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CRITICI E POETI

(Continuazione e fine)

La fortuna di Dante dal ’500 al ’700

Sul principio del sedicesimo secolo, la popolarità di Dante fu alquanto disuguale e fluttuante. Il gusto esclusivo per la letteratura greca e romana, che fiorì sotto Leone X, dispose i critici di quell’epoca a considerare Dante come uno scrittore barbaro e irregolare. Boccaccio o Petrarca divennero gli unici modelli di componimento italiano; chè il gusto era ormai corrotto ed effeminato (1). L’Orlando Innamorato e l’Orlando Furioso divertivano di più e stancavano di meno. La Riforma aveva messo in fiamme l’Europa, e Dante aveva osato dannare dei Papi all’Inferno. Nel Paradiso S. Pietro stesso pronuncia una sublime invettiva contro il potere temporale della Chiesa. In un’opera latina sulla Monarchia, il poeta aveva sostenuto la superiorità dei l’imperatore sul papa, e gli Scrittori protestanti citavano la sua autorità come (2) «quella di uno dei testimoni del vero».

Verso il 1550 i Gesuiti si impadronirono dell’educazione in Italia; e sistematicamente cercaron di screditare uno Scrittore che poteva suscitare nelle opinioni e nel carattere dei giovani idee così irreconciliabili con la loro politica. Tre uomini di genio tuttavia gli professarono anche allora la propria ammirazione. Il primo fu Sperone Speroni, uno scrittore oggi poco letto, ma stimato ai suoi tempi un oracolo in filosofia e in letteratura, la cui prosa merita oggi ancora di esser considerata un modello di vigoria e di eleganza. Michelangelo aveva illustrato coi suoi disegni una copia del poema di Dante che andò persa in un suo viaggio per mare (3). Torquato Tasso, essendogli chiesto qual fosse il più grande poeta d’Italia, rispose «Dante».

Dal 1600 al 1730 Dante non ebbe commentatori e solo poche edizioni (3). Il dominio Spagnuolo e la predominanza dei monaci avevan infrollito lo spirito nazionale; e il gusto popolare era corrotto dalla poesia che regnava allora nella Spagna. Dante, le cui edizioni non furon permesse a Roma sino alla metà del diciottesimo secolo, non poteva sperare d’essere tollerato. Si potrà osservare che in questo stesso periodo anche Machiavelli ebbe poche edizioni. Veramente il cattivo gusto degli scrittori chiamati in Italia secentisti, cominciò a purificarsi verso la fine del secolo; ma dall'affettazione e stravaganza del Manni i nuovi letterati corsero all’estremo opposto di una servile soggezione a regole o arbitrarie o, al più, di secondaria importanza. Pareva che scrivesse coll’unico scopo di evitar degli errori; e la nazione, rammollita da ogni sorta li schiavitù, non sapeva neanco più ammirare la libera e audace opera del genio sublime. I Gesuiti furono infaticabili nella loro ostilità a Dante. Venturi, che fece un utile compendio delle note esplicative più necessarie, vi unì alcune osservazioni critiche: in cui; secondo i principii del suo ordine, cerca di esagerare gli errori, e di svelare l’empietà del poeta. Bettinelli, nelle Lettere Virgiliane, un libro scritto con ingegno ma senza gusto, mette in ridicolo Dante, come il più barbaro dei poeti. Tiraboschi, anch’egli gesuita, esamina la vita del Petrarca con grande esattezza storica, si diffonde sui suoi meriti col massimo zelo; e si accontenta per Dante di poche date e alcune osservazioni critiche vaghe. Lo stesso storico, che dedica venti pagine al Gesuita Possevino, ne occupa quattro solo per dar conto della vita pubblica e privata, delle opinioni o delle opere di Nicolò Machiavelli.

