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Novissima/Scritti/Il colorismo

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Scritti - Il colorismo

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L
A caratteristica più spiccata ed universale delle arti ai nostri giorni è un fenomeno che chiamerò «colorismo», il quale, partendo da un vero e proprio acuimento della sensazione cromatica, tende a esagerarne l’espressione e riesce talvolta a spropositarla. È naturale poi che, a seconda della singola arte in cui si manifesti, il colorismo abbia diverso campo e diversa efficacia. Ora, non già ch’io pensi un quintuplo sviluppo di esso, isolato e indipendente fase per fase, ma, solo per chiarezza, dirò di ciascun’arte a una a una, seguendo l’ordine che mi pare abbiano seguito più comunemente, o almeno più sicuramente, in Italia, le varie arti nello svolgersi, se non nel nascere, che sarebbe problema incontrollabile nella storia, troppo campato in aria e oggetto di fantasia. Quest’ordine è il seguente: architettura; letteratura, o poesia, o meglio arte della parola; scultura; pittura; musica.

A prima giunta il colorismo sembra non avere importanza nell’architettura d’oggi, poichè quel tanto che si è fatto di nuovo in questo senso, ed è poco, non esce dalle imitazioni, specialmente greche, o che vogliono esser tali. D’altra parte non vedo nelle linee architettoniche il segno di vigorose conseguenze della nuova sensibilità cromatica, se non nell’uso alquanto cresciuto delle majoliche, le quali surrogano con un po' di colore, timidamente, qualche modanatura, qualche aggetto presuntuoso. Ed è bene, perchè di questi ultimi il barocchismo odierno abusa talora assai più dell’antico.

Ma se dall’esterno passiamo all’interno, se varchiamo la soglia dei più tipici edifizii novissimi, non è raro veder trionfare il colorismo; soltanto però è da notarsi che in tal caso veniamo condotti grado grado dall’architettura alla suppellettile. Lo stesso avviene nel vestiario, segnatamente in quello degli uomini, che se ancora conserva il rigorismo di tinta eredato dal principio del secolo scorso, una specie di lutto sociale, sotto quel nero e quel bianco, quel grigio e quel bruno, svaria quanto più può negl’indumenti meno in vista, nel panciotto, nella cravatta, nella biancheria che comincia a meritare altro nome. Di ciò basta un cenno, l’intento mio essendo altrove. Ma prima di cercare l’influsso del fenomeno in altre arti ove la sua manifestazione ha maggiore importanza, è bene non lasciar dubbii sulla sostanziale diversità dei due termini: colorismo e senso del colore. Certo il primo deriva dal secondo, ma ne è una specie di smania invadente, esasperata, la quale genera più difetti che pregi, pur apparecchiando creazioni nuove, atte, se non [p. 22 modifica]m’inganno, a rinfrescare l’aria stanca della produzione estetica. Dimodochè non si deve confondere, per esempio, il carattere supremamente coloristico della pittura veneziana nei secoli XV e XVI, e il carattere di colorismo che si sforza oggi di rinnovare tutta la faccia dell’arte. La cresciuta sensibilità cromatica ha inventato le sfumature «antiche», ossia un certo delicato sbiadimento; ha dato il gusto mezzo smesso delle tinte assolute, insegnandone l’uso tanto più grato, quanto più sobrio; ha esteso la nozione armonica per la quale, invece d’estinguer lo spirito dei colori nel morto bigio, nel neutro, come si dice, essi vengono attenuati senza che ne scemi la trasparenza. E sta bene. Il colorismo è altrove. È nella sproporzione fra quel che si riesce ad esprimere e quel che si desidera esprimere. Sappiamo tutti che l’opera d’arte vera non ostenta, ma impone i suoi effetti: una prosa che faccia scorgere la propria agghindatura, finisce d’essere elegante; una poesia che mette in mostra la bellezza del verso, non è più verseggiata con perfezione.

