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(3474-3475-3476) | pensieri | 409 |
sticode’ concetti dà subito nell’occhio, tanto ch’io lo sentii notare con maraviglia a persona niente intendente né di greco né di letteratura antica, che avea non piú che gittato l’occhio su certa traduzione di quell’autore. E Socrate stesso, l’amico del vero, il bello e casto parlatore, l’odiator de’ calamistri e de’ fuchi e d’ogni ornamento ascitizio e d’ogni affettazione, che altro era ne’ suoi concetti se non un sofista (3475) niente meno di quelli da lui derisi? E per quanto poco gli antichi generalmente pensassero, non è possibile a credere che i pensieri e le osservazioni di Socrate, di Senofonte, di Isocrate, di Plutarco (tanto piú recente) e simili, non fossero, al tempo di costoro medesimi, comuni e triviali e volgari (sieno politici, filosofici, morali o qualunque), o eccedessero la comune capacità di pensare, di trovare, di concepire, di osservare. Ma pochi sapevano esprimerli a quel modo, come ho detto di sopra.
È cosa osservata che le antiche opere classiche, non solo perdono moltissimo, tradotte che sieno, ma non vaglion nulla, non paiono avere sostanza alcuna, non vi si trova pregio che l’abbia potute fare pur mediocremente stimabili, restano come stoppa e cenere. Il che non solo non accade alle opere classiche moderne, ma molte di esse nulla perdono per la traduzione, e in qualunque lingua si voglia sono sempre le medesime, e tanto vagliono quanto nella originale. I pensieri di Cicerone non sono certo cosí comuni come quelli de’ sopraddetti ec., né furono de’ piú (3476) comuni al suo tempo, massime tra’ romani. Nondimanco io peno a credere ch’altri possa tollerar di leggere sino al fine (o far ciò senza noia) qualunque è piú concettosa opera di Cicerone, tradotta in qual si sia lingua. Che vuol dir ciò, che vuol dir questa differenza di condizione tra l’antiche e le moderne opere, tradotte ch’elle sieno, se non che negli antichi, anche sommi, scrittori, o tutto o il piú son parole e stile, tolte o can-