Pagina:Misteri di polizia - Niceforo, 1890.djvu/221

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certe convenienze non fossero poste in dimenticanza, le tragedie del Niccolini, con qualche taglio operato con garbo, vedevano i lumi della ribalta. L’Antonio Foscarini, recitato nel 1827 al teatro di via del Cocomero, destò ciò che nel gergo teatrale di tutti i tempi si è chiamato furore.

Il Niccolini, in quel suo lavoro, aveva bellamente e con armonia ammirabile fuso insieme i due generi che allora si disputavano il campo letterario: il genere classico e il genere romantico. Egli aveva saputo dimostrare non con un discorso accademico, o con un trattato, ma con un’opera d’arte, come non fosse impossibile fondere la tragedia dell’Alfieri col dramma dello Shakespeare, la teorica d’Aristotile con le dottrine svolte dal Manzoni nel suo famoso discorso sulle tre unità. Meno i soliti intransigenti, specie dei partigiani del vecchio sillabo classico, che per bocca del Monti avevano lanciato la loro brava scomunica contro l’Audace scuola boreal, tutti, e partigiani della vecchia scuola e partigiani della nuova, si trovarono unanimi a decretare l’apoteosi del poeta. Laonde la sera del 27 febbraio 1827, replicandosi per la terza volta il Foscarini con un successo straordinario, com’ebbe ad affermare lo stesso padre Mauro, gli ammiratori del Niccolini vollero distribuire al pubblico alcuni passaggi della tragedia che essi avevano fatto litografare. Ma al buon censore parve — e il naso fine non gli mancava — che quei versi fossero stati scelti quasi coll’intendimento di far rilevare la parte politica della tragedia; e da scrupoloso addormentatore dei pubblici teatrali e dei lettori, non permise che si facesse quella distribuzione. Ma gli amici del Niccolini, i quali sapevano che bisognava bussare per farsi aprire, non si smarrirono d’animo dinanzi a quel no, che non essendo stato pronunziato da Tamerlano, ma dalle labbra d’uno scolopio giulebbato, non poteva essere che discretamente innocuo; e pensarono d’aprire una pubblica sottoscrizione per coniare ed offrire una medaglia al poeta.

Il manifesto fu steso e portato alla censura; e il padre Mauro, dopo d’aver torto il niffolo a certe frasi, di cui volle ad ogni modo la soppressione, accordò il permesso. Egli,