Meglio che altrove, il fenomeno c’interessa nella letteratura, quantunque io creda non possa recar serio giovamento se non alla pittura e alla musica, le due arti in cui del resto imperversa con più furia ai nostri giorni, quelle che gli han dato la vita. La letteratura, si sa, è un vasto specchio nel quale le manifestazioni delle altre arti non possono non gittare per poco o per molto un riflesso. Gli scrittori quindi che in questi ultimi tempi usano o abusano del colore, lo fanno per riflesso musicale o per riflesso pittorico, fissato da un criterio erroneo. E ciò perchè l’ufficio della parola, pur senza avere la limitazione degli altri strumenti estetici, non può mai divenir quello della tavolozza o dell’orchestra, e perchè un valore ha la cosa e un altro ne ha il nome della cosa. Voglio dire che quando nominiamo il rosso, il giallo, l’azzurro, noi suggeriamo l’idea di questi colori, non la imponiamo ai sensi come mostrando la pennellata di cinabro, di croma, di cobalto. Perciò l’impressione sarà viva se il suggerimento si troverà. al suo giusto luogo, al suo preciso attimo, in accordo con quel che precede e quel che segue; e mancherà d’ogni efficacia o, peggio, stonerà, se messo fuori chiave. In termini più generali, la parola ha un significato diretto, quasi stabilmente convenuto (quasi, si badi), e un significato indiretto, o meglio un valore suggestivo, che varia volta per volta secondo il momento lirico, epico, drammatico. Indugiarsi, insistere sulla nota di colore è sempre inutile, spesso dannoso.

Mi accorgo di avere alternato e mischiato le espressioni musicali e le pittoriche. Ma come fare altrimenti? Non le ho inventate io le parole e le frasi che la musica ha tolto in prestito alla pittura e la pittura alla musica: tono, nota, disegno, colore, intonazione, e così via. Questa è una prova di più che la sensibilità cromatica, oggi straordinariamente raffinata, anela verso punti dell’orizzonte che ancora appena si possono intravedere.

Senza parlare dei tempi classici, - la cui nozione coloristica ci appare sommaria, tanto da lasciare incerti sull’apprezzamento dei singoli colori e del rapporto di essi con la luce, poichè sembra che i più caldi si confondessero appunto con la luce solare, i più freddi, con l’ombra notturna, - in tutta la letteratura fino ai nostri giorni la tavolozza verbale è incomparabilmente più limitata della moderna. Certo si possono trovare splendidi esempii di colore nei sommi poeti, ma si tratta di pennellate rarissime. Il famoso cenno del «Purgatorio» dantesco è quasi eccezionale.

Non avea pur natura ivi dipinto,
ma di soavità, di mille odori
vi faceva un incognito indistinto.

Altri luoghi in verità si potrebbero addurre dello stesso poeta, in prova del suo straordinario sentimento pittorico e musicale; ma citar Dante è divenuto ormai un incubo letterario, sì che non me ne sento il coraggio. Ne ricorderò dunque ancora due [p. 23 modifica]soli de’ sei allegati da Alessandro Chiappelli nel suo lavoro: «I poeti paesisti», pubblicato in un fascicolo Nuova Antologia», nel 1878.

Conobbi il tremolar della marina.
Quale ne’ plenilunii sereni
Trivia ride tra le ninfe eterne,
che dipingono il ciel per tutti i seni...

E li ricordo perchè, oltre il fine senso cromatico, essi dimostrano in Dante il proposito di non indugiarvisi, quasi direi di far che il lettore crei liberamente la visione, della quale il poeta segna solo l’essenza: il tremolar della marina, i plenilunii sereni, l’incognito indistinto.

Nei secoli seguenti la tavolozza della parola giunge al fanciullesco: l’oro basta per qualunque chioma bionda, la rosa per qualunque volto di persona bella, e il corallo per le labbra, e le perle pei denti, e le stelle per gli occhi. Quanto al paesaggio letterario, esso ricorda quello dei principianti che si trovano per le prime volte in campagna, sotto un ombrellone, con la cassetta sulle ginocchia: verde, verde a tutto spiano, e tocchi varii, quasi tessere da mosaico, per fiori del prato. Bisogna aggiungere che si tratta piuttosto d’incuria che d’incompetenza: la passione cromatica non era entrata ancora nell’anima letteraria.

Accennando dianzi all’inferiorità del senso coloristico degli antichi, mi riferivo soltanto a Egizii, Mesopotamia ed Ellenici, sia per qualche testimonianza di poeti e prosatori, sia per gli avanzi archeologici, sculture e architetture ove resta una colorazione di cui intendiamo perfettamente il valore decorativo, ma rimaniamo in dubbio su quello rappresentativo. Più tardi questa sommarietà di tavolozza, che ha una tinta per la carnagione muliebre, una per la virile, e così via, a poco a poco sparisce. I saggi di pittura murale romana del I secolo, per armonia di colore, come per ogni altro effetto d’intento decorativo, sono 21 insuperabili, più di tutti quelli tolti dalla casa patrizia della Farnesina, ora al Museo delle Terme. E quando il centro dell’impero si sposta verso Oriente, quando la porpora da rossa diventa violetta, da sanguigna, livida, quando Bisanzio succede a Roma, il lusso, l’ebrezza del colore genera probabilmente un fenomeno di colorismo, del quale s’intravedono alcuni segni nella letteratura greca e latina decadenti. In seguito il bujo incombe; la storia artistica, durante i secoli delle incursioni barbariche non si legge, per così dire, se non al lume delle fiaccole; poco dunque possiamo sapere del loro arcobaleno. Ma è notevole il fatto che nè prima, nè allora ci fossero l’aborrimento e la paura del colore proprii dell’epoca postnapoleonica, preparatrice della reazione oggi sovrana.

