur, e che bisogna avere l’autorità del vescovo di Ferrara: su questo una beffa che al frate è fatta
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Quanti errori e strabocchevoli scandali provengono da la ignoranzia di quelli sacerdoti che odeno le confessioni sacramentali de li penitenti, che almeno la quadragesima si vanno a confessare, tante volte si è veduto che superfluo mi pare dirne più lungo sermone. E in vero non si deverebbe così di liggero permettere la udienza de le confessioni a ogni sacerdote, sia prete o frate, se non si conosce scienziato almeno in quelle cose che appertengono a la cura de le anime, essendo questo uffcio di tanta importanza quanta si può considerare. Se l’uomo non è infermo, cerca a la cura del corpo avere il più eccellente medico che si trovi. Ma quanti ce ne sono che, mortalemente infermi de l’anima, vorrebbero, quando se confessano, trovar uno sacerdote che fosse cieco e sordo e anco ignorante, acciò che da peccato a peccato non facesse differenza, ma del tutto assolvesse, come se tale assoluzione fosse valida, che non assoluzione ma dannazione eterna de l’uno e l’altro si deve chiamare. Di questi ignoranti e temerarii sacerdoti ragionandosi questi dì a Diporto ne l’amenissimo giardino di madama Isabella marchesa di Mantova, ove anco voi eravate e molti altri signori e gentiluomini, si parlò di quello religioso che assolse uno suo figliuolo spirituale da una scommunica papale, e non sapeva il misero ciò che si fossen nè casi nè scommuniche. Di questo voi sapete ciò che io ne dissi a l’illustrissimo signor marchese, quando insieme con voi, con messer Tomaso degli Strozzi e messer Alberto Cavriana andassemo al palazzo di San Bastiano a parlarli. Devete anco ricordarvi tutto quello che io nel detto luogo nel giardino ne discorsi a madama, e del gastigo che meritava quello buffalone. Ora, poi che io mi tacqui, il nostro gentilissimo messer Benedetto Capi di Lupo e di essa madama segretario, a proposito di quanto si diceva, narrò una piacevole novella, che a tutti sommamente piacque e alquanto ridere ci fece. Onde madama, a me rivolta, mi disse: – Bandello, questa a istoria è una di quelle che non istarà male tra cotante che tu a la giornata scrivi. – Il perchè io le promisi di scriverla. Ora, mettendo insieme esse mie novelle e [p. 242 modifica]venutami questa a le mani, ho voluto che sotto il vostro nome ella esca fore e resti testimonio appo tutti de l’amore che mi portate e de l’osservanza mia verso voi, che per tante vostre doti vi amo e onoro. Vi prego poi che essa novella facciate vedere a li magnifici vostri fratelli, che io come miei signori riverisco, il signor Francesco e signor Augustino. Che nostro signore Dio tutti lungamente vi conservi e vi doni quanto desiderate. State sano.

NOVELLA II


Uno corteggiano va a confessarsi e dice che ha avuto volontà


di ancidere uno uomo, ben che effetto nessuno non sia seguìto.


Il buon frate, che era ignorante, nol vuole assolvere, dicendo


che «voluntas pro facto reputatur» e che bisogna avere l’autorità


del vescovo di Ferrara. Su questo una beffa che al frate è fatta.


