Satire (Alfieri, 1903)/Satira nona. I viaggi

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Satira nona. – I viaggi

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Vittorio Alfieri - Satire (1777-1798)
Satira nona. – I viaggi
Satira ottava. I pedanti Satira decima. I duelli

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SATIRA NONA.

I VIAGGI.

CAPITOLO PRIMO.

Ἄνδρά μοι ἔννεπε, Μοῦσα, πολυάργον1, ὃς μάλα πολλά
Πλάγχθη.

Omero, Odissea, v. 1.

Narrami, o Musa, le ozïose imprese,
D’uom, che tanto vagò.


Certo, l’andar qua e là peregrinando
Ell’è piacevol molto ed util arte;
Pur ch’a piè non si vada, ed accattando.
Vi s’impara più assai che in su le carte,
Non dirò se a stimare o spregiar l’uomo,
Ma a conoscer se stesso e gli altri in parte.
De’ miei vïaggi, per non farne un tomo,
Due capitoli soli scriverò:
Eccomi entrato già nell’ippodròmo. —
Del quarto lustro a mezzo appena io sto,
Ch’orfano, agiato, ineducato, e audace,
Mi reco a noja omai la Dora e il Po.
Calda vaghezza, che non dà mai pace,
Mi spinge in volta: e in Genova da prima
I passi avidi miei portar mi face.
Ma il Banco, e il Cambio, e sordidezza opíma,
E vigliacca ferocia, e amaro gergo
Sovra ogni gergo che l’Italia opprima,
E ignoranza, e mill’altre ch’io non vergo
Note anco ai ciechi Liguresche doti,
Tosto a un tal Giano mi fan dare il tergo.
E, bench’un Re non mi piacesse, io voti
Non fea pur mai per barattanni un Re
In sessanta parrucche d’Idïoti.

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Visto che in Zena da imparar non v’è,
L’Appennin già rivarco e m’immilàno.
Ma quivi io tosto esclamo un altro Oimè.
Le cene, e i pranzi, e il volto ospite umano,
E i crassi corpi e i vie più crassi ingegni
Che il Beozio t’impastan col Germano,
Fan sì ch’io esclami: «Oimè, perchè pur regni,
«Alma bontà degli uomini, sol dove
«Son di materia inaccessibil pregni!»
Dall’Insubria me quindi or già rimuove
L’agitator mio Dèmone, che pinge
Nuovi ognora i diletti in genti nuove.
Oltre Parma, oltre Modena ei mi spinge,
Oltre Bologna; senza pur vederle:
Come del barbaro Attila si finge.
Rapido sì travalico già per le
Tosche balze, che tante ali non puote
Neppur Scaricalàsin rattenerle.
Eccomi all’Arno, ove in suonanti note
La Plebe stessa atticizzando addita
Come con lingua l’aria si percuote.
Ma non mi fu, quanto il dovea, gradita
L’alma Cantata allor, perchè m’era io
Anglo-Vandalo-Gallo per la vita:
Nè mi albergava in core altro desío,
Che varcar l’Alpi, e spazïar la vista
Fra que’ popoli, grandi a petto al mio.
Quind’io Fiorenza già tenea jìer vista:
E, muto e sordo e cieco a ogni arte bella,
D’Anglo sermon quivi facea provvista;
Ignaro appien di mia futura stella,
Che ricondurmi all’Arno un dì dovea
Balbettator della natía favella.
Pur non del tutto vaneggiar mi fea
D’Oltremonti l’amor, quand’io di tanto
Minori i Toschi al lor sermon vedea.
Ma, più che i Toschi io nullo, or lascio intanto
Firenze, e Lucca già di vol trapasso,
Senza pure assaggiarvi il Volto Santo.
Pisa Livorno e Siena mi dan passo,
Perch’io sbrigarmi in fretta e in furia voglio
Di veder questa Roma e il suo Papasso.
Ecco, alle falde io sto del Campidoglio:
Ma il carneval che in Napoli mi chiama,
Fa che per or di Roma io mi disvoglio.

