Ricordi delle Alpi/Parte Seconda/III

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Una sventurata

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III.

Una Sventurata.

Domineddio che vista!

S’era passato appena le poche tavole, che servono malamente di pedanca sul torrente, dopo che la piena delle acque ne ruppe il meschino ponte di legno che vi sorgeva, che, spinto così d’impensata lo sguardo sull’uscio d’una casicciuola o stamberga a sinistra, uno strano spettacolo ci strinse il cuore.

In un’umida e annerita stanzuccia a pian terreno, più sotto della via, vera catapecchia a uso di cucina e di stalla (in fatti in un angolo scuro era sdraiata una capra), proprio in dirittura della porta, sorgeva una specie di letto, ossia un giaciglio formato di due panconi, un pagliericcio e alcune coperte sucide e a strambelli, dove giaceva una cotal figura umana mandando un rantolo penosamente cavernoso, e dimenandosi nella più viva inquietudine.

L’infelice giacente, di cui non sarebbe stato possibile distinguere a vista il sesso, era una donna poco su de’ trent’anni, color terreo pretto, deformissima di schifosa scrofola; coi capelli (mio Dio che capelli!) tutti a grumi, [p. 81 modifica]collati, cadenti, in furiosi rabbuffi. Le dita delle mani quasi rattrappite di violenza, e le braccia brancolanti sopra una lurida coltre con quel senso di difficoltà che mostra il gambero nelle movenze delle sua branche: il resto del corpo accoccolato in guisa da non sapersi a quale confrontarlo, che non fosse della razza schifosa de’ crostacei.

Al senso di profondissima pietà destato a quella vista, s’accompagnò pure un cotale ribrezzo per quell’immondo ripostiglio, sì che dapprima mi stetti sul forse; poi la commozione scacciò ogni scrupolo, e mi trassi verso la povera creatura in quell’aere umidiccio e nauseabondo.

— Che male vi tormenta, le dissi, buona donna?

La misera sbarrò gli occhi come se indovinasse un soccorso isperato, e due grosse lagrime le sdrucciolarono dalla guancie; tentando sorreggersi, rispose con voce cavernosa.

— Dolori in tutte le ossa, e poi qui (cennò al petto) un grosso peso,... grosso.... (e dava in un rantolo), così grosso, che mi soffoca....

— E gli è da molto, che vi trovate confitta costì?

— Da cinque, e.... più anni....

A queste parole, lo confesso, parve mi si stringesse il cuore, quasi a mancarmi il [p. 82 modifica]respiro; trassi di tasca il fazzoletto e m’asciugai il sudore; poi, dato un lungo sospiro, ripresi:

— Ma com’è, che vi trovate qui sola, derelitta, senza un sollievo....

— Mia marito è andato da due ore a raccòr legna; Nellina, mia figlia, a cercarmi un po’ di pane....

Mi pareva d’aver le traveggole o di sognare: — ha marito, pensavo, costei e una fanciulla, e or si trova in condizioni non dissimili del più vile giumento! — Povera infelice! E avrà pur sognato gioie modeste, avuto giorni di quiete e d’amore; nè certo in sua gioventù dovev’essere un mostro. Cinque anni in questo stato! Cinque anni e tanta pazienza!...

Mentre facevo questi riflessi, la povera donna, allampanata come un cadavere, guancie a borselli d’un giallo livido, mi fissava con aria di sofferenza veramente rassegnata; e, certo incapace d'indovinare quanto si passasse in mio cuore, disse con voce di intimo soddisfacimento:

— Prego sempre il Signore, che mi faccia la grazia di chiamarmi a sè; ma sinora non me ne tiene degna: tanto, vede, io sono di peso a loro.... Tre bocche costano; la Nellina sinora può far poco, e mio marito non ha respiro da mane a sera. [p. 83 modifica]

Quello che mi sentii dentro a tant’esemplare rassegnazione, non lo dico; lo lascio comprendere a ogni cuore gentile. — Mi frugai in tasca e, cavatene alcune monete, le lasciai cadere nella destra della sventurata, che se la recò tosto al petto come avesse avuto da custodire un tesoro. Volle balbettare non so che cosa, ma la piena degli affetti ne la turbò: udii solo queste pietose parole:

— Pregherò Dio per lei e per la sua signora (indicando mia sorella), e da’ suoi occhi si videro tremolare due lagrime, che, ingrossate, caddero a inumidirle le guancie.

In questa, ecco affacciarsi alla porta del tugurio una fanciulla di dodici anni circa; ma siccome io le voltava il dorso, non m’accorsi del suo arrivo, che per l'agitazione visibilmente gioconda della malata. Mi volsi, ed ecco la Nellina (ch’era proprio lei) starmi dinanzi tutta piena di tema e ritrosia, come per lo più si dimostrano i ragazzi de’ contadini alla vista d’un forestiero.

La madre accennò di avanzarsi; ma essa non sapeva smettere la diffidenza: con occhio avido dava occhiate alla madre ed a me, avanzando sempre di qualche passo.

— Vien qui, vien qui, Nellina, profferì la donna, non aver mica paura; vedi, son buoni signori che ci vennero a trovare, e ci hanno [p. 84 modifica]fatto gran carità, Qui, ti dico, qui; pregheremo il Signore per essi; n’è vero?

La Nellina, fissatomi ancora per un istante, si accostò vivamente alla proda del letto della madre; e, gittatovi sopra un piccolo involto che, aprendosi, lasciò vedere varii tozzi di pane e frutta d’ogni specie — pesche, pere, uva, ecc. — s’arrampicò su abbracciando con trasporto d’amore ineffabile la madre povera.

Umane parole non valgono a descrivere la gioia, che vidi dipingersi sul viso della sventurata, a cui in quell’istante ogni sensazione di dolore sembrava intieramente cessata. Chi può ritrarre simili quadri? Com’è grande e sacro il senso della maternità! — È tutto un’epopea di affetti, è tutto un’apoteosi di sacrifizio. Miseria, povertà, dolori, ogni cosa svanisce di fronte a lui, perchè la Provvidenza ha trasfuso nell’amore materno un raggio purissimo del suo amore divino.

Quando quella piena d'affetti fu paga, la Nellina, lasciatasi andar giù con una cotal grazia e vivacità, si frugò nella tasca, e ne trasse un tozzo di pan mescolo; indi avvicinatasi ridendo alla capra, che festosa si agitava nell'angolo di quel covile, glielo porse non senza averglielo prima cosperso di sale. E intanto le andava facendo carezze, e le teneva discorso sì come ad amica. [p. 85 modifica]

Cara scena, quella fanciulla e la capra! La Nellina era bambina piuttosto belloccia e simpatica: viso ovale e pallido, testa coperta d’una selva di capelli schiettissimo color tanè, così ricciuti da parer cesti d’indivia; con una vesticciuola che seminava cirindelli da tutte le parti; ma lieta, perchè conscia di aver recato sollievo alla madre con quelle poche frutta, con quei meschini tozzi di pane. Inapprezzabile tesoro di figliale amore!

Entro una voragine di guai un fulgidissimo raggio di cielo!

Alcuni istanti dopo, scambiate poche parole di consolazione con quella infelice, e datole un addio di vivo cuore, avevamo abbandonato il misero abituro.