Sì come detto si è, degni di acerbissima punizione sono coloro li quali odono le confessioni di questi e quelli e non sono atti a saper giudicare la gravezza e la differenza de li peccati, e non hanno cognizione de le scommuniche così episcopali come del sommo pontefice, e de la ragione canonica e de li casi che molto spesso accadono. Però se talora vien loro alcuna beffa fatta, pare che ciascuno se ne allegri. Onde a proposito di questo mi piace narrarvi una alta beffa fatta da uno galante uomo a uno de questi ignoranti frati. Udite come avenne il caso. Suole essere communemente consuetudine che, dopo la pasqua de la resurrezione, li compagni dimandano l’uno a l’altro che penitenzia il padre spirituale gli ha data, se interroga bene, se è rigido o piacevole, e altre simili cose. Ora, essendo al tempo del marchese Nicolò da Este, vostro onorato avolo paterno, in Ferrara uno camariere di esse marchese ito a confessarsi col guardiano di San Francesco, tra l’altre cose che si confessò li disse che era perseverato cerca sei mesi con volontà determinata di ammazzare uno suo nemico, ma che mai non gli era venuto fatto di poterlo uccidere; e che poi, malcontento di questo peccato, si era pentito e perdonatogli ogni ingiuria. Il guardiano, che era poco dotto, udendo questo, il reputò uno gravissimo peccato, e li disse: – Ahi! figliuolo mio, come ti sei tu lasciato incorrere in così enorme e nefando peccato? Sappia che io non ti posso assolvere. E’ ti converrà andare a parlare a monsignore lo nostro vescovo, perchè il caso è riservato a lui. – Voi non mi avete, padre mio, bene inteso, [p. 243 modifica]perchè io non dico averlo ammazzato, anzi mi sono repacificato seco, ben che avessi avuta volontà di ucciderlo. – Soggiunse il guardiano: – Io ti ho pure troppo inteso, ma tu quello sei che non la intendi. Se tu avessi studiato come io già feci a Bologna, ove parecchi anni diedi opera agli studi civili e di ragione canonica, tu averesti imparato una gran sentenzia, la quale dice che «voluntas pro facto reputatur». Sì che va’ a trovare il vicario de monsignor lo vescovo, che è gran dottore canonista, e pregalo che ti assolva, chè degli altri peccati poi io ti assolverò. – Partisse il cameriere molto di mala voglia; e parendoli pure che fosse gran differenza da l’avere voluto fare una cosa e non l’avere messa in opera, a quella che oltre averla voluta si è fatta e mandata ad essecuzione, non volse altrimenti andar a parlare al vicario, ma andò a trovare uno altro religioso, che era in Ferrara in grande openione di dottrina e di buona vita. Conferito il caso con questo, conobbe l’error in che era il guardiano, e che a Bologna doveva avere studiato la buccolica insieme con la maccaronea. Disse egli questa cosa a la presenza di molti, tra li quali vi era il piacevole Gonnella, che tutti devete avere sentito ricordare per uomo festevole e di gioconda conversazione. Udendo questo caso, il buono Gonnella, rivoltatosi verso il cameriere, li disse: – Veramente questo tuo frate deve avere studiato altro che scienzia canonica. Che li venga il gavocciolo, ignorante che egli è! essendo tanto ignorante che non sappia conoscere quanto sia differente la semplice volontà non messa in effetto, da quella volontà che con l’opera esteriore si è compìta. – Si divolgò la cosa e pervenne a le orecchie del marchese , il quale disse al Gonnella: – Che ti pare, compar Gonnella, di questo frate ignorantone? Oh come li sarebbe bene investita che una burla li fosse fatta, di quelle che si attaccano al badile! – Notò il Gonnella il parlar del signor marchese e cominciò tra sè a pensare che cosa potrebbe fare affine che il frate rimanesse col danno e con le beffe. Onde, avendo ne l’animo suo imaginatosi ciò che deliberava fare, il tutto communicò al marchese; il che sommamente a esso marchese piacque. Dato adunque ordine al tutto, una mattina si vestì di modo che pareva uno prencipe, e onoratamente accompagnato andò a la messa a la chiesa di San Francesco. Ora devete sapere che esso Gonnella avea in sè molte parti che il rendevano mirabilmente meraviglioso; e tra l’altre, ogni volta che voleva, in uno batter di occhio sapeva così mastramente trasformar le fattezze del volto che uomo del mondo non ci era che lo conoscesse, e in quella trasformazione saria durato tutto uno giorno. Parlava poi [p. 244 modifica]ogni linguaggio di tutte le città di Italia sì naturalemente, come se in quelli luoghi fosse nasciuto e stato da fanciullo nodrito. Avea egli fatto per buona via intendere al guardiano che il prencipe di Bissignano era in Ferrara per andare a Milano al duca Filippo Vesconte, mandato da Alfonso di Ragona per affari importantissimi. Essendo adunque a la messa, uno segretario del marchese fece chiamare il guardiano e li disse come il signore suo l’avea mandato ad accompagnare il prence di Bissignano, barone de li primi nel regno di Napoli, e che detto prence voleva, finita la messa, parlare seco. Il buon guardiano, udendo questo, prese quattro o cinque frati de li più vecchi del convento, e, trovato che la messa era quasi finita, attese il fine. Era il Gonnella vestito di ricchissime vestimenta, di quelle del marchese, con una gran catena di oro al collo, e se ne stava con mirabile gravità leggendo l’officio de la beatissima Vergine Maria. Come la messa fu finita, tutti quelli gentiluomini e tutti li cortegiani che accompagnavano il prencipe, non più Gonnella, molto riverentemente con le berrette in mano se gli inchinarono dandogli il buono giorno, come si costuma. Se gli accostò il guardiano, e, salutandolo, li disse che fosse il ben venuto. Egli cortesemente il saluto li rese; poi li disse, udendolo tutti coloro che seco erano: – Padre molto riverendo, io sono sempre stato grandemente divoto e affezionato di questa tua santissima religione, come è tutta la casa de li signori e prencipi Sanseverini miei avoli, e avemo tutte le sepolture nostre ne le chiese de lo tuo sacro ordine. E perchè io per l’ordinario soglio far celebrare ogni anno quattro anniversarii con l’officio e la messa de li morti, e dimane è il giorno di uno, ancora che sia certo che a lo prencipato mio nel Regno non