Invero il medioevo, oltre non avere il fantasma accademico d’una Grecia e d’una Roma bianche, di marmo, anzi di gesso, fantasma che ha fatto le squallide boccacce a me quand’ero scolaretto; non smise mai di colorire l’architettura e la scultura, sia dipingendole, sia variandone le materie con tarsie metalliche o lapidee. Dobbiamo giungere al Rinascimento perchè la plastica e l’ornamentazione architettonica si scolórino affatto; ci vuole la terribilità modellatrice di Michelangelo perchè nessun pennello osi accarezzare, nessuna impiallacciatura di pietra rossastra, verdastra, giallognola osi svariare il candore del marmo. Più tardi, il fastoso Seicento e il fiorito Settecento rendono alla scultura un po’ di colore, non già per dipintura, amenochè non si tratti di lavori intagliati nel legno, bensi per alternative di pietre di tinte diverse, serpentino, porfido, giallo antico, e di bronzo ora patinato, ora dorato.

Ma venne infine il funerale del colore, il principio del secolo XIX, e la cute scultoria, se cosi posso esprimermi, non si permise più se non qualche differenza di levigatura, il liscio e il semiliscio, mentre la pittura immergeva nel ranno la tavolozza, il rosso si svigoriva, l’azzurro diveniva scialbo, il violetto, il [p. 24 modifica] verde, il giallo si spargevano di cenere, l’intera iride si mortificava. Nero da per tutto. Ma no, nero sarebbe troppo: ombre fumose nelle carni come nelle pieghe; e bianco mai; invece un biancastro lavato male, su cui nessun colore ardiva spiccare schietto, anzi prendeva qualcosa di quel mezzo nero e di quel mezzo bianco, sino a ridursi a una variazione di grigio. E con tale fiacchezza cromatica, altrettale foja di tinte intere, toghe, pepli, tutti d’un pezzo, senza brio e senza vigore. Era facile schivare la stonatura violenta, ma si cadeva in una perpetua dissonanza.

E il momento del pallore, che sembra corrispondere al dissanguamento delle stragi rivoluzionarie e delle guerre napoleoniche, è quello in cui suona più che mai commossa la voce lirica, il momento di Heinrich Heine, di Alfred de Musset, di Giacomo Leopardi, e su da una convulsione romantica penetrata nelle fibre di tutte le arti, emerge sopra queste e sopra la linea del proprio sviluppo storico, la musica. Dal Palestrina, al Bach, al Mozart, pareva le note avesser detto tutto, quando sorse un’altra voce, più calda e più varia, voce d’uomini e di cose, sorse Ludwig van Beethoven. Il secolo XIX si apre con la prima delle sue nove sinfonie, eseguita nell’aprile del 1800. A. poco a poco, nello svolgersi di questa impareggiabile serie, triste nella III, nella VII, nella IX, graziosa nella VIII, agreste freschissima nella VI, trionfale nella V, il mondo civile si raccoglie intorno al maestro per deliziarsi ascoltando; per lui, per lui solo quella musica è un tormento, per lui che ode sempre meno, per lui che si sente sprofondare grado grado nel silenzio della sordità, donde pur continua a sgorgare l’inaudita voce delle sinfonie.

Ora, siccome al pari d’ogni altro fenomeno di decadenza, il colorismo nasce da esaurimento di facoltà lontane da quelle ond’esso vien prodotto, e siccome, aggiungo con fede, apparecchia un restauro, promette una medicina, ecco dopo il periodo essenzialmente musicale, che per brevità distinguo col solo nome del Beethoven, seguire il periodo della strumentazione, o meglio della sopraffazione strumentale, il periodo del colorismo nella musica, insomma. È ovvio che esso sia preceduto da un momento di colore, intermedio tra il difetto e l’eccesso, se è lecito parlar di difetto nel riferirsi alla tecnica orchestrale del principio del secolo XIX, materialmente povera in confronto di quella che segue. Un solo nome basterà anche adesso per farmi intendere, il nome del Wagner, rappresentante del periodo colorista. La smania, il parossismo vien dopo, e noi oggi vi gavazziamo dentro, ora ebri, ora smarriti, ora stanchi.

