Satire di Tito Petronio Arbitro/18

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Capitolo diciottesimo - Leggerezza giovenile

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Petronio Arbitro - Satire (I secolo)
Traduzione dal latino di Vincenzo Lancetti (1863)
Capitolo diciottesimo - Leggerezza giovenile
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CAPITOLO DICIOTTESIMO

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leggerezza giovenile.



Non vi era nessun fanale, che indicasse il cammino ai passanti, nè il silenzio della notte omai giunta al suo mezzo ci lusingava d’incontrarci in alcun lampione. Aggiugni a ciò l’ubbriachezza, e la nessuna pratica dei luoghi, che anche di giorno eran bui. Come ci fummo dunque avviluppati ben quasi un’ora per quei ciottoli e rottami di pietre, fino a lacerarci i piedi, la destrezza di Gitone finalmente ce ne liberò. Perchè egli il giorno innanzi per timor di smarrirsi anche di pien meriggio, avea prudentemente segnati di gesso tutti i pilastri e colonne; e quel biancume vincendo la densità della notte additava con sufficiente chiarore la strada a noi barcollanti. Ma non minor pena trovammo anche di poi che fummo giunti all’albergo; imperocchè quella vecchia, altamente ubbriacatasi coi forastieri, non [p. 98 modifica]l’avrebbe svegliata il fuoco addosso; e forse avremmo dovuto dormir sull’uscio, se un procaccio di Trimalcione non sopravveniva con dieci carrette, il quale trattenutosi un momento a picchiare, buttò abbasso la porta, e ci diè luogo ad introdurci per la stessa apertura.

Entrato in camera mi misi in letto col mio ragazzo, dove lautamente pasciuto, e pien di prurito m’ingolfai ne’ piaceri.


Oh che notte fu quella!
    Che molli piume, oh Dei!
    3Caldi ci avviticchiammo,
    E coi labbretti aguzzi
    Diffusimo qua e là l’anime erranti.
    6Addio cure, e da questo
    A morire m’avvezzai.


Ma non ho ragion di allegrarmi. Perchè liberato dal vino e colle mani intorpidite, Ascilto, d’ogni ingiuria ritrovatore, mi rapì quella notte istessa il ragazzo, e lo portò nel suo letto, e divertissi senza alcun ostacolo con persona non sua; la quale, sia che non sentisse l’insulto, sia che lo simulasse, addormentossi tra le altrui braccia dimenticandosi degli umani diritti. Io risvegliatomi tasteggiai pel letto vuoto del mio piacere: e, se credere si deve ad un amante, stetti in pensiero se io avessi ad infilzarli col ferro, e il sonno loro maritar colla morte. Ma preso poi un più savio consiglio, svegliai Gitone collo staffile, e furiosamente guardando Ascilto, gli dissi: giacchè empiamente la fede hai violato, e la comune amicizia, prenditi tosto le cose tue, e cercati un miglior luogo alle tue sozzure.

Ei nulla oppose: ma quando ebbimo con ottima fede divisi tra noi i nostri furti, or bisogna, diss’egli, che anche il ragazzo ci dividiamo.

[p. 99 modifica] Io mi credetti che costui scherzasse innanzi andarsene, ma egli con mano parricida afferrò la spada, e disse: tu non goderai solo di questa preda, sulla quale ti distendi: Bisogna darmi la parte mia, o io di buon grado con questa spada la dividerò. Lo stesso feci io dall’altra parte, ed avvoltomi intorno al braccio il mantello, mi misi in positura di battermi.

Tramezzo a questo trasporto di furore il fanciullo afflittissimo ci abbracciava, piangendo, le ginocchia, e umilmente pregava, che quella vile taverna testimonio non fosse di uno spettacol tebano, nè del reciproco sangue macchiassimo luoghi consecrati alla più amichevole famigliarità. Che se fa pur d’uopo (sclamava egli) di un misfatto, eccovi la nuda gola, qui rivolgete le mani, qui i coltelli piantate: a me spetta il morire, che il sacramento dell’amicizia ho tradito.

A codeste preghiere ritirammo le spade, e Ascilto fu il primo che disse: Io porrò fine a questa contesa. Resti il fanciullo stesso con chi vuol egli, onde abbia almeno la libertà di scegliersi il camerata.