Poesia Intellettualistica e poesia primitiva - Pope e Omero Elena

Non prenderemo a discutere se Pope fosse uno scrittore di gusto più che uomo di genio. Forse egli era per natura destinato alle audaci creazioni; ma di fatto poi si limitò in genere a imitare con gusto. Lo stesso si può dire di Orazio, di Vida, di Boileau. Pope come costoro, era insieme critico e poeta. E’ curioso osservare come nessuno dei più grandi poeti abbia mai parlato del meccanismo della propria arte; mentre poeti di grado inferiore ne hanno diligentemente messo in versi le regole. Pindaro dichiara che un grande poeta come «l’aquila si libra a volo per la sua forza naturale, e lascia indietro gli uccelli meno nobili, che paiono incoraggiarsi l’un l’altro con le loro rauche strida». Orazio invece si preoccupa sempre d’insegnarci come muovere le ali. Pope visse nell’età filosofica di Bayle e di Locke: e la poesia inglese, dopo aver sfolgorato nell’originalità di Shakespeare, dopo aver combinato in Milton il genio dei classici greci, latini e italiani, e aver fatto pompa in Dryden dei suoi vari tesori cominciò ad atteggiarsi secondo i modelli della Scuola francese. Nei poeti francesi l’immaginazione e il sentimento sono soffocati dalla riflessione. Pope non seppe superare la sua tendenza all’analisi, neanche nella traduzione di Omero che, di tutti i poeti, è il più alieno da ogni speculazione. Forse queste deviazioni di Pope


(1) Vedi l’orazione funebre di Sperone Speroni sul Bembo.

(2) Bayle - Art. Dante.

(3) Vasari, VI. 245. dal carattere del suo autore hanno contribuito alla popolarità dell’Iliade in Inghilterra. Ma non è nostro compito qui criticare il gusto delle diverse età e nazioni. Ci basterà provare, che Omero, Virgilio, e Dante hanno, nelle loro scene, lasciato molto all’immaginazione del lettore; che è facile sentirne le bellezze e molto difficile analizzarle; e che, quando la poesia si fa con un metodo, essa può bensì far pompa di bellezze artificiali, ma quelle naturali scompaiono.

Nella scena in cui Venere conduce Elena a Paride, Omero mostra di conoscere appieno il cuore di una donna, agitato da una passione ch’ella si sforza invano di combattere. Elena rimpiange la propria famiglia, ha vergogna della sua vita presente. Resiste alle insistenze di Venere, lamenta con amarezza l’infame suo stato, e ardentemente desidera di ritornare al marito, pur sapendo che andrà incontro al disprezzo di tutta la Grecia. Venere le dice che il suo ritorno non sanerebbe le ostilità tra la Grecia e l’Asia; che la guerra continuerebbe ugualmente; e che Elena stessa perirebbe di morte crudele. E’ dopo questo dialogo che Elena, ravvolta nel suo volo, segue in silenzio la dea. Il lettore immagina l’angosciosa lotta che la ragione di questa donna sostiene contro la passione. Omero non la spiega. Si limita a dire, al principio del dialogo, che appena Elena ebbe notizia del pericolo di Paride e ricordò la sua bellezza, il suo cuore si senti commosso; e che, quando scoprì che era Venere a parlarle, fu presa da paura.

«Parlò la dea, e l’intimo cuore di Elena ne

fu commosso;

ella accarezzava il campione, ma amava pur

sempre l’uomo»


Il primo verso del distico è in Omero e ci dice soltanto il fatto. il secondo è aggiunto da Pope per spiegare l’intenzione di Elena e di Omero. Ma dopo questa spiegazione scompare l’interesse del dialogo che segue. La passione di Elena è dissoluta e corrotta e le sue proteste contro i consigli di Venere sembrano grossolana ipocrisia. Mentre invece la vera Elena di Omero, in tutta l’Iliade, è considerata come una sonna che, per la sua bellezza, si avvicina alla divinità. Gli dei, che han creato una sì bella persona, voglion ch’essa sia ammirata con una specie di adorazione. La guerra e i mali di cui essa è causa sono attribuiti al volere del Cielo. Omero mette questi sentimenti in bocca di Priamo, che la guerra ha reso il più infelice dei mortali, e che, per la tarda età non può più esser sensibile alla bellezza. Non un mormorio ostile udiamo tra i Troiani e i Greci contro la causa dei loro lutti. Il marito lamenta il fato della sua donna; e il vecchio Nestore, che pur non è mosso dagli stessi sentimenti, parla di lei con lo stesso senso di pietà. Paride dichiara d’averla rapita da Sparta, come un pirata. Par ch’ella non apra mai la bocca senza arrossire. Era un carattere assai difficile da dipingere. Omero ha usato nel rappresentarlo la massima delicatezza di tratto e la più profonda conoscenza della natura umana. Quand’ella lamenta la morte di Ettore, dice «Egli non volle mai rimproverarmi; e proibì anche agli altri di biasimarmi». Un sentimento sublime, che ci descrive insieme il nobile carattere di Ettore e tutto il rimorso che strazia l’anima di Elena. Ella vive con Paride, costrettavi insieme dalla fatalità e dalla disperazione. Lo ama, ma desidera sfuggirgli. Il suo carattere nell'Odissea è in accordo con questo suo ritratto nell’Iliade. L’Elena di Omero è sempre la stessa. I ragionamenti dei critici la fanno diversa da se stessa. Ma la più leggera alterazione nei suoi lineamenti delicati distrugge l’intera fisionomia.

