Pericle principe di Tiro/Atto quarto
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Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
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ATTO QUARTO
Entra Gower.
Gow. Imaginate Pericle a Tiro, ben accolto da tutti: poi la sua dolente sposa in Efeso, ascritta al sacerdozio di Diana. Volgete quindi gli sguardi sopra Marina, che il rapido scorrere della nostra scena trova già educata in Tarso da Cleone nella musica e nelle lettere, e che possiede tutte le grazie che possono rendere una fanciulla oggetto di meraviglia generale. Ma oimè! l’invidia, quel mostro spietato insidia l’infelice, e cerca di toglierle con tradimento la vita. Cleone ha una figlia già in età da marito, chiamata Filotene, che da quanto apparisce nella nostra storia, vuole starsene sempre con Marina, sia ch’ella assisa al telaio faccia scorrer sopr’esso le sue lunghe, bianche e ben tornite dita, o che coll’ago trapuntando si piaccia di più queto esercizio: sia che seduta col liuto canti, e faccia tacer stupiti i rosignuoli che piangono al suo pianto; o che con dolci versi scrivendo, narri le glorie degl’immortali. In ognuna di tali prove, quella Filotene contende seco e gareggia, come potrebbero farlo colle colombe di Paffo i neri corvi. Marina però ottiene tutte le lodi, che le son pagate come debiti e non date come doni, e tal confronto oscura tanto i vezzi di Filotene, che la moglie di Cleone intende a far morire violentemente la buona fanciulla, onde sua figlia rimanga sola ai trionfi. Per compiere sì infernale disegno, Licorida, l’ottima nudrice, vien tosto assassinata, e la maledetta Dioniza tien pronto il pugnale ad un secondo colpo. Gli eventi successivi li vedrete, se ne avete voglia. Eccovi intanto Dioniza e Leonino, l’omicida, che vengono dinanzi a voi. (esce)
SCENA I.
Tarso. — Una landa vicino al mare.
Entrano Dioniza e Leonino.
Dion. Rimembra il tuo giuramento; sarà un colpo solo che verrà ignorato da tutti. Nulla potresti fare in minor tempo, che ti fosse più proficuo. Non volere che la coscienza, che è un pezzo di ghiaccio, svegli tumulti nel tuo petto, o che la compassione, di cui anche le donne ora sono scevre, s’impadronisca di te: sii fermo nel tuo divisamento.
Leon. Lo sarò; ma pure è una buona creatura.
Dion. Tanto più gli Dei debbono chiamarla a sè. Eccola che viene piangendo per la morte della sua nutrice. Tu sei risoluto.
Leon. Sono. (entra Marina con un canestro di fiori)
Mar. No, no, io voglio spogliare la terra che ti copre d’ogni erba malvagia, e cuoprirla vuo’ di viole, di margherite e d’ogni altro fiore, finchè dura l’estate. Oimè! povera fanciulla, nata in mezzo a una tempesta in cui mia madre morì; questo mondo è per me come una bufera durevole che mi toglie i miei migliori amici.
Dion. Ebbene, Marina! Perchè siete sola? Com’è che mia figlia non è con voi? Non vi abbandonate troppo al dolore, che vi resta in me una nutrice. Dio! come il vostro aspetto è cambiato! Date, date a me quella ghirlanda di fiori. Prima che il flusso del mare ve lo impedisca, passeggiate con Leonino lungo questa riva; l’aria vi è pungente, e aguzza bene lo stomaco. Andate. Datele braccio, Leonino, e passeggiate con lei.
Mar. No, ve ne prego: non voglio privarvi del vostro domestico.
Dion. Andate, andate, io amo il re vostro padre e voi di cuor sincero. Ogni giorno lo aspettiamo qui: allorchè egli verrà e ritroverà così dissimile da quello che ve gli abbiamo descritta, si pentirà del suo viaggio, e biasimerà me e il mio signore, perchè non ci siam presi miglior cura della vostra salute. Andate, ve ne prego, e rasserenatevi: conservate la freschezza di quel volto, che fa spasimare giovani e vecchi. Non pensate a me tornerò a casa sola.
Mar. Ebbene, andrò, sebbene ne abbia poca voglia.
Dion. Andate, vi gioverà. Passeggiate una mezz’ora almeno. Ricordatevi, Leonino, di quel che vi ho detto.
Leon. Non temete, signora.
Dion. Vi lascio per un poco, mia cara fanciulla: passeggiate adagio, per non riscaldarvi il sangue: abbiatevi cura.
