Rivista di Scienza - Vol. I/La scuola classica inglese di economia politica
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LA SCUOLA CLASSICA INGLESE
DI ECONOMIA POLITICA.
Nessuno può giustamente comprendere ed apprezzare la Scuola classica inglese di Economia Politica, se non ha prima capito quale sia stato lo scopo e il fine dei suoi studi. Nella controversia, accesasi vent’anni or sono, intorno alla questione del metodo in economia, si trascurò frequentemente, anzi generalmente, il fatto che le scuole rivali ebbero anzitutto scopi alquanto diversi e volevano acquistare cognizioni di genere diverso: sicchè era inevitabile che impiegassero anche metodi differenti. Per non avere riconosciuto questo fatto iniziale, gran parte della discussione intorno al metodo proprio della scienza economica è stata fatta del tratto fuor di proposito. In ciò peccarono specialmente coloro che assalirono la scuola classica inglese, caratterizzando il metodo di questa come metafisico ed astratto, come a priori e dedutivo.
Il fatto è che i primi scrittori inglesi e scozzesi di economia politica, s’interessavano direttamente dei problemi dell’arte pratica di governo che allora occupavano l’attenzione di cotesti popoli praticissimi. Non si occupavano affatto nè dell’ordine generale dello svolgimento storico, nè delle leggi della successione storica nei loro aspetti universali. Tali cose appartenevano allora al dominio dei filosofi della storia, il cui posto, geograficamente e logicamente, è occupato ora dalla scuola storica di economia politica. Il metodo storico e induttivo di quest’ultima è una valida protesta contro la vecchia filosofia della storia, poichè cerca presso a poco lo stesso genere di cognizioni: ma esso non può, assolutamente, essere adoperato per censurare l’Economia politica classica, i cui propositi erano alquanto diversi.
Questa differenza di scopi rese necessaria la ricerca dei dati in campi alquanto diversi. Ora in genere il raccogliere dati in campi differenti può condurre anche all’uso di metodi in parte dissimili. In questo caso, però, come si vedrà più avanti, non si trattava tanto della diversità di metodo logico, quanto di quella delle fonti a cui si doveva ricorrere.
Lungi dall’occuparsi delle leggi universali della successione storica, gli scrittori più tipici della scuola classica inglese si sforzavano di risolvere quei problemi di politica economica che allora maggiormente interessavano gli statisti inglesi. Essi avevano ereditato dalla vecchia politica mercantilista un gruppo di problemi concernenti la circolazione monetaria e il commercio internazionale. Un altro gruppo di problemi, riguardanti il pauperismo e la riforma dell’ordine sociale, era poi venuto a loro dal continente. Alla soluzione di questi problemi, la scuola classica dedicò la sua attenzione, seguendo l’unico metodo capace di gettar luce su di essi: cioè l’analisi dei fatti, sia contemporanei che storici, accertati dall’esperienza umana. Si dovrebbe quindi chiamare il metodo di codesta scuola piuttosto analitico che non deduttivo.
Questo metodo analitico consiste, in primo luogo, nello stabilire i rapporti di causa ed effetto fra i fatti più importanti della nostra comune vita economica. Che tali rapporti esistano è la prima e quasi l’unica premessa della scuola classica. Concesso questo, sembrerebbe tanto importante il cercar di chiarire quali siano questi rapporti tra i molteplici fatti della nostra esperienza ed osservazione economica, quanto il cercare di scoprire fatti nuovi e finora sconosciuti: sconosciuti perchè remoti dall’esperienza comune della vita giornaliera. Sotto questo rispetto, il sociologo gode d’un vantaggio segnalato sopra il fisico, perchè nell’indagine dei fenomeni sociali egli studia le attività intelligenti di menti come la sua, attività alle quali prende parte e delle quali è veramente una parte. È stato molto a proposito osservato che se, per esempio, un corpuscolo del sangue fosse dotato dell’intelligenza d’un essere umano, i vantaggi di cui esso godrebbe nello studio dell’anatomia e della fisiologia sarebfero superiori a quelli di qualunque scienziato in qualunque laboratorio. Nello studio dell’economia ogni essere umano gode d’un simile vantaggio. I fatti con cui si trova ogni giorno in contatto nella sua vita, i fatti, in altre parole, che cadono sotto la sua osservazione immediata, sono i più salienti per tale studio. Essi bastano almeno per cominciare. Se poi egli potrà aumentare le sue cognizioni con ricerche statistiche, con indagini storiche ed altri mezzi di osservazione indiretta, tanto meglio: ma se egli credesse di potersi fidare totalmente o in gran parte di questi documenti o di queste fonti, sarebbe degno di riso, quanto un intelligente corpuscolo che s’immaginasse di poter far a meno della sua propria esperienza giornaliera per trarre le sue cognizioni d’anatomia principalmente da fonti indirette.
