Polemiche relative al De antiquissima italorum sapientia/Appendice/I. Altri articoli del Giornale de' letterati d'Italia

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I. Altri articoli del Giornale de' letterati d'Italia

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Appendice Appendice - II. Pareri per la ristampa delle due Risposte del Vico
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I

altri articoli del «giornale de’ letterati d’italia»
intorno a scritti del vico

I

Esposizione del De studiarum ratione.

Avvegnaché il dottissimo gran cancelliere d’Inghilterra, Francesco Bacone di Verulamio, nel suo libro Degli accrescimenti delle scienze , abbia eruditamente insegnato il modo con cui potrebbesi giugnere a perfezionare la sapienza degli uomini, parve al signor Giambatista Vico, napoletano, professor di eloquenza nella reale Universitá di sua patria, che piú mostrasse il Bacone quello che necessariamente vi manca che quello che converrebbe supplire per ottenere un tal fine; e, mosso dal desiderio di promuovere il comun giovamento, stimò cosa opportuna ripigliare per mano la stessa materia e fare intorno ad essa le sue particolari meditazioni. 1 . Quindi è che, postosi a considerare le utilitá e i danni dell’ordine tenuto negli studi si da’ moderni come dagli antichi, ed a confrontare e quelle e questi fra loro, disamina egli nel ragionamento che ha pubblicato: «qual sia il piú retto e ’l migliore, se il tenuto da’ nostri o quello che dagli antichi fu praticato». Argomento, secondo lui, novissimo, ma si necessario a trattarsi, che recagli maraviglia come non sia prima venuto ad altri in pensiero. E, perché osserva tre cose conferire principalmente a qualunque maniera di studiare, strumenti, aiuti e fine, di tutte e tre egli distintamente ragiona, mostrando quali strumenti, quali [p. 282 modifica] f 282 IV - POLEMICHE RELATIVE AL «DE ANTIQUISSIMA» aiuti e qual fine avessero gli antichi, e quali noi presentemente ne abbiamo, ch’erano ad essi loro del tutto ignoti, come pure unendo i comodi dell’ordine tenuto da essi negli studi con quello dell’ordine da noi praticato, e dall’uno e dall’altro tutte le incomoditá rimovendo. II. Annoverando fra gli strumenti, che noi abbiamo, la critica, fa vedere le incomoditá ch’ella reca, massime a’ giovani che si mettono nella via degli studi. Poiché, avendo ella per uffízio suo lo spurgare il suo primo vero non solamente da ogni falsitá, ma ancora da ogni sospizione di falso, vuole che le seconde veritá, ogni verisimile ed ogni falso se ne sbandiscano affatto: il che è d’incomodo a’giovani riguardo alla prudenza, riguardo all’eloquenza e riguardo a quelle arti dove può molto la fantasia e la memoria, come la pittura, la poetica, l’oratoria e la giurisprudenza. Mostra dipoi che allo studio della critica dee precedere quello della topica, in oggi per altro poco apprezzata, poiché infatti naturalmente precede la invenzione degli argomenti al giudizio che della veritá loro si forma; che, come la critica ci fa veri, cosi la topica ci rende fecondi, onde la prima dagli stoici fu professata, la seconda dagli accademici, e però quella piú asciutta, questa piú varia e piú ornata; che l’una e l’altra, da per se sola, è viziosa, la critica, perché né meno il verisimile ammette, la topica, perché abbraccia spesso anche il falso; che ambedue, ben unite, perfezioneranno la gioventú e rimoveranno gl’incomodi piú sopra rammemorati. A tal proposito, diversamente e’ discorre da quello che insegnò il signor Arnoldo nel capitolo xvu della terza parte della sua Logica oin>ero Arte di pensare , il quale diceva d’esser persuaso dalla sperienza a non fare certo mistero della topica, né ad averne alcuna menoma stima: facendo anzi toccar con mano che lo stesso Arnoldo era del suo parere, tuttoché ne abbia scritto altramente. Parlando del metodo geometrico, dice che, usato questo nelle cose fisiche, leva il desiderio di oltre contemplare ed osservar la natura; adoperato nelle oratorie, rende disadorno il discorso e lo mette in ceppi e a meschinitá lo riduce. Quanto all’analisi, dubita ch’ella appunto per questo, perché facilita lo studio, renda inabili gl’ingegni a ben riuscire nelle meccaniche. Mostra che i piú be’ trovati, come le artiglierie, le navi di una sola vela corredate, gli orologi e le cupole delle chiese, delle quali tu la prima quella che fece Filippo Brunelleschi in [p. 283 modifica]