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Nei giorni santi di vederla ho brama,
Perchè i Britanni miei l’usan così;
E il mio appetito ratto si disfama.
Bella Napoli, oh quanto, i primi dì!
Chiaja, e il Vesuvio, e Portici, e Toledo,
Coi calessetti, che saettan lì;
E il gran chiasso e il gran moto, ch’io ci vedo,
D’altra vasta città finor digiuno,
Fan sì che fuggon l’ore e non m’avvedo.
Ignoranti miei pari, assai più d’uno
La neghittosa Napoli men presta,
Con cui l’ozio mio stupido accomuno.
Ma, sia pur bella, ha da finir la festa.
Al picchiar di Quaresima, mi trovo
Tra un fascio di ganasce senza testa.
Retrocediamo a procacciar del nuovo:
Qui non s’impara; io grido: ma non dico
«Ch’altri diletti che imparare io provo.»
Già torno al Tebro, e un pocolin l’Antico
Nella Rotonda e il Colisèo pur gusto;
Ma il troppo odor di preti è a me nemico.
Sì stoltamente hammi impepato il gusto
La mal succhiata Oltremontaneria,
Ch’io d’ogni cosa Italica ho disgusto.
Conobbi io poi, campando, esser più ria
Della classe Pretesca mille volte
L’Avvocatesca ignuda empia genía.
Spregiudicato i’ mi tenea, stravolte
Da nuovi pregiudizi in me l’idee:
Quindi io l’orme da Roma ho già rivolte.
Spronando ver le Adriache maree,
Rido in Loreto dell’alata Casa,
Pur men risibil che le antiche Dee.
Ma la Città che salda in mar s’imbasa,
Già si appresenta agli avidi miei sguardi,
E m’ha d’alto stupor l’anima invasa.
Gran danno che cadaveri i Vegliardi,
Che la reggean sì saggi, omai sien fatti,
Sì ch’a vederla io viva or giungo tardi.
Ma, o decrepita od egra o morta in fatti,
Del senno uman la più longeva figlia
Stata è pur questa: e Grecia vi si adatti:
Tal, che s’agli occhi forbe sua quisquiglia,
Può forse ancor risuscitar Costei
«Che sol se stessa e null’altra somiglia.»

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Tosto che il Doge antiquo dar per lei
All’antiquo Nettúno anel di sposa
Visto ebbi, ratta dipartenza io fei.
Francia, Francia, esser vuol: più non ho posa:
Balzo a Genova: imbarco: Antibo afferro:
Ivi ogni sterco Gallo a me par rosa.
Marsiglia tiemmi un mese, s’io non erro,
Fra le sue Taidi a cinguettar Francese:
Precipitoso io poscia indi mi sferro;
E son del gran Lutòpoli sì accese
Le brame in me, ch’io nè mi mieto il pelo,
Notte e dì remigando ad ali tese.
Giungo al fin dove in nebuloso velo,
Di mezzo dì, d’Agosto, io mal vedeva
Sozzo più ancor che il pavimento il cielo.
Dentro un baratro scendo, in cui mi aggreva
Che il suo bel nome San Vittorio affonde:
Scontento è l’occhio mio, nè più si eleva.
Ma scontento è vieppiù l’orecchio altronde,
Tosto ch’io sento del parlar Piccardo
Affogarmi le rauche e fetid’onde.
Taccio il civile-barbaro-bugiardo
Frasario urbano d’inurbani petti,
Figlio di ratte labbra e sentir tardo.
Che val (grido) ch’io qui più tempo aspetti?
Di costor, visto l’un, visti n’hai mille,
Visti gli hai tutti: a che più copie incetti?
Senza stampa, la Moda scaturille:
Quindi scoppiettan tutte a un sol andazzo
Le artefatte lor gelide faville.
Tornommi in mente allor, ch’io da ragazzo
Visti avea quanti fur Galli e saranno;
Che il mi’ Mastro di ballo era il poppazzo.
E ignaro allora io pur che con mio danno
Vi dovrei poscia ritornare un giorno,
Cinque mesi mi pajon più che l’anno.
Tra Scimmio-pappagalli omai soggiorno
Più far non vo’: sol d’Albïone avvampo:
Se Filogallo io fui, mel reco a scorno.
Arràs Doàggio Lilla, come un lampo,
Di bel Gennajo, assiderato, io varco,
Nè in Sant’Omèro Celtico mi accampo.
A Calesse, a Calesse: e pronto imbarco:
Degli Ouì già so’ stufo a più non posso:
Ogni Ouì ch’io v’aggiungo, emmi rammarco.