"Ella sprezzava il campione, ma amava pur

sempre l’uomo».


E’ illecito amore di una signora alla moda; non quello dell’amorosa regina che Omero vide nella sua immaginazione e forse in parte anche nei costumi della sua epoca.

Carattere di Dante

Quel contegno altezzoso che tutti gli scrittori, da Giovanni Villani ai giorni nostri, gli attribuiscono, non è probabilmente un’esagerazione, Egli era naturalmente orgoglioso; e quando si paragonava coi suoi contemporanei, sentiva la propria superiorità e si rifugiava, come si esprime egli stesso felicemente.

Sotto l’usbergo del sentirsi puro.

Tuttavia questo inflessibile orgoglio s’attenuava di colpo nella più cedevole deferenza e docilità, quand’egli incontra coloro che hanno qualche diritto alla sua gratitudine e al suo rispetto. Conversando con l’ombra di Brunetto Latini, condannato all’inferno per un vergognoso peccato, ascolta ii suo maestro col capo rispettosamente basso.

Il capo chino

Tenga, com'uom che riverente vola.


Non è stato mai notato forse come Dante che di regola, conversando con tutti gli altri usa il pronome tu, usa invece il pronome voi rivolgendosi al suo precettore Brunetto, e alla sua maestra Beatrice.

Il nostro poeta ha spinto tant’oltre la propria modestia da non pronunciare il proprio nome; ed essendogli una volta chiesto chi fosse, non disse d’esser Dante ma pur descrivendosi in modo da dare un’altra opinione del suo genio ne attribuì ogni merito all’amore da cui ora inspirato.

..... io mi son un, che quando

Amore spira, noto; e a quel modo

Che ditta dentro, vo significando.


E anche quando l’amata Beatrice gli si rivolge, rimproverandolo per la trascorsa sua vita

Dante!

Non pianger anco, non piangere ancora

Che pianger ti convien per altra spada.


Scrive il proprio nome, per non alterare od omettere una sola delle parole che cadon dalle labbra di colei che ama; e tuttavia, trova necessario scusarsene.

Quando mi volsi al suon del nome mio

Che di necessità qui si registra.


Questa ripugnanza ad occupare i lettori con ciò che particolarmente lo riguarda, (una ripugnanza di cui certo non abbiamo a lagnarci negli autori dei giorni nostri), ha forse imposto a Dante quel suo singolare silenzio riguardo alla propria famiglia. Mentre ci narra una quantità di aneddoti famigliari intorno a quasi tutti coloro con cui ebbe relazioni, e dipinge così crudamente le tristezze dell’esilio, dimentica poi il più crudele di tutti i mali, l’angoscia del padre che non ha una casa ove dar rifugio, un pane per dar nutrimento ai suoi giovani figli inetti ancora a pensare a sè stessi. Si sa con certezza che egli ebbe diversi figli che vissero in proscrizione e in miseria sino alla sua morte. Ma dobbiamo agli storici soltanto la conoscenza di questo fatto. Che dai suoi scritti neanche avremmo potuto sospettare che egli fosse marito e padre.

E’ facile comprendere tuttavia che egli pensa alla propria famiglia, quando esclama che le donne di Firenze, negli antichi tempi, quando regnava la purezza dei costumi e la concordia civile, non eran costretti a una vita di vedovanza mentre i loro mariti ancora vivevano, nè obbligate a divider con loro le sofferenze dell’esilio; senza saper dove mai avrebbero trovato la pace di un sepolcro.