Santa Maria del Fiore nella citta di Firenze, sua patria, sono tutte invenzioni innanzi l’analisi divulgate. Aggiugne inoltre che quanti, col mezzo d’essa, hanno tentato di ritrovar cose nuove, non l’hanno fatto con tutto il buon successo; siccome sperimentò il padre Peroto nella sua nave, nella cui struttura egli volle che si prendessero tutte le misure delle regole analitiche. Per fare che l’analisi giovi alle meccaniche, stima convenevole ch’ella non s’insegni per via di spezie, ma per via di forme e che, come pare essere un’arte d’indovinazione, cosi ad essa, come a discioglimento per macchina, si ricorra. Con lo stesso metodo e purgato ragionamento va egli disaminando gli altri strumenti che abbiamo delle scienze e dell’arti; ma in proposito dell’eloquenza non è da ommettersi ciò che avvertisce della lingua francese, cioè non esser questa capace della maniera sublime ed ornata di dire, ma deila tenue solamente, poiché, essendo abbondante di que’ termini ch’egli chiama «vocaboli di sostanza» e che, secondo le scuole, significano le «sostanze astratte», versa ella sempre ne’ supremi generi delle cose, ed è quindi piú acconcia alla maniera magistrale di dire che all’oratoria: donde ne siegue che, dove noi lodiamo i nostri dicitori perché parlano eloquentemente, lodansi da’ francesi i loro perché pensato abbiano il vero. Dove ragiona della poetica, dice esserle di vantaggio e di comodo la cognizione e l’uso del metodo geometrico, poiché i poeti, dovendo fingere sempre i costumi quali da principio gli hanno nelle persone introdotti, della qual arte primo maestro fu Omero, siccome avvisa Aristotele, malamente possono dedurre l’una dall’altra cosa, quando non sappiano l’ordine e l’artifizio di andarle tessendo in guisa, che le seconde dalle prime, le terze dalle seconde paiano naturalmente venirne di conseguenza; il che fanno eccellentemente i geometri, i quali dalle premesse false san trarre vere illazioni. Mostra dipoi come il poeta non men del filosofo va in traccia del vero. «L’uno e l’altro — dic’egli — descrive i costumi degli uomini; l’uno e l’altro gli eccita alle virtú e gli stacca da’vizi: ma il filosofo, perché la discorre coi letterati, prende a trattar la cosa dal genere; il poeta, all’incontro, che ha da fare col volgo, la persuade con esempli, a bella posta studiati, cioè a dire coi fatti e detti sublimi delle persone ch’e’ finge. Laonde i poeti si allontanano dalle forme usuali del vero per meglio fingere una certa spezie del vero, ma piú eccellente, e lasciano la [p. 284 modifica]

