Polemiche relative al De antiquissima italorum sapientia/IV. Seconda risposta del Vico/I. Della condotta dell'opera

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I. Della condotta dell'opera

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Della condotta dell’opera. Circa la condotta, di me onorevolissimamente dite cosi (pp. 237-8): Dipoi chiediamo alla benignitá di quell’erudito signore la facoltá di dir con modestia in questo proposito il nostro sentimento: cioè che, volendosi ricercare qual fosse la filosofia antichissima dell’Italia, e’non era da rintracciarla tra l’origini e significati de’ latini vocaboli, la qual via è incertissima e suggetta a mille contese; ma egli era da procacciarsela in rivangando e dissotterrando, per quanto si può, i monumenti piú antichi della vecchia Etruria, onde i romani ricevettero le prime leggi spettanti si al governo civile della sua repubblica, si a’ riti sacri della sua religione. Ovvero almeno egli era da ricercare quali fossero i principi di quella filosofia, cui dalla Ionia translatò Pittagora nell’ Italia, e però fu detta «filosofia italica», la quale, avendo messe le sue prime radici in quelle parti, dov’ora il signor di Vico fa con tanto di gloria spiccare la sua eloquenza e dottrina, in ispazio assai breve di tempo si dilatò per lo stesso Lazio ancora. E per quello che dite delle cerimonie e delle leggi romane, io non niego esser cotesti nobilissimi desidèri ; ma ad eguali e forse maggiori incertezze sarebbe stata l’una e l’altra opera soggetta. Imperciocché all’una avrebbe arrecato grandissime tenebre il secreto della religione, che sempre, per farla piú venerabile, fu tenuto in gran conto, avendosi ad iscoprire misteri, che per ciò lo sono perché sono difficili ad iscoprirsi. Onde giudico sarebbe stata l’istessa fatica che rintracciarla dalle antiche favole, poiché da’ poeti i fondatori delle repubbliche presero le deitá, e le proposero a temere e riverire a’ lor popoli. Ma ciascun sa quanto in cotal lavoro abbiano travagliato con infelice successo i mitologi. [p. 243 modifica]

Il poco numero poi delle leggi regie, che ben poterono di Toscana passar in Roma, e ’l non sapere or noi di certo quali tra’ frammenti della legge delle dodici Tavole esse sieno, a distinzione di quelle che, portate di Grecia, ben dieci n’empirono, faceano non meno difficile e contrastata quest’altra impresa. Ripeterla finalmente fin dalla Ionia e dalla pitagorica scuola, egli non era investigare la filosofia antichissima dell’Italia, ma una piu novella di Grecia. Perché io da quelle poche memorie che ci giunsero de’ suoi placiti, che son pochissime ed oscurissime, la ripeto, si, da Pitagora, ma non la fo venire di Grecia, e la fo piú antica di quella di Grecia. Conciosiacosaché nel proemio di tutta l’opera (p. 126) arrecai forte conghiettura che in Italia fossero lettere molto piú antiche delle greche, a cagion che l’architettura toscana è la piú semplice dell’altre quattro restanti greche; e l’invenzioni tutte sui lor principi sono semplicissime, poi tratto tratto vanno adornandosi e componendo. Onde porto ferma opinione che, quando nell’Egitto fioriva quel grandissimo imperio, che si distendeva per quasi tutto l’Oriente e per l’Africa, del quale, se non fusse venuto in talento a Germanico (0 di andare a vedere le antichitá di quel paese, e tra esse le sue antichissime colonne, dove in sacri caratteri n’erano le magnifiche memorie scolpite, oggi noi non avressimo notizia alcuna. Il perché, verisimile, anzi necessaria cosa, egli è che gli egizi, signoreggiando tutto il mare interno, facilmente per le sue riviere avessero dedotto colonie, e cosi portato in Toscana la loro filosofia. E quivi essendo poi sorto un regno ben grande, e che diede il nome a tutto questo tratto di mar nostro, che bagna di Toscana fino a Reggio l’Italia, forza è che anche fussevisi diffusa la lingua, e di questa ne avessero piú preso i popoli, piú vicini, del Lazio. A questo aggiungesi quel che è certissimo, che la scienza augurale di Toscana vennesi in Roma; e tanto esser favoloso che Nunia fosse ito a scuola di Pitagora, quanto egli è vero che fu il fondatore della religione romana. (1 Tac., Ann., 11, 60. [p. 244 modifica]