D’altronde — giova dirlo — una dipendenza così assoluta dalle indagini statistiche e storiche è sostenuta solamente dagli avversari più esagerati ed accesi del metodo classico inglese.
La vera questione si aggira intorno al punto di partenza e alla misura nell’uso delle diverse fonti. È meglio cominciare dalla considerazione dell’analisi dei fatti molteplici e confusi della nostra esperienza comune, quei fatti che ci stanno più vicini, che ci sono più famigliari: o è preferibile cominciare coll’investigare le esperienze del remoto passato nelle fonti cui possiamo attingere, con lo scopo di tracciare in modo ordinato lo sviluppo delle istituzioni esistenti? Ancora, nei nostri tentativi per determinare anticipatamente se una certa politica di governo sarà o no vantaggiosa (rammentiamoci che gli scrittori della scuola classica inglese pensavano sempre a problemi di questo genere), possiamo basarci sicuramente su tali riflessioni ed analisi, o dobbiamo dipendere per la massima parte dai risultati delle indagini statistiche e storiche?
La risposta alla prima di queste domande è evidente, quando consideriamo che tali riflessioni e tali analisi della esperienza contemporanea sono assolutamente essenziali per poter comprendere in qualunque modo il passato. Anche nel caso più favorevole, le informazioni riguardo al passato sono solamente frammentarie, e lo storico deve per forza interpretarle al lume della propria conoscenza della vita, acquistata con la propria osservazione ed esperienza. Senza questa interpretazione, non gli sarebbe possibile scrivere altro che una arida cronologia; e nessuno storico infatti fece mai altro che della cronologia sino a che non interpretò i dati e i documenti storici al lume della conoscenza della causalità sociale ed economica acquisita con l’esperienza contemporanea.
Il dire, per esempio, che il valore dei consolidati britannici aumentò dopo la battaglia di Waterloo, non è che ricordare un semplice fatto cronologico e non significa nulla, se non che l’un avvenimento fu il risultato dell’altro. Ma anche ciò implica invero una cognizione almeno elementare di un principio di causalità economica, cognizione che l’esperienza sola ci può dare, e che qualsiasi investigazione statistica o ricerca storica non ci darà mai se non sarà accompagnata dallo studio dei fenomeni contemporanei e dalla conoscenza del substrato delle attività economiche. Senza dubbio ogni persona intelligente si è acquistata un certo numero di tali cognizioni senza aver fatto studi speciali d’economia. Si tratta però di saper se metta conto o no d’estendere questa conoscenza per mezzo di uno studio sistematico, prima d’intraprendere l’opera pericolosa di costruire un quadro del passato sui pochi dati che sono alla nostra portata.
Sembrerebbe che vi dovesse essere una sola risposta a questa domanda.
Che la società umana sia il prodotto di una evoluzione e che di conseguenza si possa comprendere il presente soltanto risalendo alle sue origini nel passato, è una doppia proposizione spesso citata per sostenere la necessità di ricorrere al metodo storico per iniziare lo studio delle scienze economiche. Ma come poi capiremo il passato? Che cosa ne sappiamo e come possiamo intenderlo se non attraverso la nostra conoscenza del presente? Possiamo ottenere qualche lume su questo punto riferendoci brevemente alla storia di altre due scienze: la geologia e la biologia.
Scegliamo queste perchè hanno dei punti di somiglianza con le scienze economiche in quanto trattano di prodotti dell’evoluzione. Fu difatti in questi due campi che dapprincipio si sviluppò la fase moderna della dottrina dell’evoluzione, ed è in questi che assurse alla maggiore importanza. Di più la chiave della dottrina moderna dell’evoluzione si trova nella tesi accettata già da tempo dai geologi, che tutti i grandi cambiamenti geologici del passato sono stati prodotti da fattori e da forze che agiscono ancor oggi, e che lo studioso può vedere in opera intorno a sè.
Secondo questo modo di vedere è dunque necessario che lo studioso di geologia osservi intorno a sè i cambiamenti della superficie della terra dovuti agli agenti comuni, il vento e l’acqua, il caldo e il gelo, con i processi di decomposizione, di erosione, deposito, sollevamento o sprofondamento, prima d’essere in grado di capire o interpretare i dati sui quali si costruisce la storia geologica.