mancheranno di farlo fare, nondimeno per maggiore mio contento io ti prego che domattina facci cantar solennemente il vespro, e così il mattutino con le nove lezioni, e la messa de li morti. Io ci verrò a udire il tutto e ti farò una elemosina conveniente al grado mio. – Il guardiano lo ringraziò dicendoli che il tutto si faria, e che di più farebbe che tutti li frati direbbero la messa de li morti. Allora il contrafatto prence chiamò a sè il suo maggiordomo e gl’impose che parlasse col padre guardiano e facesse quanto di ordine suo sapeva: che venti ducati, e di più per le private messe dieci ducati, dessi. E poi con la compagnia si partì. Rimase il maggiordomo e al guardiano dimandò quanti frati aveva. E inteso il numero, li disse: – Padre mio, il prence mio signore mi ha ordinato stamane che io ti faccia apprestare uno buono disinare, come è l’usanza sua sempre di [p. 245 modifica]fare in questi suoi anniversari. E’ ci saranno tutte quelle vivande che in questa città si troveranno, di modo che tu con tutti li tuoi religiosi averai uno disinare da prencipe. Io farò apprestare in corte il tutto e, come sia finito domattina l’officio, manderai meco il tuo procuratore, al quale consignerò il tutto, e li darò anco in compagnia servitori che aiuteranno a portare la vivanda, che si recherà tutta in vasi de ariento, che sono di quelli del signore marchese. Io verrò di brigata per fare riportare indietro tutto il vasellamento, per apparecchiare il disnare al prencipe mio signore, perchè egli suole ordinariamente disinare tardi, e vorrà, dopo uditi li divini uffici, per fare esercizio, caminare buona pezza per la città a piede. Porterò anco venti ducati di oro in oro, per l’ordinario che suole per elemosina dare il mio signore in questi anniversari, e diece altri ducati di più per le messe basse che ti sei offerto di fare celebrare a li tuoi religiosi, e il tutto ti consignerò. – Rimase il guardiano molto lieto, e ogni cosa a lui detta narrò a li suoi frati, li quali tutti insieme aspettavano con indicibile desiderio la grossa elemosina e la grassa pietanza che speravano il seguente giorno. Onde il buono guardiano, venuto il giorno, non fece provedere cosa alcuna per lo desinare de li frati, attendendo pure la venuta del prencipe agli officii, e fece apprestare ciò che era bisogno, e volle egli, per più solennità, essere colui che cantasse la messa. Il simulato prence, sapendo come lo ufficio anderebbe alquanto lungo, insieme con quelli che seco devevano andare per accompagnarlo a la chiesa, con marzapani, pignocata, pistacchea e altri confetti si confortarono, e bevettero di preziosa malvagìa, chi moscatella e chi garba, che dicono purgare le flemme e còlere de lo stomaco, secondo che loro più aggradiva. Parendogli adunque assai commodamente potere aspettare il tardo disinare, si inviarono verso la chiesa del santo serafico e trovarono il tutto a l’ordine. Fece il finto prencipe col guardiano la scusa se così tardi era venuto, perchè gli era stato bisogno ispedire uno servitore in diligenzia al suo re a Napoli per cose di grandissima importanza. Indi si cominciò a cantare molto solennemente l’ufficio, che durò pure assai. Come fu finito, il simulato prence con belle parole ringraziò il guardiano e disse al suo maggiordomo che provedesse subito al pranso de li frati e a la elemosina, che ordinata già gli aveva di devere dare loro. Egli rispose che il tutto era presto. E così il prencipe se ne andò verso il palagio marchionale con la sua compagnia, tanto di buona voglia quanto dir si possa, parendogli una ora mille anni che trovasse il marchese Nicolò [p. 246 modifica]e lo facesse uno poco ridere de la beffa fatta al guardiano e a li frati. Partito che egli fu, il maggiordomo fece che il guardiano li diede il procuratore del convento con uno altro frate in compagnia, e passo passo si inviò verso corte, e parea proprio che avesse la gotta a li piedi, così lentamente andava. Giunto che fu in corte, condusse li frati in una camera, dicendo loro che aspettassero quivi, perchè in quello luoco farebbe recare tutta la apparecchiata vivanda. Restarono li frati in quella camera, non se ne accorgendo, di modo fermati che a patto veruno non ne potevano uscire e meno non vi poteva persona alcuna intrare. Così rinchiusi, stettero buona pezza senza accorgersi che ci fosse inganno nessuno. Ma, veggendo che la manna dal cielo non pioveva, cominciavano a dubitare, nè sapevano di che. Il guardiano, non avendo fatto fare provisione alcuna per lo desinare de li frati, attendeva pure la venuta de le promesse vivande, che non comparivano. E più e più volte se ne andò a la porta del monastero, per vedere se tornava il suo procuratore. Ma non veggendo che alcuno venisse e l’ora del desinare essendo di buona pezza già passata non sapeva che si pensare, e tuttavia indarno aspettava. Li frati altresì, che nulla avevano mangiato, stavano molto di mala voglia. Fra questo mezzo, poi che il Gonnella, non più prencipe, ebbe narrato al marchese la solennità de li cantati officii, andò con li suoi compagni; e gioiosamente desinato che si fu, ritornò dove era il marchese. Colà fece menare li dui frati, che sempre ne la camera erano stati rinchiusi, e disse loro: – Padri miei, voi direte al vostro guardiano come io avea buona e determinata volontà di dargli uno grasso e abondante disinare, e che pensi bene ciò che egli disse la quaresima passata a uno de li camerieri del signor nostro, che non volle assolvere «quia voluntas pro facto reputatur». Io adunque tengo per fermo di avere intieramente a la promessa mia sodisfatto. Vada, vada a studiare, e impari meglio udire le altrui confessioni; chè se io in questo ho peccato, lo errore è da essere imputato a lui. – Il marchese disse che certo il Gonnella avea saviamente parlato. Partirono li frati e il tutto riferirono al guardiano e agli altri frati, li quali, pieni di còlera, in tanta furia salirono che poco mancò che di brama di fame non manicassero il guardiano, tanto più sapendo il Gonnella essere stato quello che gli aveva beffati. Ma bisognò che mettessero giù l’ira e mangiassero del pane e del formaggio, tuttavia mormorando.