Per tutto ciò, venendomi per dinanzi un gran numero di latini parlari pieni di profonda sapienza, e non avendo essi, per quel che si è ragionato, per loro autori i greci, stimai essermi aperta una nuova e sicura via di rintracciare, addentrandomi nelle loro origini, Pantichissima sapienza d’Italia. Alla quale impresa mi stimolò l’esempio dj Platone, che per l’istessa via nel Cratilo tentò investigare l’antica sapienza de’ greci, e l’autoritá di Marco Varrone, che, quantunque nella greca versatissimo, e di tanta letteratura, che meritò l’elogio «doclissimus et Romanorum doclissimus», nelle sue Origini della latina favella si studia dare alle voci qualunque altra, fuori che greca, come, per cagion d’esempio, piú tosto vuol si dica «pater» da «patefadendo semine» che da auxfjQ. Ora, per tutto il ragionato, ardisco asseverantemente dire che Pitagora non avesse da Ionia portato in Italia la sua dottrina; perché cotal fu costume de’ sofisti, i quali, per far guadagno della lor arte, andavano vendendo per fuora il lor vano ed ostentato sapere; la qual cosa dá l’occasione e ’l decoro al dialogo di Platone intitolato II Protagora. Ma i filosofi uscivano fuori delle lor patrie e si portavano in lontani paesi, menati dal desiderio d’acquistar nuove conoscenze. E cosi, come dicesi di Platone in Egitto, Pitagora in Italia a cotal fine portatosi, qui avendo apparato l’italiana filosofia e riuscitovi dottissimo, li fosse piaciuto fermarsi nella Magna Grecia, in Cotrone, ed ivi fondar la sua scuola. E di questo sentimento io sono stato, quando nel proemio (p. 126) dissi: «Ab lonibus autem bonarn et magnata linguae partem ad Latinos imporlatam ethymologica testaluni /aduni»; cioè che poteano servire a rintracciare l’antichissima sapienza d’Italia le origini greche repetite dagli abitatori del mar Ionio, tra’ quali fiori l’italiana setta: talché, se vi ha voce latina di sapiente significazione che abbia indi l’origine, ella s’abbia a stimare essere stata quella molto innanzi portata da Toscana in Magna Grecia e, prima che in Magna Grecia, nel Lazio. Cosi, con la condotta delle origini do lume al dogma pitagorico, che ’l mondo consti di numeri, tanto finora oscuro, che [p. 245 modifica]

or non truova seguaci; e dal dogma pitagorico spiego l’opinione degli antichissimi filosofi d’Italia d’intorno ai punti, i quali poi in Zenone ci furono da Aristotile grandissimamente alterati. I latini confusero «punto» e «momento», e per l’una e per l’altra voce intesero una stessa cosa, e cosa indivisibile; per «momento», propriamente, s’intende «cosa che muove». Pitagora disse le cose costar di numeri; i numeri si risolvono ultimamente nell’unitá; ma l’uno e ’l punto sono indivisibili, e pure fanno il diviso; quello il numero, questo la linea, e tutto ciò nel mondo degli astratti. Dunque nel mondo vero e reale vi ha un che indivisibile, che produca tutte le cose che ci danno apparenze divise. Perché per l’istessa via avea io investigato i nostri antichissimi filosofi aver nelle lor massime che l’uomo talmente opera nel mondo dell’astrazioni, quale opera Iddio nel mondo delle realitadi. E cosi il modo piú proprio di concepire la generazion delle cose s’apprenda dalla geometria e dall’aritinetica, che non in altro differiscono che nella spezie della quantitá che trattano: del rimanente sono una cosa istessa; talché i matematici, conforme vien loro in talento o piú in acconcio, dimostrano una stessa veritá or per linee, or per numeri. Ma piú che difficile e contrastata, come voi, altri può stimar questa via inverisimile, perché i romani tardi cominciarono a gustare le lettere, e questa saggia lingua, che io immagino, doveagli da prima farli dottissimi. Providdi cotesta obiezion nel proemio (p. 126), ove dissi, per cotal ragione appunto, che i romani «eas [locu/ioues] ab alia docta natione accepisse et imprudentes usos». Perché tutte quelle, che stimansi comunemente fortune de’ romani, io riduco a questa sapienza, ch’essi seppero far buon uso de’ frutti della dottrina delle altrui repubbliche, e mantenere l’ignoranza, e per mezzo «li questa conservar la ferocia tra’ suoi; ne’ quali tempi assolutamente essi si stabilirono l’imperio del mondo, con la distruzion di Cartagine. Presero da’ toscani la religione quanto mai tragica, per dirla con Polibio, imaginar si potesse. e, quel che piú fa al nostro proposito, un’arte di schierar [p. 246 modifica]