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Già navigo: e mi par tolta di dosso
Essermi tutta l’ammorbata Francia,
Che d’ira e tedio hammi smidollo ogni osso.
Ecco Dóver: si butta in mar la lancia:
Mi vi precipit’io fra i remiganti,
E il suol Britanno appien già mi disfrancia.
Dopo e voti e sospiri e passi tanti
Ti trovo e calco alfin, libera terra,
Cui son di Francia e Italia ignoti i pianti.
Qui leggi han regno, e niun le leggi atterra:
E ad ogni istante il frutto almo sen vede;
La ricchezza e lo stento non far guerra.
Il beato ben essere che eccede,
E il non veder mai là nulla di zoppo,
Fan ch’ivi l’uom sognar spesso si crede.
Nè il ciel di nebbie e di carbone intoppo
Dammi a letizia; che, se il fumo è molto,
Tanto è l’arrosto che fors’anco è troppo.
Uomini or veggio, ai fatti al par che al volto:
E, se i lor modi han soverchietto il peso,
Dal candor di lor alme ei mi vien tolto.
Più che il fossi mai stato, or dunque acceso
Son d’ogni uso Britannico: e m’irrita
Vieppiù il servaggio, onde il mio suol m’ha offeso.
Deh potess’io qui tutta trar mia vita!
Grida il giusto mio sdegno generoso,
Qual d’uom che liber’alma ha in sè nutrita.
Ma, per disciormi dal Tutore annoso,
Il già spirante omai mio quarto lustro
Vuol che in patria men torni frettoloso.
Sol di passo, in Olanda io m’impalustro;
Dove la industre libertade ammiro,
Per cui terra sì poca ha sì gran lustro.
Quindi l’Austriaco Belgio pingue miro:
Ma qui di Francia il puzzo già mi ammorba,
Tanto è Brussella di Parigi a tiro.
Eppur egli è mestier ch’io ancor mi sorba
Della schifosa Gallia altro gran squarcio,
Fiandra, Lorena, e Alsazia pur tropp’orba:
Poichè a dispetto di sua lingua marcio
E d’ogni suo costume e privilegio,
Soffre i Galli tiranni, e non fa squarcio.
Basilèa fa scordarmi il poter regio,
E così tutta Svizzera ch’io scorro;
Popolo ottuso sì, ma franco e egregio:

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Tranne Ginevra, i cui Scimiotti abborro
Misti di Gallo e Allòbrogo ed Elvetico;
Nè in cotai saccentelli io m’inzavorro.
Lascio la Pieve di Calvin frenetico
Ai mercantuzzi suoi filosofastri;
E sia pur culla del Rousseau bisbetico.
E, perchè in nulla il Ver da me s’impiastri,
Dirò che allor nè il gran Volterio pure
Fa ch’io Ferney nel mio vïaggio incastri.
D’ogni Gallume risanate e pure
Già già l’idee riporto appien d’oltr’alpe,
Viste dappresso tai caricature:
Da Ginevra indi avvien ch’in fretta io salpe,
Nè visitar quel Mago abbia vaghezza,
Che trasformato ha i Galli in Linci-talpe.
Scendo in Italia: e quasi emmi bellezza
Il mio nido, s’io penso al carcer Gallo:
Se all’Angle leggi io penso, emmi schifezza.
Mi stutorizzo in pochi mesi, e a stallo
Non vuol ch’io resti la bastante borsa:
Pasciuto, e giovin, correr de’ il cavallo.
Ma stanco io qui dalla bïenne corsa,
D’un solo fiato o bene o mal descritta,
Divido il tema: ed anco il dir m’inforsa
Il timor di vergar rima antiscritta:
Stolta legge (anch’io ’l dico), ma pur legge
Che il Terzinante antico Mastro ditta.
Obbedisco: e do tregua anco a chi legge.

