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Novelle (Bandello, 1910)/Parte III/Novella XV

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Novella XV - Morte miserabile del re Carlo di Navarra, per soverchia libidine nella sua vecchiezza
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IL BANDELLO

al gran monarca de le leggi

il signor

giason maino


Non essendo cosa a l’uomo, mentre in questo mondo vive, piú certa de la morte né piú incerta de l’ora e sorte o sia maniera di morire, meravigliosa cosa mi pare che sia generalmente quella a cui meno che ad altro che ci sia si pensa. Io non dico giá che di continovo debbiamo esser fitti col pensiero su la malinconia del morire, ché si severamente non voglio astringer nessuno; ma bene sono di parere che di grandissimo profitto a ciascuno sarebbe, di qualunque condizione egli si sia, sovente ricordarsi che è uomo e consequentemente mortale. Né voglio ora che entriamo in sagrestia, volendo dir quello che dice la Scrittura: — Rammemora il fine de la tua vita che è la morte, e in eterno non peccarai; — e meno voglio per ora che abbiamo la mente al detto di quel santo dottore, il quale ci ammonisce dicendo: — Facilmente disprezza ogni cosa chi pensa che deve morire. — Lasciando adunque da parte il bene e utile de l’anima, io voglio che parliamo politicamente e veggiamo di quanta utilitá e profitto, a chiunque si sia, sarebbe d’aver spesso dinanzi agli occhi la téma ed orrore de la morte, e che egli non può saper il tempo di morire né in che luogo debbia ultimare i giorni suoi né di qual maniera di morte debbia a l’altra vita passare, e che forse, mentre che egli è in cotal pensiero, potrebbe di leggero avvenire che in quell’ora qualche strano accidente — ché tanti e si diversi ce ne sono sempre apparecchiati — [p. 212 modifica]212 PARTE TERZA gli troncarebbe lo stame vitale e d’uomo restarebbe uno spaventoso cadavere. Oh di quanto bene cotal pensamento sarebbe a tutte le sortì d’uomini cagione! Credete voi, se i grandi e quelli che cosi volentieri, disprezzate le divine ed umane leggi, straziano questi e quelli, pensassero di morire, che commettessero tanti errori come commettono e che bene spesso non raffrenassero i loro disordinati appetiti? Ché ancora che l’uomo fosse di quella reprobata setta che vuole che da l’anima nostra a quella degli animali irrazionali non sia differenza e che il fine de l’uno e de l’altro sia uno stesso, deverebbe nondimeno vivere politicamente e lasciar dopo sé buona fama. E se gli sgherri e quelli che di continovo stanno su le disconcie e malvagie opere si ricordassero de le croci, de le mannare, del fuoco e di tanti altri tormenti che le leggi hanno ordinato a’ malfattori, io porto ferma openione che cosi facili e presti non sarebbero a far tante sceleratezze come tutto il di fanno. Dal che nascerebbe che la vita umana sarebbe assai più tranquilla di quello che è, e ritorneria a’ nostri tempi la tanto lodata e da noi non veduta età de l’oro. Ma perché l’uomo pensa ad ogni altra cosa fuor che al suo fine e si crede sempre restai- di qua, avvengono tanti mali quanti ogni di veggiamo. Di questo ragionandosi qui in Milano nel palagio de l’illustrissimo e reverendissimo signor Federico Sanseverino cardinale di santa Chiesa questi di, quando egli si fece cavar fuor de la vesica una pietra di meravigliosa grossezza, un navarrese suo cameriero, che Enrico Nieto si chiama, narrò la crudelissima morte d’un re di Navarra, la quale mi parve di sorte mai più non udita. Ed invero io cosi fatto accidente non sentii già mai. E per questo subito lo scrissi e al numero de le mie novelle accumulai. Sovvenutomi poi che essendo io questi di in Pavia nel vostro museo, che è proprio l’oracolo non solamente di Lombardia ma di tutta Europa, e parlandosi di questo morire per l’improvisa e immatura morte del nostro eccellentissimo dottore messer Lancillotto Galiagola — giovine, se lungamente viveva, da esser senza dubio agguagliato a qual mai più eccellente iureconsulto sia stato, — che voi assai cose diceste de l’utile che apporta il pensare di dever [p. 213 modifica]NOVELLA XV 213 morire; l’orrendo caso d’esso re di Navarca ho voluto mandarvi, a fine che appo voi resti per pegno de la riverenza che il Bandello vi porta e de l’oblìgo che v’ho di molti piaceri da voi ricevuti. State sano. NOVELLA XV Morte miserabile del re Carlo eli Navarca per soverchia libidine ne la sua