Lo stesso avviene nella letteratura; anzi la medesimezza è tale da rendere inutile richiamarne i particolari alla mente del lettore, specie se l’evoluzione vien considerata in Francia, ove infatti è più completa e meglio graduata. E poichè fra i tre campioni del periodo lirico per eccellenza ho nominato il De Musset, si noti come la sua colorazione cresca e giunga ad esagerarsi nel Gautier e nel Baudelaire, per poi traboccare nel colorismo propriamente detto quando arriviamo ai poeti nostri contemporanei, i quali, come osserva il Chiappelli nel lavoro citato, si compiacciono di chiamarsi da sè decadenti.

Meglio che altrove però il fenomeno giunto all’acme si studia in una sala d’esposizione di pittura o in un concerto orchestrale. Una gran parte dei quadri recentissimi hanno un colorito che richiama subito l’attenzione e lascia un’impressione facilmente determinabile, perchè dominata da una o più tinte, talvolta con tendenza al conflitto di esse, tal’altra alla monocromia, di frequente violacea. È inutile notare l’artificialità di simili effetti, sempre che si parli di pittura rappresentativa; nella decorativa invece, per la quale la Natura offre piuttosto consigli anzichè modelli, la ultrasensibilità cromatica produce raffinatezza di colore, senza pericolo di traripare nel colorismo. E poichè non esiste, o non dovrebbe esistere una letteratura decorativa, è agevole intendere per qual causa il fenomeno risulti sempre vizioso nell’arte [p. 25 modifica]della parola, anche quando accenni a conquiste che speriamo vedere attuate.

Fra gli estremi, dati dalla pittura e dalla letteratura, termine medio è la musica; in quanto che, sebbene non si possa o non si debba discorrere d’una composizione musicale veramente decorativa, nella quale perciò il colorito sia capace d’emanciparsi dalla linea e assumer valore proprio, è certo che per l’indole vaga della musica, non indicante, come la parola, il fascino strumentale giunga a effetti cui la letteratura non può aspirare, se non perdendo di vista sè medesima. E questo accade oggi incomparabilmente più spesso di quel che non è accaduto mai nelle ère storiche. Non ai sommi però, poichè la caratteristica dei veri grandi scrittori, anzi in genere dei veri grandi artisti, è il sentimento, conscio o inconscio, della natura della propria arte, sentimento che suggerisce la tecnica e ne proporziona la importanza. Nè forse sarebbe illogico sostenere l’identico principio per le epoche, e cioè che una di esse non sarà mai dotata altamente per questa o quell’arte, se non ne possiede spontanea la percezione dei limiti e degl’intenti.

Abbiamo veduto dunque, come s’era accennato all’inizio, il colorismo essere la più segnalata caratteristica dell’arte odierna, poichè soltanto oggi esso si manifesta in tutte le arti, specialmente nella pittura, nella musica e nella letteratura: nella prima per reazione, nella seconda per sviluppo, nella terza per influsso delle due precedenti; in tutte e tre per l’acuirsi della sensibilità cromatica, dalla quale è probabile fiorisca tra breve una nuova forma d’arte, che vorrei chiamare la musica del colore. Ma anzitutto è necessario che la letteratura, riacquistando la piena coscienza del proprio spirito e del proprio àmbito, si liberi dalle lusinghiere pastoje di certe pretese e di certe affettazioni. La penna s’intinge nell’inchiostro, non nei colori. Il valor fònico della parola non è quello delle note, come il suo valore coloristico non può esser quello della tavolozza. Tutti sentiamo che le consonanti hanno ciascuna la propria fisionomia: arida la S, scorrevole la R, dura la T, fluida la L., e così via; e che le vocali sono più o meno chiare: chiarissima l’A, scurissima la U. medie la O e la E, acuta la I, e, per conseguenza, acuta e scura la Y. Ma voler suscitare idee di colore, o anche semplicemente di luce, per mezzo di queste particolarità è grossolano errore; perchè il lieve elemento suggestivo del suono nella parola è vinto dalla forza del significato, e quindi non può agire se non come obbediente cooperazione.

Nulla di più facile a intendere, è vero? Eppure molti, troppi scrittori si abbandonano al lusso della parola, come molti musicisti a quello de la sonorità, come molti pittori a quello de le tinte, poichè tutto ciò serve a coprire, o almeno a velare, la indigenza dell’ispirazione e dell’espressione.

U. Fleres