Mar. Grazie, gentil signora. (Dion. esce) Spira da occidente questa brezza?
Leon. Da occidente.
Mar. Quando io nacqui, il vento veniva dal nord.
Leon. Dal nord?
Mar. E aveva sollevato in mare tal tempesta, che la simile non era più stata vednta. Mio padre sul ponte della nave s’adoprava come il più esperto marinaio, inutili sforzi, mia madre dovè soccombere.
Leon. Vostra madre?
Mar. Ella moriva in mezzo a quel feroce nembo.
Leon. Fanciulla, recitate le vostre orazioni.
Mar. Che volete dire?
Leon. Se chiedete un po’ di tempo per pregare, io ve lo concedo. Pregate, ma non siate troppo lunga, perchè gli Dei han pronte le orecchie, ed io ho giurato di compier la mia opera presto.
Mar. Volete voi uccidermi?
Leon. Per appagare la mia signora.
Mar. Perchè vuol ella uccidermi? Io non l’offesi mai in vita mia: non le dissi mai una cattiva parola, non me le mostrai mai con poco affetto: io non uccisi mai una mosca, e se pestai per avventura un verme senza avvedermene, dopo lo piansi. Perchè merito io dunque la morte, e come può la mia morte esserle vantaggiosa, o dannosa la mia vita?
Leon. La mia incumbenza non porta di discuter l’opera, ma di compierla.
Mar. Voi non la compirete pel mondo intero, io spero. Voi avete un buon aspetto, e i vostri occhi rivelano un cuor pietoso. Io vi vidi non ha molto restar ferito, per aver voluto dividere due combattenti: la vostra bontà si appalesò in quel fatto: non la smentite ora. La vostra signora vuol togliermi la vita; ponetevi fra lei e me, e salvatemi, ch’io son la più debole.
Leon. Giurai, e non posso trasgredire. (intanto che Marina si dibatte entrano alcuni Pirati)
1° Pir. Fermati, scellerato! (Leon. corre via)
2° Pir. Cattura! Cattura!
3° Pir. A metà, compagni, a metà. Venite, portiamola sulla nave. (escono i Pir. con Marina)
SCENA II.
La stessa.
Rientra Leonino.
Leon. Quei dannati scorridori servono il gran pirata Valdes; ed han presa Marina. Se ne vada pure: non v’è speranza che ritorni. Io giurerò che l’ho uccisa e gettata in mare. Ma bisogna ch’io m’accerti che l’hanno portata via. Se dovessero lasciarla qui, converrebbe ch’io eseguissi il mio mandato. (esce)
SCENA III.
Mitilene — Una stanza in un lupanare.
Entrano un Mezzano e una vecchia Cortigiana e Boult.
Mez. Boult.
Boult. Signore.
Mez. Va al vicino mercato: Mitilene è piena di zerbini. Molto perdemmo quest’anno sendo così sprovvisti di fanciulle.
Cor. Non mai ve ne fu tanta penuria. Ne abbiamo tre sole, e non possono fare più di quel che fanno: il troppo esercizio però le ha sfibrate.
Mez. Procuriamocene alcune fresche, checchè dovessimo pagarle. Se non v’è un po’ di coscienza, non si può prosperare in alcun mestiere.
Cor. Dici bene: non è l’allevare alcuni poveri orfanelli che possa arricchire: io ne ho allevati almeno dodici, senza che mi sia avanzato nulla.
Boult. Debbo andare al mercato a far ricerca?
Cor. E dove dunque? La merce che possediamo è già tutta corrosa.
Mez. Dici vero, è in istato tale che non si può più offerire ad un uomo senza far peccato. Quel povero Transilvanese che ne volle far profitto è morto.
Boult. Ma egli andò all’altro mondo già familiare colla putredine e i vermi: vado al mercato. (esce)
Mez. Tre o quattro mila zecchini basterebbero per viver bene.
Cor. Se non gli abbiamo messi insieme a sessant’anni, non gli accumuleremo più. Per questa terra il nostro conto è omai pareggiato; ma come pareggieremo l’altro di là?
Mez. Alla meglio che potremo; se non ci adoprammo mai in vita che pel piacere del nostro prossimo, dovremmo essere puniti di ciò? Ma sta... guarda Boult con chi ritorna. (entrano i Pirati e Boult trascinanti Marina)
Boult. Venite, venite. (a Mar.) — Signori, voi dite che è intatta?
1° Pir. Non ne dubitiamo.
