Scientia - Vol. VII/L'arbitrio del legislatore nella formazione del diritto positivo

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Vittorio Scialoja

L’arbitrio del legislatore nella formazione del diritto positivo ../Il fenomeno religioso ../Die phisiologischen Grundlagen des organischen Reproduktionsphaenomene IncludiIntestazione 16 giugno 2014 75% Da definire

L’arbitrio del legislatore nella formazione del diritto positivo
Il fenomeno religioso Die phisiologischen Grundlagen des organischen Reproduktionsphaenomene
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L’ARBITRIO DEL LEGISLATORE

NELLA FORMAZIONE DEL DIRITTO POSITIVO



Chi interrogasse il sentimento volgare circa il valore della volontà del legislatore, facilmente ne riceverebbe le risposte più diverse e contraddittorie. Molti infatti credono che la volontà del legislatore abbia una forza sua propria onnipotente, onde non solo possa modificare, ma addirittura plasmare o creare a suo libito i rapporti sociali; molti invece negano ogni potere a quella volontà, ove non sia la pura e semplice sanzione dei rapporti costituiti dai varî fattori sociali, che si considerano come forze naturali. Vero è che in pratica parecchi di coloro, che la pensano in quest’ultimo modo, si sforzano di ottenere leggi in un senso o nell’altro, e rivolgono acuti strali contro il diritto, che si vien costituendo in modo non conforme a ciò che loro sembra più giusto.

Diversamente considerano le cose i cultori della scienza. Sieno giuristi, o filosofi, o economisti, o sociologi, essi in generale dirigono la loro attenzione sull’origine stessa della legge e la concepiscono come espressione della volontà dello Stato elaborata dai proprî organi costituzionali e studiano la formazione di tale volontà e la relazione di essa con le forze sociali. Alcuni affermano in modo assoluto essere la legge giuridica necessariamente soggetta alle leggi che governano lo svolgimento degli altri rapporti, essere essa non altro che la resultante delle cause generali che agiscono sulla vita sociale; sicchè non lasciano quasi campo alcuno allo svolgimento di una volontà, che non sia la semplice espressione di tale resultante: e non pochi riducendo ad una sola la causa attiva originaria, fanno della volontà legislativa un mero strumento [p. 132 modifica] di questa. Altri, e talvolta quegli stessi, mitigando il rigore dell’affermazione, ammettono che la volontà legislativa possa o accelerare o rallentare la produzione degli effetti di quella o di quelle cause, pur ritenendo gli effetti stessi inevitabili, onde convien dire inevitabile anche il movimento legislativo in quel senso. Altri ritengono che il legislatore possa con la sua ragione contemperare le varie forze sociali in modo da dar loro indirizzi diversi da quelli che avrebbero, se fossero lasciate in balìa di sè stesse. Altri attribuiscono alla volontà legislativa una decisiva importanza nella formazione del diritto, pur riconnettendola alle altre forze sociali: anzi in questa efficacia della volontà alcuni vedono una delle essenziali caratteristiche, per cui il diritto differisce dalla morale o dall’economia o da altre norme del vivere sociale.

Io non voglio qui discutere i più ardui e fondamentali problemi della filosofia del diritto, che si riconnettono a tali questioni; ma mi contento di rivendicare soltanto un posto, se non molto grande, certamente notevole, all’arbitrio del legislatore nella formazione del diritto positivo.

La parola è pericolosa, ond’è giustificato il timore di esser frainteso già fin da principio. Convien dunque rifarci un po’ più da lontano, per non correre il rischio di sbagliare strada.

Quando la scuola storica proclamò essere il diritto il prodotto della coscienza del popolo, fece fare un gran passo alla scienza giuridica, e in generale alle scienze sociali, non solo perchè negò l’esistenza di un astratto diritto razionale, che si diceva naturale, ma che, distaccato com’era dalle sue cause, più propriamente si sarebbe dovuto dire soprannaturale; ma anche perchè, quantunque in modo troppo oscuro e indeterminato, pose la causa immediata del diritto in un fattore psichico, che, bene o male, chiamò coscienza. Ma questa coscienza non era essa stessa il prodotto di altre cause? Il difetto precipuo della teoria filosofica della scuola storica stava appunto nel fermarsi all’indistinta coscienza popolare, senza esaminarne più chiaramente e più profondamente la natura e le cause. Anzi l’espressione stessa di coscienza popolare era atta a nascondere la vera natura del fenomeno stesso, e produsse infatti qualche nocevole effetto sulla teoria delle fonti del diritto; perchè metteva in soverchio rilievo il fatto della coscienza, diminuendo quasi il valore della volontà, non [p. 133 modifica] determinando la potenza di tale volontà, e perchè non bene distingueva gli elementi del popolo, che se ne diceva il soggetto. Fu merito precipuo di economisti e di sociologi lo spingere più innanzi lo sguardo indagatore, ricercando la reale composizione della società, che costituisce il substrato dello Stato, riportando la coscienza e la volontà ai loro veri ed effettivi soggetti, e studiando meglio le forze sociali, che agiscono anche sulla formazione della legge, sia attribuendo a date persone o classi di persone il potere di stabilire la legge, sia determinandone l’intrinseco contenuto.