CAPITOLO SECONDO.

Mezzo un Ulisse io pur, quanto alla voglia
Insazïabil di veder paesi,
Torno a spiccarmi dalla patria soglia.
L’Europa tutta a scalpitare intesi
Saran miei passi in trïennal vïaggio,
Tanto son del vagar miei spirti accesi:
I due terzi omai scorsi eran di Maggio,
Sessantanove settecento e mille
Gli anni dal ricovrato almo retaggio;
Quand’io, com’uom che in gran letizia brille,
Ampie l’ali spiegava al vol secondo;
Perchè il primier non quant’io volli aprille.

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Di me stesso signor, signor del mondo
Parmi esser or: nè loco alcun mi cape,
Se pria non vo dell’universo al fondo.
Già Vinegia riveggio: e tal mi sape
Quella sua oscena libertà posticcia,
Qual dopo ameni fichi ostiche rape.
Uom che ha visto i Britanni, gli si aggriccia
Tutto il sangue in udir libera dirsi
Gente che ognor di tema raccapriccia.
Passo, e son dove il Trivigiano unirsi
Incomincia al Trentin: seguo, ed Insprucche
Già m’intedesca in suono aspro ad udirsi.
Pur mi attalentan quelle oneste zucche,
E i lor braconi, e il loro urlar più assai,
Che i nasucci dei Galli e lor parrucche.
Già varco e Augusta e Monaco; nè mai,
Finchè la Sede Imperïal mi appare,
Resto dal correr che mi ha stufo omai.
Qui poserommi un po’; che un dolce stare
Questa Vienna esser debbe, almen pel corpo;
Che già so v’esser poco da osservare.
Ma troppo più ch’io mel credeva io torpo
E d’intelletto e d’animo, fra gente
Cui si agghiaccia il cervello e bolle il corpo.
Viva sepolta in corte aver sua mente
Vedev’io là l’impareggiabil nostro
Operista, agli Augusti blandïente:
E il mal venduto profanato inchiostro
Sprezzar mi fea il Cesareo Poeta:
Tai due nomi accoppiati a me fan Mostro.
Bench’io di Pindo alla superba meta
Il piede allor nè in sogno anco drizzassi,
Doleami pur Palla scambiata in Peta:2
Diva, ond’aulico vate minor fassi,
Non che dell’arte sua che a tutte è sopra,
Ma di se stesso, ov’a incensarla ei dassi.
Ma in dir tai cose or perdo e il tempo e l’opra:
Andiamo a Buda. Io vado, e torno, e parto,
Com’uom che frusta e spron più ch’altro adopra.
InAustrïato e Ungarizzato, un quarto
D’ora neppur vo’ inBöemarmi in Praga:
La Germania Cattolica già scarto.