Boult. Padrone, ho offerto una gran somma per costei: se vi piace, sborsatela, se no, avrò perduta la caparra.
Cor. Che qualità ha ella, Boult?
Boult. Ha un bel volto, parla bene, e veste con molta decenza: codeste qualità bastano.
Cort. A quel prezzo è posta, Boult?
Boult. Non uno scellino di meno di mille piastre.
Mez. Bene, seguitemi, amici: vi sborserò il denaro. Moglie, prendila; istruiscila di quel che ha da fare, onde non rimanga scornata. (esce coi Pirati)
Cor. Boult, prendi i suoi connotati, il colore de’ suoi capelli, la sua figura, la sua altezza, la sua età, coll’attestato della sua verginità, e grida: quegli che darà di più l’avrà primo. Un tal fiore non sarà pagato lievemente, se gli uomini sono quello che erano. Va a far ciò che ti ho detto.
Boult. Corro ad obbedirvi. (esce)
Mar. Oimè, quel Leonino fu sì lento, sì neghittoso! Egli avrebbe dovuto uccidermi senza parlare, o quei pirati, non abbastanza crudeli, avrebbero dovuto gettarmi in mare per cercarvi mia madre.
Cor. Di che vi lagnate, bella fanciulla?
Mar. Di esser bella.
Cor. Gli Dei sono stati in ciò generosi con voi.
Mar. Ma io non posso averne loro riconoscenza.
Cor. Voi vivrete con me, e vivrete bene.
Mar. Duolmi d’essere sfuggita a quelle mani che potevano uccidermi.
Cor. E vivrete con molto diletto.
Mar. No.
Cor. Sì, e godrete dell’amore di gentiluomini d’ogni specie. Sarete festeggiata, carezzata, blandita. Perchè vi chiudete le orecchie?
Mar. Siete voi una donna?
Cor. Che vorreste che fossi, se non fossi una donna.
Mar. Una donna onesta, o non una donna.
Cor. Furfantella, mi converrà adoprar la frusta con voi. Veggo che siete un po’ pazza, ma io saprò domarvi.
Mar. Gli Dei mi difendano.
Cor. Gli Dei vi difenderanno, valendosi degli uomini che verranno a confortarvi, ad alimentarvi, a tenervi lieta. Ecco Boult che ritorna. (entra Boult) Ebbene, gridasti pel mercato com’io ti dissi?
Boult. Gridai, e feci a voce il di lei ritratto.
Cor. E quali trovasti, te ne prego, le inclinazioni della gente, soprattutto dei giovani?
Boult. In fede, essi mi ascoltavano, come avrebbero ascoltato il testamento del loro padre. Vi fu uno Spagliuolo che rimase sì conquiso della mia descrizione, che corse tosto a coricarsi.
Cor. Prima di dimani lo avremo coi suoi più bei pizzi.
Boult. Stasera, stasera. Ma conoscete voi, signora, quel cavalier francese curvato all’innanzi?
Cor. Chi? monsieur Verolles?
Boult. Sì, egli saltellò al mio bando, divenne agile come un capriuolo, e giurò, che l’avrebbe voluta vedere prima di dimani.
Cor. Bene, bene, si compenserà con ciò delle malattie che prese qui. Egli verrà ad alloggiare da noi, e verranno con lui viaggiatori di altre nazioni. — Ora ascoltatemi, voi. (a Mar.) La fortuna vi corre dietro; approfittatene. Badate; voi dovete simulare di far con avversione quello che farete volentieri; di disprezzare il guadagno, onde vi venga maggiore. Dovete compianger la vostra maniera di vivere, onde intenerire i vostri amanti; mostrarvi insomma quale non sarete.
Mar. Non v’intendo.
Boult. Oh! conducetela in casa, padrona, conducetela in casa: quei suoi rossori debbono essere dissipati da una subita pratica dei vostri precetti.
Cor. Dici bene, in fede: non è più tempo di ciancie. Venite, fanciulla: apprenderete il mestiere. Boult, continua a spargere per la città la notizia che costei sta in nostro potere, e ne sarai ricompensato ampiamente.
Boult. Vi assicuro, signora, che il tuono non scoppierà così forte, come la mia voce, vantando la di lei bellezza. Qualcuno vi condurrò a casa questa notte.
Cor. Venite voi di qui; seguitemi.
Mar. Se il fuoco abbrucia, se i pugnali trafiggono, o le acque annegano, rimarrò incontaminata. Diana, dammi tu soccorso.
Cor. Che cosa ci avete voi a fare con Diana! Venite, vi prego. (escono)
SCENA IV.