O fortunate, e ciascuna era certa

della sua sepoltura


Non soltanto nelle sue «similitudini tratte dalla vita campestre» come notò l’Hallam, ma sopratutto in ciò che dice dei rapporti sociali e dei periodi più splendidi della sua patria, possiamo notare la finezza e nobiltà della sua natura. Egli gode nel descrivere le gioie della vita domestica, di cui ci dà un quadro commovente nel 15.o Canto del Paradiso, donde abbiam tolto i versi or ora citati. Egli non lamenta soltanto l’innocenza e la semplicità, ormai perdute, ma anche il lusso raffinato, la cortesia, lo spirito cavalleresco della galanteria e dell’amore, e il tono di elevatezza di costumi nella società, che in Italia, a quanto pare, cominciavano allora a scomparire.

Le donne, i cavalieri; gli affanni e gli agi

Che ne invogliava amore e cortesia.


Questi due versi hanno un tale incanto per un orecchio italiano, che Ariosto, dopo aver abbozzato un migliaio di versi per l’inizio del suo poema, e averne scelto uno abbastanza insignificante, che ha stampato, li respinge tutti nella seconda edizione e vi sostituì quasi parola per parola i versi di Dante, nel modo seguente

Le donne, i cavalieri; l'armi, gli amori

Le cortesie, l'audaci imprese, io canto.


Ma il leggiero mutamento, necessario distrusse la dolce armonia dell’originale; e il delicato sentimento di rimpianto del tutto scomparve nell’imitazione. E’ molto raro che le stesse idee o le stesse parole, conservino la medesima efficacia, quando siano rivulse dal terreno ove primamente caddero sgorgando dal cuore di un uomo di genio.

Dante e gli uomini del suo tempo


Dante distingue continuamente i peccati e i meriti di ogni individuo. Nel suo poema, la Giustizia Divina punisce il peccato ogni volta che questo vien commesso, ma la simpatia umana, o pietà, compiange o attenua l’offesa, secondo le circostanze in cui fu commessa. Il poeta dispensa biasimo e lode, secondo le qualità generali delle persone, il bene o il male che han recato al loro paese, la gloria o l’infamia che han lasciato dietro di sè. E tuttavia evita con ogni cura di esporre questa stia massima in parole, mentre invariabilmente la segue sia nell’Inferno che nel Purgatorio. Nel Paradiso naturalmente questa regola non ha modo di applicarsi.

Da questo principio deduce che coloro che in vita non fecero nè bene nè male, sono di gran lunga gli esseri sprezzabili. Ce li descrive


Questi sciagurati che mai non fur vivi.


Li pone tra l’Inferno, la dimora dei dannati, e il Limbo, la dimora delle anime degli infanti e degli uomini giusti che ignorarono la fede cristiana; e con singolare audacia di giudizio e di stile, dice che la giustizia di Dio sdegna il punire coloro che vissero una inutile vita. Così come la sua misericordia sdegna di perdonarli.


Fama di loro il mondo esser non lassa,

Misericordia e Giustizia li sdegna,

Non ragionar di lor ma guarda e passa.


Tra costoro egli ha l’audacia di porre S. Celestino che abdicò al pontificato per pure debolezza e si procurò i titoli per la canonizzazione rinchiudendosi in una cella d’eremita. E anche pone tra loro gli angeli che nella lotta di Lucifero contro Dio, non si schiararono nè con l'uno nè con l’altro, pensando solo a se stessi.

