Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XIV
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Il tre giugno
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XIV.
IL TRE GIUGNO.
Nella notte del tre giugno i Francesi, prima ancora che il termine dell’armistizio fosse spirato, si impadronirono di Villa Pamphili facendovi prigioniero in gran parte il corpo di Mellara.
Alle due e mezzo di notte, sentiti crepitare i fucili, correndo salii a porta San Pancrazio. I Francesi già occupavano tutte le ville e case là dinanzi fino sotto il Vascello, compreso il casino dei Quattro Venti. Era questo una vera fortezza.
Trovai che i nostri stavano sulla porta San Pancrazio a disfarne il ponte levatoio, e su una piattaforma dove era un cannone, v’era Garibaldi col colonnello Galletti ed il maggiore Romiti. Egli era molto calmo; ordinò si cessasse la dcmolizione del ponte, mandò un aiutante di campo in città per raccogliere garibaldini. Frattanto impartiva altri ordini; e me volea mandare ad ordinare ai medici che raggiungessero i loto posti negli ospedali. Io, però, lo pregai di farmi rimanere per il primo assalto non essendoci ancora feriti.
Frattanto arrivarono i garibaldini ed alcune compagnie della legione di Manara. Sortirono dalla porta e si schierarono sotto il Vascello, in attesa delle munizioni che vennero portate su di un muletto. Distribuite queste, subito di corsa si lanciarono all’assalto del casino dei Quattro Venti. Cominciò un fuoco d’inferno; si sentivano grida di tripudio, di scherno, di dolore, 1 nostri presero il casino.
Portai la lieta notizia dentro Roma, mentre facevo il giro per assicurar il servizio di medici e chirurghi negli ospedali. Più presto che mi fu possibile tornai a San Pancrazio. Purtroppo il casino dei Quattro Venti era stato ripreso dai Francesi.
Essendo io molto amico di Alessandro Calandrelli, il quale comandava una batteria alla destra della porta San Pancrazio, egli mi domandò di rimaner con lui per aiutarlo. Intanto arrivava fra noi don Michelangelo Caetani che en amateur veniva a godersi la battaglia. Questo accadeva sotto il sole di giugno tanto sensibilmente bruciante.
Avvenne che un tenente dei garibaldini, rivolto al Calandrelli, insultasse i Romani. Calandrelli furibondo gli si fece addosso per colpirlo; venne fermato in tempo. Ma l’ira sua fu tanta da farlo uscir di mente; ebbe proprio un vero colpo di pazzia. Io, allora, lo presi e mi rinserrai con lui in una camera della torre di San Pancrazio.
Quando vidi che punto contradicendolo ed anzi secondandolo in tutto la sua demenza verbale s’era ben ben sfogata, lo lasciai un momento solo. E, tornando a lui, gli dissi che i suoi artiglieri si battevano da leoni e che domandavano di rivedere il loro Alessandro.
Il rumore della battaglia, le affettuose acclamazioni dei suoi artiglieri lo fecero del tutto rinsavire e calmo tornar alla sua batteria. Forse sarebbe ricaduto nella sua esaltazione se una Massabò. Ritratto di Nino Costa. San Polo dei Cavalieri. palla di cannone, colta una ruota di un pezzo, non avesse morto uno e ferito alcuni degli uomini suoi.
A questo don Michelangelo Caetani, che era tuttora lì, osservò motteggiando non esser la guerra cosa divertente e senza precipitazione se ne andò per i fatti suoi.
Nel frattempo i nostri avean ripreso il casino dei Quattro Venti. Poco dopo, mi recai sulla sinistra della porta, donde scorgevo le mura del casino. Di là, così, mi fu dato di accorgermi che quatti quatti i Francesi erano per riprenderselo dal fianco. Fui dei primi ad avvedermene ed a sparare addosso ai francesi assalitori. Ecco che sopraggiunse l’Annibali, quello stesso di Vicenza, e quasi forsennato mi taccia di traditore, chè tiravo sui nostri. Io vivamente gli risposi:
— Miserabile!... Apri gli occhi se la paura te lo permette...
Egli mi rispose vibrandomi una baionettata, che io parai gridandogli:
— Fermo!... Ho un’idea!... Andiamo assieme al casino dei Quattro Venti a trovare il vero nemico.
Questa idea domò la bestia.
Prima di far la nostra sortita, presso la porta vidi Garibaldi e gli comunicai il nostro proposito. Ed egli a me:
— Tutti si battono. Ma, se voglio tre uomini per dirigere un’azione, non li trovo!...
Usciti dalla porta, Annibali ed io infilammo uno dei cancelli di Villa Pamphili. Impossibile però ci era di andar diretti per il viale tanto era battuto dalle palle che venivano dal casino. Attraversando le mortelle, voltando a destra, trovammo che il muro lungo la strada maestra era tenuto dai nostri. Cioè dalla linea pontificia, la quale tuttora vestiva all’austriaca, col prosaico giacò dal piatto largo e sopra il pompon. Questi soldati tranquillamente tiravano contro il casino Valentini; sotto il parapetto vi era una linea di morti, che continuamente crescevano di numero.