Tarso. — Una stanza nella casa di Cleone.
Entrano Cleone e Dioniza.
Dion. Siete voi insensato? si può da ciò recedere?
Cl. Oh Dioniza! uccisione sì orrenda non fu mai mirata dai cieli.
Dion. Io credo, che voi ridiveniate fanciullo.
Cl. Foss’io signore di tutto il mondo, e lo avrei dato per annullare tal opera. Oh fanciulla, degna al pari per virtù e per sangue di essere la prima delle principesse, come infamemente fosti assassinata! Empio Leonino, tu pure però moristi, e avvelenato da costei, che ti fece commettere l’empio omicidio. Ha che dirai tu, mostro, allorchè Pericle ti chiederà sua figlia?
Dion. Che ella è morta, che dei decreti del fato niuno è responsabile; che non potemmo salvarla. A meno che voi non confessiate tutto, che potrà egli rispondermi?
Cl. Oh! va; di quante colpe furono commesse in terra, gli Dei riputeranno questa la maggiore.
Dion. Tacete una volta; io arrossisco di tanta vostra debolezza. Nessuno, fuori di voi, sa com’ella fosse uccisa, e niuno lo potrà più sapere, sendo morto Leonino. Ella disprezzava mia figlia, e stava fra lei e le sue fortune: niuno la guardava, assorto negli occhi di Marina: per questa erano tutte le lodi, tutti gli augurii, nulla per la nostra. Ciò mi ferì il cuore, e sebbene voi chiamiate snaturata la mia opera, io doveva compierla per amore di madre.
Cl. Gli Dei ve la perdonino.
Dion. E quanto a Pericle, che dovrebbe egli dire? Noi piangemmo sui suoi funerali, ed anche ora piangiamo: il suo monumento è quasi terminato, e il suo epitafio, in lettere di lucido oro, dichiara le sue virtù, e l’amore che noi le portammo.
Cl. Tu sei come le arpie, che per ingannare hai sembianze di angelo e artigli d’aquila.
Dion. Voi vi mostrate il più inetto uomo, ricordando tanto un fatto che non può aver conseguenze, e che fin dal primo giorno doveva essere sepolto nell’obblío. (escono; entra Gower dinanzi al monumento di Marina a Tarso)
Gow. Così corre la scena, e rapide son così le umane vicissitudini. Voi, che assistete a questa rappresentazione, compatiteci, e traetene insegnamento; perdonateci soprattutto la licenza, con cui vedete che passiamo da un luogo del mondo all’altro. Tornando alla nostra storia, vi dirò che Pericle sta ora traversando di nuovo gl’instabili mari, con gran corteo di signori e di cavalieri, e ciò per vedere sua figlia, delizia della sua vita. Il vecchio Escano è lasciato al governo. I vascelli approdano, e il dolente padre corre per tutto in traccia della figlia sua, finchè s’imbatte nel suo monumento. Mirate ciò un po’ meglio in azione, e poi tornerò a parlare.
Pantomima.
Gow. Osservate qual dolore può dare una fallace credenza! Il povero Pericle sospiroso e mesto lascia Tarso, e di nuovo s’imbarca col voto di non più lavarsi, di non più radersi i capelli, di non più deporre quelle nere vestimenta. Egli ha una tempesta nel cuore che rugge, e lo fa lagrimare. Udite l’epitafio da cui gli fu suscitata: esso è per Marina, e lo fe’ la malvagia Dioniza. (legge l’iscrizione che è sulla tomba)
Monumento.
La creatura più vaga, più amorosa, più bella, qui giace: essa morì nella primavera degli anni. Era di Tiro, era figlia di un re: Marina avea nome, e al nascer suo presiedè Teti, la dea dalle belle chiome. Quest’anima soave è ora andata in cielo, dove gode la gloria degli immortali.
Niuna maschera si addice meglio alla scelleratezza, della pieghevole e vile adulazione. Lasciam che Pericle creda per ora sua figlia estinta, e si dia in balìa della fortuna: non dobbiamo adesso mostrare il dolore di questa figlia. Con celere volo riportatevi dunque a Mitilene. (esce)
SCENA V.
Mitilene. — Una strada dinanzi al lupanare.
Escono dal lupanare due Gentiluomini.
1° Gent. Udiste mai cosa simile?
2° Gent. Nè mai più la simile se ne udrà in un tal luogo, quando colei se ne sia dipartita.
1° Gent. Ascoltar là dentro una predica! Chi sel sarebbe sognato?