Parimenti, in biologia, fu solamente dopo che il mondo scientifico ebbe compreso che la differenziazione della vita animale e vegetale in generi e specie è stata la conseguenza di una regolare azione di fattori e di forze ancor oggi operanti e che possono quindi essere studiate direttamente, che lo studioso fu preparato ad accogliere la tesi luminosa di Darwin.
Nessun evoluzionista tenterebbe quindi di tracciare lo sviluppo di una forma qualunque di vita, senza almeno uno studio preliminare di essa quale ora esiste, e dei fattori per la cui opera si attua. Quando il mondo economico arriverà ad una simile concezione anticataclismatica della storia, quando, cioè, afferrerà l’idea che i cambiamenti del passato storico sono avvenuti per l’azione di fattori e di forze che lo studioso d’oggi può vedere in opera intorno a sè, non si consiglierà a nessuno d’intraprendere lo studio della storia economica senza un’analisi preliminare delle leggi attualmente operanti intorno a lui.
Può parere da queste considerazioni che la teoria della evoluzione fornisca un argomento assai misero in favore di coloro che vorrebbero si cominciasse lo studio delle scienze economiche dal punto di vista storico; e che offra invece una ragione ottima per cominciare lo studio della storia da un punto di vista economico.
L’analogia con le scienze fisiche indica, almeno, che chi studia la storia economica dovrebbe fare prima un’analisi abbastanza completa dei fattori e delle forze che agiscono ora nella società della quale esso studioso è una parte; il che è appunto quanto dire di cominciare col metodo della scuola economica classica inglese. Incominciare collo studio della storia economica, sarebbe lo stesso come iniziare lo studio della geologia storica prima d’essersi preliminarmente applicati alla geologia dinamica, o della paleontologia senza nulla sapere della biologia.
Certamente, tanto nelle scienze economiche quanto nella geologia e nella biologia è possibile approfondire ed estendere le proprie cognizioni del presente, studiandolo come un portato evolutivo del passato, ma questo non prova all’atto che lo studio debba cominciare storicamente e debba continuare ad essere principalmente storico.
Forse gli scrittori classici inglesi non dedicarono sufficiente attenzione alle ricerche storiche; su questo punto vi può essere divergenza di opinioni; ma non si può proprio affermare che le abbiano trascurate: anzi di Adamo Smith in particolare e di Malthus si può dire che cercarono informazioni in ogni campo sebbene non abbiano svolto l’idea che un metodo storico speciale sia l’unico giusto da adoperare.
È discutibile se si possa o no affidarsi con sufficiente sicurezza all’analisi di fatti direttamente osservati ed esperimentati per dedurne quale dovrebbe essere una saggia politica governativa. Naturalmente è assai facile cadere in errore; e a sua volta il fare assegnamento sopra un’analisi imperfetta condurrà ad erronee conclusioni. Che la scuola classica inglese sia appunto così giunta ad alcune conclusioni erronee, si ammette anche dai suoi più grandi ammiratori. Ma precisamente gli errori di questa scuola si possono tutti attribuire ad una imperfezione d’analisi piuttosto che alla natura del metodo analitico. Di più, la maggior parte dei nuovi contributi portati alla scienza economica negli anni recenti è dovuta ad analisi più minute e più complete di quelle che non fossero in grado di fare gli economisti classici, piuttosto che non alla scoperta di nuovi dati storici o statistici; e ancora se gli economisti classici non riuscirono a perfezionare le loro analisi si fu perchè non erano (difetto comune) omniscienti, non perchè fosse difettoso il loro metodo.
Ma a questo punto sorge naturale una domanda: qual guida possiamo dunque avere noi se non ci possiamo fidare della conoscenza della causalità economica ottenuta per mezzo dell’analisi della nostra esperienza nelle faccende comuni della vita?
Come si è già detto non sappiamo quasi niente della storia se non in quanto è interpretata al lume di questa conoscenza. Inoltre la storia getta soltanto una luce indiretta sulla maggior parte delle questioni d’economia politica. Non vi sono due rapporti economici perfettamente uguali e per trarre profitto dall’esperienza storica è necessaria un’analisi accuratissima. Vale a dire, occorre una conoscenza completa delle relazioni di causa ed effetto tra i vari fenomeni trovati in due casi diversi prima che si possa fare tra loro un raffronto utile. Ciò significa che l’esperienza storica è utile solo a coloro che hanno studiato profondamente la teoria economica, perchè una giusta teoria economica non è nè più nè meno che una opinione corretta riguardo alle relazioni di causa ed effetto tra certi fenomeni economici.