{{Centrato|Il Bandello al gentil e molto magnifico [p. 247 modifica]signore}}

Alessandro Costa signore di Polunghera salute


Ritrovandosi il valoroso e splendidissimo cavaliere de l’ordine sacro di san Michele del re cristianissimo, il signor Cesare Fregoso, mio signore e tanto vostro amico, qui in Moncalieri, dove attendeva a farlo fortificare, vennero una mattina molti signori capitani francesi a desinare seco, come spesso fare solevano. E mentre che si disinava, di uno in altro ragionamento travalicando, si venne a ragionare de le cose del re di Tunisi; di maniera che furono dette cose assai de la fiera crudeltà che Amida, figliuolo di Muleasse re di Tunisi, contra esso suo padre avea usata. E, parendo pure una strana cosa che il figliuolo proprio contra il padre sì acerbamente fosse incrudelito, che non solamente gli avesse rubato il regno con manifesta tirannide, ma che anco l’avesse fatto acciecare, molte cose si dissero de la bestiale e inumana natura di quegli africani, in vero barbarissimi. Era quivi a desinare Gioanni da Turino, famoso capitano di fantaria, il quale allora, interrompendo quei che ragionavano, disse: – Signori miei, io ho qui meco uno prode e buono soldato marchiano, Marcello da Esi, che nuovamente è venuto di Africa, ove lungo tempo ha militato con gli spagnuoli, e con loro era a la Goletta, il quale vi saperà minutamente di tutti gli accidenti a Muleasse avenuti informare. – Allora il marchiano, pregato da quelli signori a raccontare il fatto come era seguìto, senza più farsi pregare, narró, subito che il disinare fu finito, l’istoria di che era richiesto. Io, che a tavola con gli altri era, la notai e quello istesso giorno descrissi, e mi deliberai in mente mia che col nome vostro in fronte andasse in publico. E così per riconoscenza, in parte, de le infinite da voi ricevute cortesie, ve la mando e ve ne faccio uno dono; onde vi prego che vogliate accettarla con quello animo buono e gentile che sempre solete. State sano.