battaglia, sola al mondo, per la quale up autor sapientissimo di si fatta arte stima essere stati invincibili, la quale non potea essere se non frutto delle matematiche de’ toscani; presero le leggi dagli spartani e dagli ateniesi (due popoli i piú chiari del mondo, uno per dottrina, l’altro per virtú): poi spensero affatto l’imperio e’1 nome toscano, e per trecento anni dopo le leggi non ebber commercio co’ greci, stimando esser bastevoli da sé a mantenere i buoni ordini, la religione e le leggi con inviolabilmente osservarle; onde provenne quella somma loro scrupolositá delle formole. E cosi i romani parlarono lingua di filosofi senza esser filosofi. Cosi l’origini, che io vo investigando, non sono giá quelle de’ grammatici, come gli altri ad altro proposito finora han fatto, che considerano le derivazioni delle voci; e l’etimologie, che essi in gran parte traggono dalla greca lingua de’ popoli abitatori delle riviere del mar Ionio, mi servono sol d’argomento che l’antica favella etrusca fosse sparsa tra tutti i popoli dell’Italia ed anche nella Magna Grecia: non mi servono per altr’uso. Ma mi sono dato a contemplare le ragioni come i concetti de’ sapienti uomini si oscurassero e si perdessero di vista, divorandosi ed impropriandosi dal volgo i loro dotti parlari. Questo è l’arcano, con che ho stimato poter iscoprire qual fosse il sapere degli antichissimi filosofi italiani. E cosi, stando, per cagion d’esempio, sulle medesime vostre opposizioni (p. 234) «caussa», in significazion propria de’ filosofi, significa «cosa che fa». I romani significarono con questa voce ciò che «negozio» anche s’appella. Mi pongo in ricerca come egli potè avvenire che la voce, la qual significa «ciò che fa», passasse a significar «ciò che è fatto». Rifletto altresi ciò che nasce dalla causa appellarsi da’latini «effectus», e l’effetto in sua elegante significazione dinota «fatto perfettamente». Non truovo come queste cose abbiano tra loro rapporto alcuno; e pure son certo che le voci non sieno poste a caso. Dunque bassi a dire necessariamente che vi fosse stata opinione di que’ primi sapienti, che diedero i nomi alle cose, che «causa» fosse [p. 247 modifica]

ciò che contenesse dentro di sé l’effetto, e con esso fosse una cosa istessa. e ’l producesse con tutta perfezione: la quale cosa è assolutamente propria di Dio. Cosi «genus» appo filosofi dicesi «ciò che nella specie dividesi». e appo volgari significa la «guisa * o «maniera». All’ incontro «species» volgarmente dinota «apparenza», filosoficamente «parte del genere» o * individuo». Considero sotto voci istesse diversissime cose: qualche ragione d’attacco ha dovuto frapporvisi: non altrove il rinvengo che avessero i sapienti autori della lingua opinato darsi l’uno vero, che dividesi in piú apparenti unitá, talché queste fossero apparenze e simulacri di quello; e l’uno sia la maniera, i piú sieno lavori sulla maniera; quello vero come originale, questi falsi come ritratti. Ma, con tutto ciò, non resterá pure maravigliarsi alcuno come a niun de’ romani, nati e dotti in quella lingua, sia giammai venuto in pensiero per si fatta via rintracciarne l’origini Io rispondo a costui: a niuno de’ medesimi cadde in mente d’investigar da filosofo le cagioni de’ lor costumi ed usanze. Dunque falso è ciò che ne scrisse un filosofo straniero, Plutarco? Sciogliamo dunque la maraviglia. Fu spento il regno etrusco molte e molte centinaia d’anni innanzi che i romani coltivassero let tere; la lingua latina, dominante a’ tempi de’ dotti, avea oscurate le altre minori d’Italia; il fasto della romana grandezza sdegnava anche le delicatezze dell’Attica, come abbiamo veduto in Varrone; la loro felicitá gli lusingava, come suol fare, che tutti i beni, che essi godevano, fussero propri e nativi. Dunque non è stravagante, ma necessaria cosa che non riflettessero a quello che ho io riflettuto. Or mettete insieme, di grazia, da una parte i piú antichi sapienti del mondo gentile essere stati gli egizi ; il loro imperio in colonie per le riviere del Mediterraneo diffuso; il potente regno de’ toscani in Italia, e le lingue diffondersi con gl’imperii ; l’architettura toscana piú antica delle greche; la religione piú tragica, e l’arte militare piú sapiente, di lá venuta a’ romani; sempre essere stati tenuti sapienti gli autori di lingue sagge; e un gran numero di voci latine non mostrare niuna ragione [p. 248 modifica]

de’ loro progressi, ma, se si ripetono dalle origini che io ragiono, averle piene di profonda sapienza: dall’altra parte ponete l’arcano della religione, che non fa di leggieri scovrirsi; il poco numero e l’incertezza delle leggi regie, i pochi ed oscurissimi dogmi di Pittagora: e giudicate qual delle due sia piú consigliata condotta.