natura incerta, per seguitar la uniforme: laonde non per altro cercano il falso, se non per esser in certa forma piú veri (atque adeo falsa sequuntur, ut siut quodammodo veriores)». Giudica inoltre comodissima all’arte poetica la fisica de’ moderni, mentre i poeti sogliono per lo piú valersi di certe frasi, colle quali spiegano le cagioni naturali delle cose; il che fanno o per dar piú grandezza alle cose che dicono, o ad imitazione de’ buoni antichi poeti, che han preso dalla fisica le lor migliori espressioni. III. Dove poi passa a trattare degli aiuti, che conferiscono alla maniera di ben istudiare, fa vedere l’incomodo che ci ha recato l’essere pervenute a noi ridotte in arti molte materie, le quali dagli antichi si consideravano come pratiche della morale e civile filosofia; avvertendo aver ciò cagionato gravissimi danni alla poesia, all’eloquenza e all’istoria, e che, dappoiché di si fatte cose si scrissero l’arti appresso i greci, i latini ed i nostri, non ne uscirono artefici cosi eccellenti, che potessero paragonarsi a que’ primi, che innanzi dell’arti scritte fiorivano e che coltivarono la sola filosofia, o sia dell’ottima natura la sola contemplazione. Tratta piú diffusamente che d’altro della giurisprudenza ridotta in arte, e, per rimuoverne i danni e mostrarne l’utilitá, ne scrive un’istoria arcana, da niuno giurisconsulto o politico, prima di lui, avvertita. Mostra qual fosse la giurisprudenza de’ greci, appresso i quali essendo questa contenuta nella filosofia, nella prammatica delle leggi e nell’oratoria, ne nacque che infiniti di loro lasciarono volumi intorno alla filosofia, moltissimi ne fecero di orazioni, e nessuno intorno le leggi. Ma i filosofi de’ romani erano gli stessi giurisconsulti, e, non meno che i greci la sapienza, eglino definirono la giurisprudenza essere «notizia delle cose divine ed umane»; né altronde se ne istruivano che dall’uso istesso della repubblica, servendosene i patrizi come di un arcano della potenza. Primo in Roma a professare la giurisprudenza fu Tiberio Coruncanio, e dopo lui a’ soli figliuoli de’ patrizi e di uomini nobilissimi veniva questa insegnata; ond’ella come cosa sacra e i suoi dettami come misteri in Roma si custodivano: dove, all’opposto, l’oratoria era da uomini di minor grado e d’inferior nascita professata (»). Il pretore poi era mero custode del (i) Propriamente, il testo a questo luogo ha: «Anche nella repubblica romana i filosofi erano giurisconsulti, onde, non meno che i greci, definivano esser la giurisprudenza notizia delle cose divine ed umane, e non altronde se ne istruivano che [p. 285 modifica]

ius civile , che in quella repubblica libera era rigidissimo, come le sue ordinazioni dimostrano. Mutata poi la repubblica in principato, gl’imperadori si arrogarono tutta la facoltá delle leggi, lasciandone una sola ombra al senato e all’ordine de’ patrizi. Non si cambiò questo regolamento che sotto Adriano, allorché pubblicossi l’Editto perpetuo, col quale restò stabilito che, come per l’addietro dalle xn Tavole, in avvenire da esso si prendessero le norme e le direzioni, yuindi la giurisprudenza, che prima era scienza, divenne arte, e si diedero a scriverne immensi volumi i suoi professori. Sotto Costantino prese dipoi altro aspetto, conciossiacosaché, tolte di mezzo alcune formolo, che ancora sussistevano, ella divenne a tutti comune, e si levò a’ patrizi questa sola reliquia, benché apparente, della lor prima grandezza. In Roma, in Costantinopoli ed in Berito se ne aprirono pubbliche universitá, e gl’imperadori Teodosio e Valentiniano fecero costituzioni che nessuno de’ pubblici professori la insegnasse in privato, né piú se ne facesse misterio; avvertendosi a questo passo che la giurisprudenza benigna, introdotta dagl’imperadori contro la rigida, che regnava in tempo della repubblica libera, sia stata una delle principali cagioni del corrompimento dell’eloquenza romana. Esposta in tal guisa dal dottissimo autore l’istoria occulta della giurisprudenza, passa egli a numerare gli utili e i danni che ne provennero, dacché la stessa, ridotta in arte, si rendette a tutti comune. Il primo utile si è che, come ella presso i greci era divisa tra filosofi, prammatici ed oratori, e presso i romani, innanzi l’Editto perpetuo, tra giurisconsulti ed oratori, cosi al presente in una sola dottrina si sia ristretta. Ma da ciò il primo discapito ne risulta: che i piú dei giurisconsulti moderni sono meno eloquenti e meno curano e sanno la scienza di ben ordinare i governi e di ben conservarli. Egli è ben vero (e questo è ’l secondo utile) che in cotal arte non v’è bisogno di molta eloquenza, bastando una dall’uso istesso della repubblica. Primo in Roma a professar la giurisprudenza fu Tiberio Coruncatiio, e dopo lui i soli patrizi, come quegli che soli potevano essere ammessi ne’ collegi degli auguri e de’ pontelici : ond’ella come cosa sacra e i suoi dettami come misteri in Roma si custodivano». Ma nel secondo degli articoli qui riprodotti è detto in fitte: «Vorremmo inoltre che, in luogo di quelle parole poste a c. 329 del luogo suddetto [cioè del primo articolo]: ’Anche nella repubblica romana ’, ecc., sino a quelie: ’ 11 pretore poi ’, eco., si riponessero le seguenti», e qui il brano da noi recato nel testo. Al mutamento, quantunque, piú che altro, formale, forse non fu estraneo il V. stesso [Edd.]. [p. 286 modifica]