Non possiamo insistere troppo su questo punto. Nelle discussioni, per esempio, dei progetti socialisti, si citano spesso come prove della possibilità od impossibilità pratica d’uno stato socialista, gli esperimenti attuati da varie società comuniste in America. Ma è senza dubbio un ragionamento imperfetto ed inconcludente il dire che, perchè alcune di queste comunità ebbero qualche duraturo successo, dovrebbe pure aver successo una repubblica nazionale; oppure che, perchè altre non ebbero buon esito, anch’essa finirebbe inevitabilmente male. Bisogna invero analizzare le esperienze di queste comunità e scoprire le cause specifiche del loro successo od insuccesso prima di poter ritenere di avere ottenuto da questi esempi qualche luce sulla questione d’uno stato generale socialista. Fatta, però, tale analisi, questi esempi storici diventano straordinariamente istruttivi. E infatti se si scoprisse, per esempio, che i successi temporanei di simili comunità si dovettero a fattori che si troverebbero anche in uno stato generale socialista mentre l’insuccesso finale si dovette a fattori che in questo mancherebbero, potremmo concludere che uno stato generale socialista avrebbe successo. Ma se, come è veramente il caso, i loro successi temporanei furono la risultante di singolari fattori che necessariamente in uno stato generale socialista non troverebbero riscontro e gli insuccessi finali lo furono invece di fattori che inevitabilmente si troverebbero in uno stato di questo genere, allora potremmo con sicurezza concludere che questo non potrebbe avere buon esito. Perchè tali esperienze storiche possano dunque giovare occorre la conoscenza della causalità economica: in altri termini, delle leggi economiche.
Ancora: nelle controversie sul protezionismo, si cita spesso la prosperità di paesi protezionisti come una prova dell’utilità di codesta politica economica, mentre la prosperità di paesi a libero scambio è ricordata naturalmente dai propugnatori del libero scambio. Ma colui che comprende come vi siano mille ed un fattori che influiscono sulla prosperità d’una nazione, deve pur pensare che essa potrà essere assai fiorente, nonostante un fattore sfavorevole, purchè gli altri mille, o gran parte di essi, siano favorevoli. Non si può quindi decidere, considerando soltanto la prosperità generale d’un paese, se un unico fattore, come una tariffa doganale, giovi o no. Bisogna, piuttosto, considerare minuziosamente ed accuratamente i risultati di questo fattore «tariffa» sul mercato per la merce cui si riferisce, ed indagare come esso influisca sul prezzo d’esportazione e su quello del mercato interno, ricercare quali conseguenze esso abbia nei rapporti della produzione, e sulle industrie affini, sui vari titoli, sul salario, sulla rendita, sull’interesse e sul profitto, insomma sulla distribuzione dei prodotti delle industrie domestiche. E questa non è soltanto una questione di statistica, perchè la situazione non è mai precisamente la stessa per due anni di seguito e manca quindi ogni base per esatti raffronti statistici.
Ci vuole, in aggiunta alle ricerche storiche e statistiche, un’accurata analisi teoretica delle leggi del valore, assolutamente necessaria per potere usare in modo intelligente del metodo storico o statistico.
Nelle discussioni intorno alla politica pratica, l’unico risultato del metodo storico spinto all’estrema applicazione, non illustrato dall’analisi teoretica, è stato quello di ornare d’una dignità quasi scientifica l’antico errore: Post hoc, ergo propter hoc.
L’analisi delle relazioni di causa ed effetto tra i fenomeni economici deve necessariamente condurre l’investigatore nel campo psicologico; e la ragione di ciò è troppo evidente perchè meriti di soffermarvisi. I fenomeni economici non sono che attività umana diretta a fini economici determinati, i quali tutti hanno un fondo psicologico.
Per sapere perchè gli uomini agiscano in un certo modo piuttosto che in un certo altro, perchè, per esempio, scambiano una merce con un’altra, è assolutamente necessario conoscere qualche cosa intorno ai motivi umani; e qui bisogna ricorrere ad un’altra proposizione a priori poco meno importante di quella succitata, e in stretta attinenza con essa. Poichè è ovvio che è impossibile acquistare una certa conoscenza dei motivi umani per mezzo di qualsiasi dei cinque sensi e diventa necessario che ogni studioso analizzi e studi la propria esperienza soggettiva.
L’Economia è quindi la scienza nella quale, forse più che in qualsiasi altra, il detto famoso «Conosci te stesso» acquista la sua massima importanza.