In coloro che meritaron da Dio che il peso dei loro peccati fosso controbilanciato dalle loro opere, Dante ha in genere radicato un potente desiderio di fama. La speranza d’esser nominati dal poeta, nel suo ritorno al mondo dei vivi, sospende per un attimo in loro la stessa coscienza delle sofferenze fisiche. Anime grandi, pur espiando la colpa e la vergogna dei più gravi peccati, lo pregano di narrare il loro incontro. Egli promette sempre; e sovente, allo scopo di indurli a parlare più diffusamente, dà la sua parola che non saranno dimenticati le ombre di coloro la cui vita trascorse affondata in continui delitti ed infamie, gli tengon celato il loro nome. Nel medio evo, tra le barbarie e la raffinatezza, gli uomini senton più forte il desiderio di preservare i loro nomi dall’oblio. In quel periodo, le passioni non han perso nulla del primitivo vigore e son guidate più dall’impulso che dal raziocinio. L’uomo ha più difficoltà da superare, e più coraggio a sostenerlo; e, anziché esserne frenato nel suo cammino si getta quasi con ostentazione in ogni abisso che s’apre sulla sua via. L’età di Dante ci offre di questi esempi che saran difficilmente creduti in un’epoca come la nostra, in cui nulla vi è più di nuovo che produca forte impressione e gli oggetti di desiderio sonoc osì molteplici che nessuno di essi può suscitare un interesse dominante. E’ certo tuttavia che le forti passioni delle età primitive guidano gli uomini a grandi virtù - grandi delitti - grandi disgrazie; e forman così i caratteri più atti a divenire materia poetica. Dante non aveva che a guardarsi attorno per trovare simili caratteri. Li trovava già formati, acconci al suo scopo, senza dovervi aggiungere un solo tocco per migliorarli. La raffinatezza non aveva ancora reso simili le fisionomie indivuali nella gran massa di una nazione. L’originalità personale ora rara, pericolosa, ridicola, e sovente artificiosa, era allora generale e genuina. La poesia in tempi più recenti, è riuscita a coglierne le ombre per la creazione di una bella commedia, come il Misantropo di Molière ; o di una satira garbata, come Il ricciolo rapito di Pape. Ma questo genere di poesia può soltanto cogliere il carattere esteriore in cui ogni epoca e creazione si ammanta alla propria maniera; mentre la poesia che si occupa del cuore dell’uomo e altrettanto ampia e profonda che la stessa natura umana. Dobbiam riconoscere, che Pope appena incontrò, in un’età quasi barbara, un personaggio poetico, guidato dal solo sentimento sia nell’agire che nello scrivere, creò la Epistola di Eloisa, dando così prova del suo genio. Molte donne di quell’epoca eran simili ad Eloisa, nell’amore e nella sventura, lasciarono poche lettere dietro di sè, o non ne lasciarono affatto. E anche quelle di Eloisa son giunte sino a noi solo per il loro legame con gli scritti del suo innamorato. Oggi il sesso gentile scrive assai di più e forse sente altrettanto di meno; e si capisce che i nostri moderni poeti, non trovando in patria dei caratteri poetici, sian tratti a cercarli in Turchia e in Persia. mentre i tedeschi esplorano le rovine dei castelli teutonici, e gli italiani prudentemente si fermano alla mitologia greca e romana. Certo, quando le nazioni son semi-barbare, le passioni sono le leggi più forti: e se anche qualche altra cosa passa sotto il nome di legge, non ha nè consistenza nè vigore. Il castigo del colpevole è affidato a colui che subì l’offesa - ed egli considera la vendetta come un dovere. Dante termina uno dei suoi componimenti lirici con questo sentimento.

Che bell'onor s'acquista in far vendetta.


Con quanta forza l’applicazione di questa massima nel suo poema fa risaltare il carattere del tempo suo! Spaventato, ad ogni passo, da ciò che l’Inferno offre al suo sguardo, il sentimento della vendetta, come dovere, lo ferma nel suo cammino. I suoi occhi si fissano su di una ombra che pare sfuggirlo. Virgilio gli ricorda che debbon continuare il loro viaggi; e gli chiedo il perchè dell’indugio. Dante risponde: «Se tu ne sapessi la ragione, mi permetteresti di rimanere ancora; poichè nella fossa, ove fissavo gli occhi, mi parve di scorgere un mio consanguineo» «Infatti», aggiunge Virgilio, «vidi che ti accennava col dito, un volto minaccioso e altero» «Oh, maestro,» esclama Dante: «egli fu ucciso da un nemico e la sua morte non è stata ancora vendicata da coloro che subiron l’offesa; per questo egli ebbe a sdegno di parlare con me!» (Inferno, canto 29).

Ugo Foscolo. - (dalla Edinburgh Review -

febbraio-settembre 1818).


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