2° Gent. Venite, ne ho fradicie le orecchie. Vogliamo andare a udire cantar le Vestali?
1° Gent. Farò ogni cosa che sia virtuosa, dopo tal lesione di moralità. (escono)
SCENA VI.
La stessa. — Una stanza nel lupanare.
Entrano il Mezzano, la vecchia Cortigiana e Boult.
Mez. La ritrosia di costei ci ha rovinati tutti.
Cor. Fu mai veduta egual pazza? Ma bisogna, o che vinciamo la sua resistenza, o che ci disfacciamo di lei. Allorchè io l’esorto a captivarsi i clienti, e a praticar bene la professione, ella comincia co’ suoi discorsi, colle sue preghiere, col suo inginocchiarsi, e con cent’altre frasche che farebbero diventar puritano il diavolo, prima ch’ei potesse ottenere un bacio da lei.
Boult. In fede, bisogna soggiogarla, se no ella ci sfornirà di tutti i nostri cavalieri, e li muterà in altrettanti preti.
Mez. Il diavolo se la porti.
Cor. O qualche malattia diabolica. Viene Lisimaco travestito. (entra Lisimaco)
Lis. Che v’è di nuovo? Quali belle possedete?
Cor. Gli Dei vi benedicano.
Boult. Son lieto di veder Vossignoria in buona salute.
Lis. Lo credo, perchè è bene che i vostri avventori stian ritti sulle gambe. Possedete nessun oggetto prezioso?
Cor. Abbiamo una fanciulla, signore, che l’eguale non venne mai in Mitilene.
Lis. Se per sua cagione l’umanità fosse stata dannata, tu avresti detto lo stesso di lei.
Cor. Vostra Signoria vedrà che non l’inganno.
Lis. Bene, falla venire.
Boult. Per la carne e il sangue, signore, bianca e rossa; vedrete una rosa; e una rosa sarebbe se avesse solo...
Lis. Che cosa?
Boult. Oh! io debbo essere modesto.
Lis. Strano dovere in un tuo pari.
Cor. Eccola che giunge in tutto il suo splendore. Ell’è intatta, ve ne assicuro. (entra Marina) Non è una vaga donzella?
Lis. Convengo che è leggiadra. Prendete questo danaro, e lasciateci soli.
Cor. Vi supplico di permettere ch’io le dica una parola, e poi me ne vo.
Lis. Fate.
Cor. (a Marina in disparte) Badate, fanciulla, che questo è un uomo d’onore.
Mar. Desidero di trovarlo tale.
Cor. Badate ch’è il governatore di questo paese, e ch’io gli ho molti obblighi.
Mar. Se egli vi governa, dovete infatti essergli obbligati; ma quanto onore possa trovarsi nel governarvi, è ciò che ignoro.
Cor. Senz’altri discorsi, volete trattarlo gentilmente? Egli vi empirà il grembiule d’oro.
Mar. Ciò che farà graziosamente io lo accetterò con riconoscenza.
Lis. Avete finito?
Cor. Signore, ella non è per anche doma; converrà che abbiate molta pazienza. Venite; la lascieremo insieme con lui. (esce col Mez. e Boult.)
Lis. Andatevene una volta. — Ora, mia bella, da quant’è che esercitate il mestiere?
Mar. Qual mestiere, signore?
Lis. Quello ch’io non posso nominare senza offendervi.
Mar. Il mestier mio non mi può esser di vergogna. Nominatelo.
Lis. Da quant’è che fate questa professione?
Mar. Da che ho memoria.
Lis. L’incominciaste così giovine?
Mar. Anche troppo giovine, se ora sono giovine.
Lis. La casa in cui siete è molto al di sotto del vostro merito.
Mar. Voi conoscete questa casa e venite qui? Udii dire, che siete un uomo d’onore, e che governate questa città.
Lis. La vostra principale ve lo disse?
Mar. Chi è la mia principale?
Lis. Quella donna che era qui testè, che sparge per tutto i semi della vergogna e dell’iniquità. Voi udiste chi sono, e potrei farvi tremare: ma io vi sarò sempre amico, e la mia autorità non vi si darà mai a sentire. Venite, entriamo in qualche stanza, andiamo.
Mar. Se siete un uomo d’onore, mostratelo adesso: prendete a cuore la mia situazione, e rendetemi giustizia.
Lis. Che volete voi dire? Delirate?