vecchiezza. Avete veduto, signori miei, di quanti beni è stata cagione la téma che il nostro illustrissimo e reverendissimo cardinale ha avuta di morire, devendosi far cavar la pietra che veduta tutti avete, la quale giorno e notte fieramente lo tormentava. Che ancora che egli sempre viva da catolico e buon cristiano, nondimeno essendo venuto a questo passo di farsi tagliare, e noi volendo maestro Matteo da Roma né maestro Romano da Casal - maggiore per altro che per morto se gli devevano porre le mani a dosso e cavargli la pietra, egli, non potendo più soffe- rire gli stimoli e le passioni accerbissime che mille volte l’ora lo facevano morire, si dispose con forte, animo al taglio. Ma prima, confessato, si communicò e fece tante elemosine a’ luoghi pii ed altri beni, che è stata cosa mirabile: il che ha causato, oltra la sua buona disposizione, la paura del morire. Ora se questo avesse pensato il re Carlo di Navarca, egli sarebbe vi- vuto più quietamente che non fece e averebbe fuggita la malvagia fine che ebbe. Dicovi adunque, come ne l’istorie dei regi di Navarca altre volte mi sovviene aver letto, che negli anni di nostra salute mille trecento ottanta cinque mori Carlo re di Navarra, il quale fu genero del re Giovanni di Francia, perché ebbe per moglie madama Giovanna sua figliuola. Fu esso re Carlo uomo di pessimi costumi e molto crudele, e poco di lui si poteva l’uomo confidare, perché di raro servava cosa che promettesse. E vivendo il re Giovanni suo suocero, prima che fosse preso da Edoardo prencipe di Galles e figliuolo del re Edoardo terzo d’Inghilterra, fece ammazzare il contestabile de [p. 214 modifica]214 PARTE TERZA la Francia c s’accordò con inglesi a danno de' francesi. Essendo poi fatto prigione da esso re Giovanni suo suocero, ammutinò, uscendo di prigione mentre il re era cattivo, e sollevò i parigini contra Carlo delfino — che fu poi Carlo quinto, morto il padre, — e fece di molti mali, non solamente ne l’occisioni che avvennero in Parigi, per'suo mezzo, di quei fedeli che tenevano la parte del delfino, ma per tutta la Francia, ne la quale egli saccheggiò ed abbrusciò molte terre e commise infiniti omicidii. Fu anco ministro di molti inconvenienti sotto il re Carlo quinto e medesimamente sotto Carlo sesto. Nel suo reame di Navarra egli essercitò grandissime crudeltà con rubarie vituperose, con occisioni e con sforzamenti di donne, di maniera che tutti gli volevano male. Ora avendo messo una imposta sovra il suo regno di ducento mila fiorini, si congregarono sessanta dei principali del regno e l’andarono a trovare a Pampaluna, al quale supplicarono che degnasse sminuire la taglia che imposta aveva. Egli subito fe’ mozzar il capo a tre dei principali, mettendo gli altri in carcere con deliberazione fra dui o tre giorni fargli tutti decapitare. Era egli molto vecchio anzi pure decrepito, ma tanto lussurioso ed immerso nei piaceri e appetiti venerei che mai non era senza concubina; ed alora aveva una bellissima giovane di ventidui anni, de la quale era fieramente innamorato. Onde quel di che aveva fatta tagliar la testa ai tre ambasciatori, essendo tutto acceso di grandissima còlerà, per ricrearsi andò a trovar la sua bella innamorata e seco carnalmente in modo si trastullò che, volendo far vie più di quello che a l’età non si conveniva, si senti esser debolissimo. E volendo ricuperare le perdute forze, secondo che altre volte era consueto, si fece porre in una calda camera tra tre gran vasi di rame pieni d’ardenti carboni. Fece pigliar duo lenzuoli tutti molli d’acqua di vita, nei quali, come uno fegato ne la reticella, tutto era involto. E stando involto di quel modo tra quei vasi affocati, alcuni dei suoi servidori con soffioni a torno ai vasi riaccendevano gli infiammati carboni, tuttavia in quelli soffiando. Mentre egli si scaldava, una favilla di fuoco s’apprese ai lenzuoli, e di tal maniera s’accese e crebbe la fiamma che non fu possibile ammorzarla, [p. 215 modifica]NOVELLA XV 215 di modo che il misero re, pieno di rabbia e di furore, non si possendo sviluppare, miseramente arse e come una bestia se ne mori. Le croniche, che di cotal morte parlano, dicono che fu espresso giudicio di Dio per punire l'esecrabili sceleratezze di cosi vizioso re. Ma Dio solo è quello che sa la verità, a noi incognita, perché i giudici divini sono un profondissimo abisso. Egli è ben vero che grandissima difficultà è a viver male e morir be