semplice sposizione di ben ragionati argomenti, acciò le leggi si accomodino all’equitá, non per la ornatezza del dire, ma per la giustizia del fatto. Ma troppo lungo sarebbe l’andar confrontando, dietro la scorta del signor Vico, i nuovi incomodi e comodi che ne succedono nella giurisprudenza, o la consideri egli generalmente, o pure secondo le massime del celebre Accursio, o secondo quelle del famosissimo Alciato; come altresi il ricordare i saggi avvertimenti, ch’egli propone per isfuggire gli ostacoli da lui numerati e facilitare lo studio della legale scienza. Da questa si avanza a ragionare, come di validissimo aiuto, degli ottimi esemplari de’grandi artefici, i quali stimansi un gran vantaggio della nostra maniera di studiare; ed ha opinione che questi sieno piú tosto di un sommo nocumento all’imitazione della natura, con cui solamente i primi divennero esemplari e maestri nelle lor arti. Disaminando se la stampa ci apporti alcuna utilitá, considera che la scrittura arrecava agli antichi un grandissimo benefizio, cioè di trascrivere gli ottimi in ogni genere, e con la lunga e sola pratica d’essi di conseguire tutto il loro spirito. Quindi riflette alle molte e gravi cagioni, onde s’abbia a dubitare della fama e del credito di qualunque scrittore presente, per quanto grande e riputato egli siasi. Mostra finalmente il gran bene che ci risulta dalle universitá degli studi, e ’l male infinito, insieme, che ne cagiona la varietá de’ maestri, per cui rari sono quegli uomini che facciano sistema di quel che sanno o che, piú tosto, saper dovrebbono. Nel fine del suo ragionamento l’eruditissimo autore scioglie l’obbiezione, che gli potrebbe esser fatta, di trattare un argomento niente a lui convenevole, dicendo con modestia che anzi il medesimo molto a lui si appartiene, come a professore di eloquenza, il quale ha debito d’esser versato in qualunque genere di scienze e di arti. Egli, a dir vero, discorre in tutto con tanto di dottrina e di giudizio, che ben mostra di aver meritato il titolo che lo qualifica nella repubblica delle lettere, dando motivo a noi di desiderare che si fosse steso un poco piú su questa materia, né l’avesse solamente, per cosi dire, accennata. [p. 287 modifica]

II

Annunzio del De antiquissima italorum sapientia,
e ancora del De studiorum ratione.