Ad un tratto sentimmo un gran scalpitio per il viale. Era lo stesso Stato Maggiore di Garibaldi che caricava facendo da cavalleria. I cavalieri erano fiancheggiati da molti fanti di diversi corpi: garibaldini, guardia civica e molti militi della legione Manara, che si distinguevano bene per il cappello piumato alla bersagliera.
Noi ci unimmo a quelli che erano in testa e con costoro andammo all’assalto alla baionetta. Fiero fu l’urto. Il combattimento divenne un feroce corpo a corpo.
Il pianterreno del casino dei Quattro Venti era pieno di morti fatti a pezzi per gli accaniti successivi assalti, avendo i Francesi di quei miseri corpi fatto barricate; ed i nostri cannoni aveano travolti e fracassati i cadaveri, i pezzi dei quali emergevano tra il sangue ed i calcinacci. Uno ve ne era, tra tanti morti, al quale una palla di cannone avea svuotato il petto ed il ventre ed incastonato gli intestini sul muro; ed i calcinacci pioventi dal soffitto ne aveano riempito il ventre.
Si sentiva al primo piano, nel fremito del combattimento ed il rantolo della morte, scalpitìo di cavalli. Fin lassù eran montati i nostri caricando per le rampe esterne del casino. In questa furibonda carica era caduto il povero Masina. lo lo vidi, ferito a morte, che avea tuttora un piede nella staffa, mentre un greco amico suo liberandolo da questa gli baciava il piede.
Vedemmo, ad un tratto, al di là del casino dei Quattro Venti, ormai di nuovo nostro, due feriti che ci tendevano le braccia per chiederci aiuto. Con Annibali andammo ad essi per por termine, così, al nostro duello. Erano quei feriti due colossali lombardi della legione Manara, entrambi gravemente colpiti alle gambe. Mentre ci caricavamo i due infelici sulle spalle vedevamo intorno a noi alzar nuvolette di polvere fin presso i nostri piedi dai colpi che i Francesi ci tiravano dalle finestre del casino Valentini. Ma non appena ci videro col pietoso nostro carico, subito i Francesi cessarono il fuoco ed applaudirono. Battendomi con i Francesi ho avuto sempre il sentimento di abbracciarsi prima, poi battersi e quindi riabbracciarsi.
Ho trovato il semplice soldato francese bravo ragazzo, vivace e di buon umore; generoso nella vittoria, danzante nella ritirata. Nel tedesco, o piuttosto il soldato tedesco ho trovato rappresentare un numero della scienza matematica, sarcastico, duro e crudele, senza coscienza di responsabilità, senza sentimento umano, senza la serena gioia di chi ha un ideale.
Il trasporto dei due feriti fino alla chiesa di San Pietro in Montorio assai penoso fu per essi, ma ben più penoso fu per noi. Perchè, oltre il peso dei due tanto voluminosi corpi e dei due fucili, il loro ed il nostro, ci straziavano i lor lamenti ed i morsi che, nel loro atroce spasimo nel moto, essi ci davano nel collo perchè li lasciassimo. Si raccomandavano:
— Buttateci in terra.... lasciateci.... soffriamo troppo!...
Facendo io parte della commissione degli ospedali — che si erano pienati di feriti — alla sera ne feci il giro. Quindi, mezzo morto per la fame e per la stanchezza, me ne tornai a casa a San Francesco a Ripa. Mi buttai a dormire senza che la coscienza mi rimordesse. Perchè anche lì io era sempre in prima linea. Io mi trovavo a circa duecento metri dalle mura a me affidate da Garibaldi. Ed il fuoco, poi, era cessato.
Veramente i Francesi non han mai fatto alcun attacco a fondo tra Porta Portese ed il terzo bastione. Le mura, quivi, si estendevano nella valle su la destra del Tevere; e questa era dominata dalla nostra batteria dell’Aventino e da quella del Testaccio come da tutte le batterie del Gianicolo su cui erano diretti tutti gli sforzi del nemico, cui premeva aver nelle sue mani quell’altura che domina Roma.
Ad onta di ciò, per divertire forse l’attenzione della difesa, spesso tiravano sulla mia casa. Ed una volta una palla di fucile, entrando per diagonale da una finestra, trapassò una porta, andando a ficcarsi nel pagliericcio di un letto.
Alla fine di quella battaglia la gente di casa mia raccolse sul tetto un centinaio di palle di fucile e nel giardino tre palle di cannone. Però, essendo la mia casa così sotto tiro, le palle e le bombe passavano al di sopra del tetto. In una notte insonne, io ne ho contate fino a centosei.
Questi proiettili, girando su se stessi fischiavano prima lentamente, poi sempre più presto man mano che si approssimavano alla caduta.
