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508 le confessioni d’un ottuagenario.

neti da Attila a Carlo V, nel quale l’arditezza delle ipotesi, la copia dei documenti e l’acume della critica si sussidiavano a vicenda mirabilmente, come a quel tempo mi diceva Lucilio. Questi poi riuscì molto comodo all’autore per l’esame di certi punti parziali sui quali lo sapeva profondamente erudito; e infatti corressero insieme qualche proposta, ne ammendarono qualche altra. Lucilio faceva le grandi maraviglie di scoprire tanto tesoro di sapienza, e tanto fervore d’amor patrio in quell’omiciattolo sucido e brontolone del conte Rinaldo; ma insieme anche indovinava le cause del fenomeno.

— Ecco, — diceva egli, — ecco come si sfruttano, in tempo di errori e di ozii nazionali, le menti che vedono giusto e lontano, e le forze che non consentono di poltrire!... I loro affetti, la loro attività si sprecano a rianimare le mummie; non potendo migliorare le istituzioni e studiare ed amar gli uomini, scavano antiche lapidi, macigni frantumati, e studiano ed amano quelli. È il destino quasi comune dei nostri letterati! —

Ma Lucilio diceva troppo. Perchè con Alfieri, con Foscolo, con Manzoni, con Pellico, era già cresciuta una diversa famiglia di letterati che onorava sì le rovine, ma chiamava i viventi a concilio sovr’esse: e sfidava o benediva il dolore presente pel bene futuro. Leopardi che insuperbì di quella ragione alla quale malediceva, Giusti che flagellò i contemporanei eccitandoli ad un rinnovamento morale, sono rampolli di quella famiglia sventurata ma viva, e vogliosa di vivere. Il disperato cantore della Ginestra e di Bruto sapeva meglio degli altri che soltanto la lunghezza della vita può sollevar l’anima a quella sublimità di scienza, che comprende d’uno sguardo tutto il mondo metafisico, e non s’arresta ai gemiti fanciulleschi d’un uomo che si spaura del bujo.

Giulio, il mio figliuoletto, si sarebbe assai vantaggiato