Mar. Io sono una povera fanciulla, cui la crudel fortuna ha cacciato in questo infame luogo, dove trascino una vita miserabile..... Oh! Così i buoni Dei volessero trasmutarmi nel più piccolo uccello che scorre per l’aere, ond’io potessi fuggire di qui.
Lis. Non sapevo che tu parlassi così bene, nè l’avrei creduto. Se anche avessi avuto il cuore corrotto, il tuo dolore me lo arrebbe sanato. Tieni, eccoti oro: persevera sempre in questa via, e gli Dei ti dian forza.
Mar. Essi guardino per voi.
Lis. Per me non venni con cattivo intendimento, perchè abborro le porte di sì fatti luoghi. Addio. Tu sei una creatura virtuosa, e io non dubito che non sia stata nobile la tua educazione. Prendi; eccoti oro ancora: maledetto sia colui che penserà a spogliarti della tua innocenza: ch’ei possa morire come un malfattore! Se avrai di me altre novelle, sarà per bene tuo. (mentre Lisimaco vuol riporre la borsa, entra Boult)
Boult. Vi supplico, una moneta anche per me.
Lis. Via, dannato cane! La vostra casa, senza i meriti di questa fanciulla, crollerebbe, e vi schiaccierebbe tutti: via! (esce)
Boult. Che vuol dir ciò? Prenderem con voi altre maniere. Se la vostra caparbia castità, che non vale una colazione d’osteria, ci deve sfornir l’albergo, io v’acconcierò come meritate. Ite.
Mar. Che cosa volete farmi?
Boult. Voglio che v’arrendiate a quello che vi diciamo, o vi farem passare per le mani del carnefice. Andatevene. Non iscaccierete più di qui alcun gentiluomo. Andate, dico. (rientra la Cortigiana)
Cor. Che v’è? che fu?
Boult. Sempre peggio, sempre peggio, padrona; ella ha parlato con sante parole anche a Lisimaco.
Cor. Oh abbominazione!
Boult. Ed esercita la nostra professione come se fosse sempre al cospetto degli Dei.
Cor. Sia maledetta!
Boult. Il governatore l’avrebbe trattata da par suo, ma essa lo rimandò tutto contrito e in orazione.
Cor. Boult, conducila via; adopera seco come ti piace, e rendila mansueta.
Boult. Lasciate fare a me, ch’io le torrò le fisime dal capo.
Mar. Udite, udite voi, giusti Dei!
Cor. Ella prega: conducila lontano. Non foss’ella mai qui venuta! ci ha rovinati! Perchè non volete esser simile alle altre donne? Abbiate giudizio, o la pagherete cara! (esce)
Boult. Venite, venite con me.
Mar. Che cosa volete?
Boult. Rapirvi quello che tenete sì caro.
Mar. Dimmi prima una cosa, te ne prego.
Boult. Udiamo.
Mar. Perchè professi tu questo mestiere? Un demone d’inferno ne arrossirebbe! L’aprir la porta ad ogni paltoniere, e l’esser soggetto agli sdegni di tutti, dovrebbe parerti insopportabile. Non v’è professione più vile della tua, alcuna non ve n’è più nefanda; nè il prodotto che ne ricavi è tale, che possa stimolarti ad essa.
Boult. Che cosa vorresti che facessi? che andassi alla guerra? dove un uomo può servire sette anni colla perdita di una gamba, e non avanzarsi dopo neppur tanto da farsene una di legno?
Mar. Fa ogni altro mestiere, fuorchè questo: servi il carnefice prima che servir costoro che sono il disonore della specie umana. Ogni altra via, fuorchè questa, ti sarà di più decoro. Allontanatene tu che lo puoi, e così gli Dei volessero allontanare me pure da questo luogo. Guarda! questo è oro per te. Se il tuo padrone vuole col mezzo mio guadagnare, digli ch’io so danzare, cantare, cucire, tessere, e che insegnerò queste cose. Non dubito che una città così popolosa come questa non debba dare molti scolari.
Boult. Ma sapreste poi voi insegnare quello che dite?
Mar. Mettimi alla prova, e se non riesco da tanto, prostituiscimi al più vil palafreniere che frequenti questa casa.
Boult. Bene, vedrò quello che posso fare: vi collocherò in un’altra abitazione.
Mar. Ma fra donne oneste.
Boult. Affè, non saprei dove trovarne: però converrà pensarci. Intanto è necessario il consenso dei padroni che vi comprarono perchè ve ne andiate: io li istruirò del vostro proposito, e non dubito che non vogliano aderirvi. Venite, farò per voi quello che posso: venite. (escono)