Nessun timore mi presi io di questo patto, parendomi che l’antichissima convivenza si fosse convertita in vincolo di parentela, onde l’accettai tostamente, e la lite deposi nel giudice: il quale non deliberò in modo, che paresse di aver esitato, ma sul finire delle mie parole alzatosi prontamente, disse che in suo camerata eleggevasi Ascilto.

Io fulminato da questa sentenza, così senz’armi com’era, caddi boccone sul mio letticciuolo, e mi sarei per dispetto offeso colle mie mani, se non avessi sentito invidia della vittoria del mio nimico.

Ascilto sortì orgoglioso colla sua conquista, e così lasciò derelitto in luoghi stranieri un compagno poc’anzi carissimo, e per eguali fortune non dissimil da lui.


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Dura il nome d’amico in sin che giova.
    Questo mobile affetto
    È di calcolo effetto.
    Sin che dura fortuna, o amici, voi
    5Bella cera tenete,
    E con vil fuga poi
    Altrove il volto al suo cessar volgete.
    Tai sono i mimi su la scena: quale
    Genitore si chiama,
    10Qual si dice figliuolo,
    Qual di ricchezze ha fama.
    Ma al calar della tenda, in cui rinchiuse
    Stan le parti facete,
    Torna a ciascuno la sua vera faccia,
    15E la finta ne scaccia.


Non però troppo mi abbandonai alle lagrime, che sospettando di non esser fra tanti mali sorpreso solo nella locanda dal vice-maestro Menelao,1 raccolsi i miei cenci, e me ne andai malinconico in un luogo solitario, vicino al lido. Colà stetti chiuso tre giorni, e rivangando col pensiero la presente solitudine e il passato disprezzo, mi rovinai co’ singhiozzi lo stomaco infermo, e in mezzo a tanti profondi gemiti spesse volte eziandio sclamai: Non può dunque la terra ingoiarmi ne’ suoi abissi, nè il mare sì funesto anche agli innocenti? Ho io ucciso il mio ospite, schivato il castigo, fuggitomi dall’arena, per trovarmi oggi, malgrado questi nomi pomposi, mendico, esule e derelitto in un’osteria di città greca? E chi a questo abbandono mi astrinse? Un ragazzaccio sozzo d’ogni lascivia, e per propria sua confessione meritevol di forca; fatto libero pe’ suoi stupri, e pe’ suoi stupri ingenuo, che non anco fuor delle bucce fu come una fanciulla goduto da chi appena sapea che era maschio. Che dirò di [p. 101 modifica]quell’altro, oh Dei! il quale nello stesso dì, in cui dovea vestire la toga virile,2 s’indossò la stola, che non seppe fin dalla culla di esser uomo: che nelle galere si prostituì come donna, che dopo aver dissipato il mio, e sconvolto il subbio della sua libidine, or abbandona i nodi d’una vecchia amicizia, e a guisa di puttana tutto infamemente sagrifica per la tresca di una notte? Ora stannosene tutte le notti annodati gli amanti, e nella fiacchezza delle loro oscenità burlansi forse della mia solitudine; ma non impunemente per dio! perchè non son uomo, nè libero, se io non vendicherò la mia ingiuria nell’empio lor sangue.

Ciò detto cingomi di spada il fianco, e perchè la debolezza non diminuisse il mio sdegno guerriero, eccito le mie forze con maggior copia di cibi: sortii poscia, e come un furibondo m’aggirai per i portici. Ma intanto che con istupido e feroce viso ad altro non penso che a stragi ed a sangue, e che ad ogni tratto portava il pugno sull’elsa, che dovea vendicarmi, un soldato mi tenne d’occhio, che forse era o un vagabondo, o un assalitore notturno, e dissemi: di qual legione sei tu, camerata, e di qual compagnia? Avendogli io con franchezza falsificato il nome del capitano e della legione: oh bella, soggiunse egli, i soldati del vostro corpo vanno così in iscarpette? allora il mio volto e il tremor mio avendo scoperto l’inganno, ei m’impose di ceder l’armi, e schivare un mal maggiore. Privatone quindi, e così sfumata la mia vendetta, me ne tornai dietro alla locanda, e passatami a poco a poco la collera, mi trovai contento dell’insulto di quel monello.



Note

  1. [p. 302 modifica]Ognun si ricorda che il maestro era Agamennone, e Menelao il ripetitore.
  2. [p. 302 modifica]Ella assumevasi a diciott’anni; Gitone, come vedremo fra poco, era di questa età.