Tale studio dei propri motivi non è menomamente deduttivo e neppure astratto. Esso deve anzi procedere per paragoni ed analisi, e ci procura d’altra parte una conoscenza di essi motivi ben più intima e degna di fiducia che non sia quella ottenuta attraverso l’imperfezione dei sensi. Vale a dire, è possibile di arrivare a conoscere i propri sentimenti ed i propri motivi anche meglio che non le proprietà della materia, intorno alla quale, veramente, non si possono fare che supposizioni ed ipotesi.
La necessità d’una proposizione aprioristica si avvera solamente quando ci si accinge ad interpretare le azioni altrui al lume della propria esperienza. Bisogna allora assumere che gli altri agiscano spinti da motivi simili a quelli che governano noi stessi. Ma gli studiosi di storia e di statistica non soggiacciono meno dell’economista teorico a tale necessità.
Non si sostiene, qui, che la teoria economica debba essere largamente psicologica. Ma si vuol dire che i fattori psicologici rappresentano una parte molto importante nella nostra attività economica e che, quindi, non debbono essere trascurati. Sarebbe, per esempio, assurdo il voler analizzare i processi del cambio senza aver studiato il processo della valutazione; eppure la valutazione è un processo del tutto psicologico. La scuola austriaca, studiando il valore, segue semplicemente il metodo analitico della scuola classica inglese. C’è, invero, ancora campo per analisi nuove e più minuziose di quelle fatte da questa scuola, e tali analisi, si può fiduciosamente sperarle, correggeranno gli errori in cui essa è incorsa.
Come si è già detto, è un errore qualificare come astratto e deduttivo lo studio delle proprie esperienze soggettive, e quelle ipotesi che la scuola inglese e i suoi seguaci sono stati costretti a fare, non sono meno necessarie negli studi storici e statistici; si sbaglia, quindi, chiamando deduttivo il loro metodo. La vera differenza fra l’economista teoretico da una parte e lo statista e lo storico dall’altra, sta nelle fonti alle quali essi attingono le loro informazioni. Ammettendo che tutti e tre cerchino di lumeggiare questioni d’economia politica, l’economista studierà la vita contemporanea come cade sotto la sua osservazione diretta, interpretandola in base dell’esperienza soggettiva; lo studioso di statistica la studierà come si rileva nei dati statistici, mentre lo storico la esaminerà nei ricorsi storici. In tutti e tre i casi, il metodo logico è lo stesso, ma diversa è la fonte d’informazioni. Veramente, la scuola classica inglese si serviva di tutte e tre le fonti, dando però maggior importanza alla prima.
Quando, però, qualcuno vuol predire quali saranno i risultati di qualunque atto legislativo, adopera necessariamente il metodo deduttivo. Se la predizione non è una semplice supposizione, bisogna che sia basata su leggi generali. Sia poi che queste leggi siano scoperte per mezzo dell’analisi teorica o per mezzo di ricerche storiche, qualunque predizione, basata su di esse, sarà un esempio di ragionamento deduttivo. Il metodo della scuola classica inglese divenne deduttivo solo quando essa, desiderando d’essere di utilità pratica allo statista, volle predire i risultati di una certa legislazione.
Ma nessuna scuola può evitare ciò, a meno che non rifiuti d’essere d’utilità pratica.
Nello studio di un’altra serie di problemi, cioè di quelli concernenti le generali tendenze economiche e l’ordine dello sviluppo economico, l’analisi teorica deve necessariamente occupare una posizione subordinata. Mentre essa è essenziale per la corretta interpretazione dei dati storici, bisogna servirsi di questi medesimi per scoprire il vero ordine di sviluppo — l’ordine, per esempio, col quale si sono susseguiti gli stadi economici, in una con le loro speciali caratteristiche.
Ancora, l’indagine storica e gli studi statistici sono necessari per controllare i risultati del metodo analitico anche nel suo proprio campo di ricerche, ed a questo effetto erano appunto ampiamente adoperati dalla scuola classica inglese.
L’unica conclusione che si possa formulare mi sembra questa: nel tentativo di trovare una soluzione alle questioni di scienza pratica di governo, il solo metodo che abbia probabilità d’essere vantaggioso è quello analitico usato dalla scuola classica inglese. Certamente però è necessario che la sua opera sia perfezionata per mezzo di analisi più complete e più esatte, e che i risultati di queste analisi siano controllati dalle più minute e profonde ricerche storiche e statistiche.
Harvard University.