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Dresda, bench’egra di recente piaga
Che i Borussi satelliti le han fatta,
Parmi dell’Elba a specchio seder vaga.
Un certo che di lindo ha, cui s’adatta
L’occhio mio: la favella appien rotonda,
Benchè ignota, l’orecchio mi ricatta.
Ma fatal cosa ell’è; ch’ove più abbonda
Un bel parlare, ivi la specie umana
Sia seccatrice almen quant’è faconda.
Partiamo. A Meissen per la porcellana,
Poi per la Fiera a Lipsia m’indirizzo,
Per la scïenza no, che a me fia vana.
Non mi pungea per anco il ghiribizzo
Di squadernar quei Tomi elefanteschi,
Di sotto ai quali omai più non mi rizzo.
Pria che nè l’Us nè l’Os l’alma mi adeschi,
Molti begli anni a consumar mi resta
Tra postiglion, corrieri, e barbereschi.
Troppo è mattina: a rivederci a sesta,
Lipsia mia. — Già l’orribil Brandinburgo,
Con sue arene ed Abeti m’infunesta.
Re quivi siede un Uom semi-Licurgo,
Semi-Alessandro, e in un semi-Voltéro:
Chi grecizzasse, il nomeria Panurgo.
Ei scrivucchia; ei fa leggi; ei fa il guerriero:
Ma, tal ch’egli è, sta dei Regnanti al volgo,
Come sta il Mille al solitario Zero.
Non vi par bello il paragon ch’io avvolgo
Nella moderna scorza geometrica,
Da cui sì dotta l’evidenza or colgo?
Ma già la numeral frase simmetrica
Lascio, e il suo gelo; e sfogherò il mio dire,
Sciolto dalla Ragione Inversa tetrica.
Quel Federigo, ch’or ci tocca udire
Denominar col titolo di Grande,
A me più ch’un Re picciol movea l’ire.
Che quanti guai per l’Universo spande
La Protei-forme infame Tirannia,
Tutti son fiori onde ha quel Sir ghirlande.
Balzelli, oppressïon, soldateria,
Brutalità, stupidità, Gallume,
Teutonizzata la pederastia,
E in somma il più schifoso putridume
Di quanti darian vizj Europe sei,
Quivi eran frutto di quel regio acume.

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A tal Sacra Corona inchino io fei,
Che pueril vaghezza mi vi spinse
Per vederlo: or per visto il mi terrei.
Ma il Monarchesco suo fulgòr non vinse
Miei sguardi sì, ch’io ne’ suoi sguardi addentro
Non penetrassi l’arte ond’ei si cinse.
Più ch’altr’uomo, il Tiranno asconde in centro
Del doppio cuore il marchio di sua vaglia:
Ma, s’io di Vate ho l’occhio, ivi pur entro;
E scopro il come avvien che altrui prevaglia
(Se d’armi ha possa) il medïocre ingegno,
Che si svela più in carta che in battaglia.
Ogni scrupol di sale in uom che ha regno,
Stupir fa tutti, o sia ch’ei nuoca o giovi:
Ma chi lo ammira, di ammirarlo è degno. —
Tutto è Corpo di guardia, ovunque muovi
Per l’erma Prussia a ingrati passi il piede:
Nè profumi altri, che di pipa, trovi.
Là tutti i sensi Tirannía ti fiede;
Che il tabacchesco fumo e i tanti sgherri
Fan che ognor l’uom la odora e porta e vede.
Fuggiamo, anche carpon; purch’io mi sferri
Da un tal Profosso. Adulatore a pago
Non mancherà, che a questo Sir si atterri.
Più d’oro assai che non di gloria vago
Qualche Scrittor qui a chiudersi verrà,
Che d’un Borusso protettor fia pago.
Tra gl’impostori, quanti il Mondo ne ha,
Il più sconcio non trovo e il più irritante
Del Tiranno che versi o compra o fa.
Fuggiam, fuggiam da un Re filosofante,
Rimpannucciante alcun letteratuzzo,
Nemici e amici e sudditi spogliante.
Respiro alfin: sto in salvo. Un Sindacuzzo
Del pacifico Amburgo mi ristora
Del Berlinal filantropesco puzzo.
Ma molto, e troppo, a me rimane ancora
Del Borëal vïaggio; onde il parlarne
Emmi or fastidio, quanto il farlo allora.
Sbrighiamcen, su. — Di favellante carne
Candidi pezzi trovo in Danimarca,
Che non dan voglia pure di assaggiarne.
Svezia, ferrigna ed animosa e parca,
Coi monti e selve e laghi mi diletta;
Gente, men ch’altra di catene carca:

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Ma poco io stovvi, perchè nacqui in fretta.
Già mezzo è il Maggio; e sì del Bòtnio golfo
Il ghiaccio ancor dà inciampo a mia barchetta.
Pur fa arrischiarmi il giovanil mio zolfo:
Salpo: e spesso è mestier far via coll’ascia,
Quanto in Finlandia più la prora ingolfo.
Se un tavolon di ghiacci il legno fascia,
Fuor del legno su i ghiacci io tosto balzo,
Nè pel mio peso l’isola si accascia.
Così, ruzzando e perigliando, incalzo
La strada e il tempo; infin ch’Abo mi accoglie,
Ma non più tempo che la palla al balzo.
Tutte son tese le mie ardenti voglie
A veder la gran gelida Metropoli,
Jer l’altro eretta in su le Sueche spoglie.
Già incomincio a trovar barbuti popoli:
Ma l’arenoso piano paludoso
Mi annunzia un borgo, e non Costantinopoli.
Giungo: e in fatti, un simmetrico nojoso
Di sperticate strade e nane case,
S’Europa od Asia sia mi fa dubbioso.
Presto mi avveggo io poi, che non men rase,
Di orgoglio no, ma di valor verace
Le piante son di quell’infetto vase.
Ogni esotico innesto a me dispiace:
Ma il Gallizzato Tartaro è un miscuglio,
Che i Galli quasi ribramar mi face.
Mi basta il saggio di un tal guazzabuglio:
Non vo’ veder più Mosca nè Astracano:
Ben si sa che v’è il Bue, dov’odi il muglio.
Nè vo’ veder Costei che il brando ha in mano,
Di sè, d’altrui, di tutto Autocratrice,
E spuria erede d’un poter insano:
Di epistole al Voltèro anch’essa autrice
E del gran Russo Codice, che scritto
Fia in sei parole: «S’ei ti giova, ei lice.»
Indiademato abbellisi il delitto,
Quant’ei più sa, dei loschi e tristi al guardo:
Ma lo abborra vieppiù chi ha il cuor più invitto.
Inorridisco, e fuggo: e cotant’ardo
Di tornare in Europa, che in tre giorni
Son fuor del Moscovita suol bugiardo.
Nè punto avvien ch’io in Dànzica soggiorni,
Perchè assaggiata è dal Prussian Tiranno
Che sPolonizza già i suoi be’ contorni.

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Così da un altro Borëal malanno
Sciolto mi trovo; e godo in me non poco,
Ch’ir non puossi a Varsavia senza danno.
Tutto arde allor, ma non di puro fuoco,
Il Babèlico Regno Pollacchésco,
Che in breve attesterà quant’è dappoco.
A mano armata un parteggiar Turchesco
Che libertà contamina col fiato,
Fa che in sì reo dissidio i’ non m’invesco.
Dei Tedescumi tutti esuberato,
In Aquisgrana trovomi d’un salto,
Dall’un Francforte all’altro rimbalzato.
Quindi Spà, che può dirsi il Capo appalto
Dei vizj tutti dell’Europa, un mese
Mi fa, bench’io non giuochi, in sè far alto.
Poi, le già viste Fiandre e l’Olandese
Anfibio suolo rivarcati, approdo
Un’altra volta al libero paese:
Cui vieppiù sempre bramo e invidio e lodo,
Viste or tante altre carceri Europee
Tutte affamate e attenebrate a un modo.
Venalitade e vizj e usanze ree,
Io già nol niego, hanno i Britanni anch’essi:
Ma franca han la persona, indi le idee.
Finch’altro Popol nasca, e l’Anglo cessi,
Questo (e sol questo) s’ami e ammiri e onori,
Poich’ei non cape nè oppressor nè oppressi. —
Quivi allacciato in malaccorti amori
Quasi otto lune io stava; usato frutto
Degli ozïosi giovanili errori.
Spastojatomi alfin dal vischio brutto,
Ripiglio il vol: Batavi e Belgi e Senna
Tocco e rivarco e lascio, a ciglio asciutto:
E la noja più sempre ali m’impenna.
Scendo con Lora: indi Garonna io salgo,
Che Spagna esser mi de’ l’ultima strenna.
Di Bordella e Tolosa non mi valgo,
Se non come di ponti; e son già dove
La prima rocca degl’Ibèri assalgo.
Ben dico, assalgo; nè a ciò dir mi muove
La scarsa rima: ell’è guerriera impresa
Peregrinar, dov’ogni ostacol trove,
Senz’agio alcuno, e triplicar la spesa:
Per esser tutto strada, strada niuna:
Tale Arabia in Europa assai pur pesa.