Abbiamo per lettere che in breve il signor professore Di Vico sia per dare alla luce una dotta opera, in cui, con l’occasione di far vedere dalle parole latine la filosofia piú ascosa de’ romani antichi, stimata da lui in buona parte pitagorica, dará il saggio di un novello sistema da lui pensato. Il titolo dovrá esserne: De antiquissima Italorum sapientia ex lingua e Latinae originibus desumpta , ad esempio di Platone, il quale per la stessa via si diede nel Cratilo ad investigare la sapienza degli antichi greci. L’opera sará divisa in tre libri. Il primo abbraccerá la Metafisica , della quale la logica sará come appendice; il secondo sará la Fisica ; il terzo la Morale. Nella Metafisica, la quale giá a perfezione è ridotta, si tratteranno da’ loro principi molte cose accennate nella sua dissertazione De ratione studiorum , che veramente è come un prodromo di questi suoi aspettatissimi libri. E, poiché siamo venuti a parlar nuovamente di questa sua dissertazione, desidereremmo che, oltre a quanto se n’è in altro luogo parlato, anche le seguenti cose vi si avvertissero. I. Che quasi tutta la dissertazione è concepita, senza farne rumore, per dimostrare i danni, che fa il metodo geometrico trasportato dalle matematiche, le quali ne sono unicamente capaci, nelle altre scienze. II. Che i sistemi nuociono sommamente alle cose mediche, e particolarmente per essersi lasciato, dacché questi vi s’introdussero, di batter la strada tanto profittevole di arricchirla nella parte piú certa, che è quella degli aforismi e dei giudizi. III. Che oggi il fine di tutti gli studi è solamente la veritá, senza tener conto delPutilitá e della dignitá: la qual cosa arreca gravissimi danni alla prudenza civile, che in verun conto non soffre che delle cose agibili l’uomo pensi con metodo geometrico, per le ragioni che si adducono lá dove se ne ragiona. IV. Che i trevolziani, quantunque l’autore qui non gli nomini, prendono un abbaglio grandissimo intorno alla maniera di ben pensare, credendo essi che sia il medesimo sottigliezza ed acutezza d’ingegno; e che 1 francesi hanno sopra tutte le nazioni del [p. 288 modifica]

mondo il pregio di sottili e di delicati, ma non giá di acuti e d’ingegnosi. V. Che, mutata la forma nella repubblica romana, di libera, in principato o, per meglio dire, in monarchica, gl’imperatori, per tórre di mano a’ nobili la forza delle leggi, offersero loro un simulacro di potenza, con fare piú venerando l’ordine de’ giurisconsulti; ma nello stesso tempo essi co’rescritti, il senato co’ senatusconsulti, e sopra tutto i pretori cogli editti, si diedero a trattar le leggi con equitá naturale: con che si obbligarono maggiormente la plebe, che solo di questa, e non dell’equitá civile, è capace, e andarono tratto tratto rendendo inutili le forinole, le quali erano il segreto della potenza de’ nobili. VI. Che, per evitare i danni della giurisprudenza, come oggi si tratta, e per conseguire gli utili, con che la trattarono i romani nella repubblica libera, sarebbe d’uopo interpretar le leggi secondo le ragioni di Stato; e si dá un saggio di un si fatto sistema. [p. 289 modifica]

III

Intorno alla «Vita di Antonio Carafa»

L’insigne signor Giambatista di Vico sta in fine della stampa di una storia da lui composta in latino dei Fatti illustri di Antonio Caraffa , celebre capitano di questo Regno, che militò in Ungheria al servizio cesareo. Dalla lettura della medesima storia ognuno conoscerá quanto bene sia scritta e con felicissima imitazione degli antichi. Il merito e valor dell’autore è troppo noto per dubitarne. 2. È stata ricevuta con grande applauso, e per la fama dell’autore, e per la dignitá dell’argomento, e per la purgatezza dello stile, e per qualunque altro riguardo, l’opera del chiarissimo signor Giambattista di Vico intorno ai fatti del gran generale conte Antonio Carrafa: Ioti. Baptistae Vici De rebus gestis Antonii Caraphaei libri quatuor, excellentiss. D. Hadriano Caraphaeo Traiectinorum duci, Foroliviensium doni. XIII, S. R. I, corniti, Hispan. magnati amplissimo, inscripti. Excudebat Neapoli Felix Musca, publica auctoritate, anno 1716, in 4 0 , pagg. 501, senza la dedicazione. Vi sono scolpiti al naturale da Giuseppe Magliar i due ritratti del detto generale e del signor conte Adriano Carrafa, suo nipote. Alle qualitá interne dell’opera aggiungono pregio l’esterne, essendo essa stampata con tutta magnificenza e proprietá. [p. 290 modifica]