Appena giorno tornai a San Pancrazio e mi recai alla cereria Savorelli, dove era il Quartier Generale di Garibaldi. Gli feci rapporto di quanto accadeva nella valle, dalla quale io ero convinto non saremmo mai stati assaliti. Garibaldi mi comunicò che i Francesi ancor una volta avevan ripreso il casino dei Quattro Venti. Ma dico male: non tanto era stato ripreso quanto piuttosto i nostri volontari se ne erano andati e, cheti cheti, i Francesi lo avean rioccupato. Non certo per viltà, ma per spensieratezza ed indisciplina, compagne inseparabili dei volontari, questi se ne erano andati a dormire in santa pace, sicuri, forse, che il nemico avrebbe fatto altrettanto.
Con Garibaldi era Galletti con diversi romani. Ed il generale prendendo Galletti per una mano esclamava:
— Voi Romani potete vantarvi di avere in Galletti un eroe bello al pari di un eroe dell’antica Grecia, coraggioso, intelligente, devoto alla Patria...
A me tale quegli apparve e Garibaldi quale divinità di Omero.
Il Generale riprese:
— Ma il nemico non l’avrà il Vascello. Lo affiderò a mani sicure, ad uomini sodi, a Medici.
Così fu.
E, difatti, il Vascello, durante l’assedio, venne dalle batterie nemiche poste al casino dei Quattro Venti, ch’era a tiro di pistola, quasi raso a terra. Quasi ogni notte vi erano assalti sempre respinti. A tre di questi assalti mi son trovato anch’io ed ancor oggi mi domando come si potesse regger là dentro e come il Vascello abbia potuto resistere un mese.
Le barricate vi si erano formate naturalmente, con i rottami del palazzo. Era molto fantastico vedere, nelle sere di luna, staccare sui bianchi calcinacci i difensori in nero. Gli assalti a questo strano edificio eran salutati da una orchestra di fucilate dai diversi suoi piani, e dalle cannonate che dalle mura di porta San Pancrazio venivano a spazzare la via sottostante.
Continuavano, intanto, ostinati gli attacchi anche alle mura. Ogni mattina all’aurora si udiva lo squillo delle trombe francesi; poscia la fanfara alla quale noi rispondevamo con le nostre. Quindi cominciava la battaglia che durava fino a sera.
Fino al giorno 12 non ci fu nulla di nuovo. Ma, per la notte del 12, Garibaldi avea deciso di far una sortita da Porta Angelica con un forte nerbo di uomini. I quali per riconoscersi tra loro nel buio doveano, rinnovando l’uso delle «incamiciate», avere la camicia sopra l’uniforme.
La sortita avea lo scopo di attaccare i Francesi di sorpresa sul loro fianco sinistro. Due compagnie, uscendo fuori da Porta Portese doveano far diversione richiamando su di sè l’attenzione e la difesa del nemico. Il quale avea da quella parte le proprie trincee alla villa Merluzzetto, che sta davanti alle mura che si distendono tra il terzo ed il quarto bastione.
A questa fazione presi parte anche io. Ciò che, del resto, erami di dovere perchè si dovea operar nel terreno a me affidato. Sortimmo, procedendo sparsi tra le vigne; quasi senza accorgersene ci trovammo sopra le trincee nemiche, nelle quali i Francesi in piccol numero stavano lavorando in maniche di camicia. Cosicchè da principio non usammo le armi ma solo sassi contro di essi per non dar, con esplosioni di fucili, l’all’arme al grosso dei nemici.
I Francesi, però, che se l’eran data a gambe, tornarono in forze abbondanti. Scambiammo, allora, fucilate in ritirata senza essere inseguiti, perchè i difensori delle mura validamente ci proteggevano. Ci ritirammo fin sotto le mura. E sotto queste dovemmo rimanere tutta la notte, con molto soffrire, bocconi a terra, aspettando l’attacco dei nostri, su la destra, che non veniva mai. Ciò che ci faceva dir, motteggiando sommessamente:
— Quelli, trovatisi in camicia da notte, se ne sono andati a letto!...
L’assalto di fianco non potè aver luogo, poichè i Francesi, avvisati dalle spie di Roma, erano pronti a sostenere l’attacco. Si capisce come fossero tenuti al corrente di ogni cosa da quelli del partito clericale e del liberale conservatore. Nel campo dei Francesi era andato un certo marchese Lepri che aveva un palazzo in via Condotti. Questi nella notte assisteva al tiro delle bombe dentro Roma, facendo festa quando arrivavano al segno, incoraggiando gli artiglieri a metterne un’altra nei mortai dicendo:
— Evvia, un’altra bombina!...
Perciò ad esso rimase il soprannome di Bombino.
Fra quelli che avrebber voluto aprire le porte al nemico, tra Giggi Ciceruacchio che pugnalava Pellegrino Rossi, e Lepri che si divertiva alle bombe tirate contro la Patria, chi fu il peggiore?
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