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E quanto inoltri più, più il suol s’impruna:
Arragona, peggior di Catalogna:
Finchè il peggio del pessimo si aduna
Là, dove il bel Madrid non si vergogna
Di metropolizzare in un deserto
Che a fiere albergo dare in vista agogna.
Qui pur già trovo il Gallicùme inserto,
Che dalle vie sbandito ha gli escrementi,
E così scemo assai l’ispano merto.
Che se un lor volto avean le Ibère genti,
Pregio era primo abborrir essi i Galli
E tutti i lor corrotti usi fetenti.
Fatte hai, Madrid, tue vie tersi cristalli:
Ma, sottentrando a’ sterchi i Gallici usi,
Vedrai quanto perdesti in barattalli.
Nè alcun qui me d’esuberanza accusi.
Meglio è ignoranza onestamente intera,
Che del mezzo saper gli atroci abusi.
Già per Toledo e Stremadura io m’era
A passo a passo tratto entro Lisbona,
Che serba ancor sua faccia Arabo-Ibèra.
Qui la molta barbarie si perdona;
Tanta ella assume novitade al fianco,
Che tutta d’usi antigalleschi suona.
E laudato sia il Ciel; che v’ha pur anco
In Europa un cantuccio, ov’è di fede
Che reïtade è l’imitare il Franco.
Torni e l’Ispano e il Portoghese erede
Del navigare e guerreggiar degli avi,
Che grandi fur senza Gallesche scede.
Ma finiamla. Io do volta: e le soavi
Piagge Andaluse di Siviglia e Gade
Fan misurarmi ad oncia i muli ignavi.
Noja e diletto in un provar mi accade,
Assaporando in regïon sì vasta
Sempre beato cielo e inferne strade.
Alle Colonne d’Ercole mi basta
Giunto esser pure. Io retrocedo, e tutta
Quant’ampia è Spagna al mio tornar contrasta.
Affronto allor quella spiacente lutta,
Della ostinata pazïenza al fonte
Bevendo sì, che nulla or mi ributta.
Già la Moresca Cordova ho da fronte:
Poi del terrestre suo bel paradiso
Mi fa Valenza le delizie conte.

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Poi per Tortosa, là dond’io diviso
Di Barcellona uscii se’ mesi innanzi,
Torno; e dal patrio amor ho il cor conquiso.
Spiacemi sol che a transitar mi avanzi
La Gallia ancor cui sempre ha l’uom fra’ piedi:
Ingojamcela dunque, insin ch’io stanzi.
Narbona e Monpélier, se tu vuoi, vedi:
Io per me chiudo gli occhi, e corro; e al lido
Scendo, da cui vedrò l’Itale sedi.
Già mi saetta Antíbo in ver l’infido
Ligure, a sazietà visto e rivisto,
Dond’io mi spicco verso il patrio nido:
Ch’io men l’ho a schifo, da che pur men tristo
Al par dei Paesoni e Paesotti
Mel fa di esperïenza il duro acquisto.
Dal corso trïennal nojati, e rotti
Ripatriammo al fin, volente Iddio,
Dell’Europa quant’è chiariti e dotti
Del pari, e il Legno, e il Ser Baule, ed Io.


Note

  1. Nel Testo d’Omero si legge πολύτροπον.
  2. Peta, Dea dei Petenti.