In tal modo il diritto positivo e la legislazione appariscono come un elemento, e per alcuni potrebbe dirsi persino soltanto come un particolare aspetto, della grande meccanica sociale, nella quale le forze spingono in determinate direzioni la società umana e formano, secondo norme necessarie, determinate organizzazioni, la cui vita, il cui svolgimento e la cui dissoluzione sono soggette a regole scientifiche riconoscibili.

Poichè siffatte forze agiscono sull’attività degli uomini, come motivi della loro volontà, e poichè nei grandi numeri questi motivi producono effetti normali, è accaduto che quelle forze facilmente si sono considerate come cause immediate degli effetti della volontà degli uomini; e questa si è venuta così trascurando e quasi eliminando dallo studio scientifico della vita sociale. Meno degli altri, com’è naturale, peccarono in questo senso i giuristi; ma anche tra questi la volontà, sebbene non dimenticata, è tuttavia spesso ridotta puramente e semplicemente alle cause principali che si considerano come forze sociali.

Conseguenza di questo troppo semplice e grosso modo di vedere, è che le leggi, che la scienza dovrebbe e vorrebbe stabilire, assai poco corrispondono alla realtà storica. Ed allora i rimedî, che si sogliono usare, sono diversi: o si fa addirittura senza dell’incomodo riscontro della storia; o si fabbrica una storia ad usum Delphini; o si procede a salti, traendo dalla storia quella sola parte, che meglio corrisponde alla teoria che si vuol sostenere. Per contro avviene che coloro che non vogliono staccarsi dalla realtà dei fatti sono indotti a negare l’esistenza di quelle leggi generali della società e, particolarmente per noi che trattiamo del diritto, di quelle generali e necessarie leggi dello svolgimento storico del diritto, le quali non trovano perfetto riscontro nella storia. [p. 134 modifica]

Non si cela forse in tutto ciò qualche errore di metodo? Il pensiero trascinato da questa o da quella corrente, non omette forse di esaminare qualche elemento essenziale della storia?

A me pare di sì; ed uno di questi elementi trascurati è appunto quello ch’io chiamerei arbitrio del legislatore.

Infatti non bisogna dimenticare che la volontà, che costituisce il diritto, non è in realtà la volontà media direttamente determinata dalle grandi correnti prodotte dalla evoluzione della società da quel diritto governata, come molti se la raffigurano; ma è la volontà di quella persona o di quelle persone, che hanno il potere di fare la legge. Vero è che, guardando le cose molto dall’alto, il fatto stesso che il potere risieda presso queste persone, apparisce dipendente dalla volontà generale del popolo, che vi si sottomette, volontà determinata dai naturali fattori della vita sociale: vero è pure che la volontà del legislatore suol essere determinata essa medesima da quei fattori, o almeno suol essere limitata da essi; ma quanto numerose e quanto forti sono le cause perturbatrici di questa così semplice teoria astratta!

Anzitutto un primo vizio di queste argomentazioni sta nel considerare quasi chiuso e senza contatti esteriori il cerchio di ogni società soggetta ad un determinato diritto. Se invece noi pensiamo che ciascuna di tali società vive in mezzo alle altre; che ciascuna può trovarsi ad un grado di sviluppo diverso; e che l’una agisce più o meno potentemente sull’altra; noi vediamo che già solo per questo dovranno riscontrarsi gravissime alterazioni nella teorica evoluzione di ciascuna società. Tali alterazioni possono prodursi nei fattori stessi, che d’ordinario si considerano come cause di quella evoluzione, e quindi indirettamente nella formazione del diritto; ma possono anche più direttamente colpire l’ordinamento giuridico di una società e la legislazione di questa.

Le due più salienti forme di tale influenza esteriore sono la violenza e la imitazione, le quali nella storia si riscontrano frequentemente ed in gradi molto diversi.

La violenza con la conquista può addirittura distruggere la vita indipendente di una società; può sottoporla ad un potere, che non abbia fondamento alcuno nella spontanea volontà del popolo, e questo potere può, se ne attinge al di fuori la forza sufficiente, imporre al popolo un diritto, che in [p. 135 modifica] esso non si sarebbe certamente prodotto. In tal caso il diritto diventa fattore precipuo della vita sociale e può spesso modificare gli altri fattori, che normalmente ed astrattamente sogliono considerarsi come cause del diritto. È notevole che, nei casi di tal natura, il diritto imposto può essere anche diverso da quello che governa il vincitore. Può darsi anche che la forza esterna determini soltanto la prevalenza in una società di elementi, che per sè stessi non l’avrebbero avuta, spostando in questo modo il potere dagli uni agli altri e dando artificialmente nella legislazione la preponderanza a correnti diverse: anche in questo caso, il diritto può diventare causa modificatrice degli altri rapporti sociali. Non credo vi sia bisogno di citare esempî antichi o moderni, che abbondano nella storia del mondo e anche in quella del nostro paese, per dimostrare la verità di queste affermazioni: la violenza ha regnato infinite volte ed esercita anche oggi un impero maggiore di quello, che a noi piace confessare.

Ma anche se si potesse fare astrazione dalle invasioni, dalle conquiste, dalle oppressioni violente, l’efficacia delle forze esteriori su quelle interne di una società dovrebbe sempre riconoscersi potentissima. Dal punto di vista del diritto, essa ci si presenta come una graduale assimilazione, che talvolta può giungere fino alla rinunzia del proprio diritto per accettare quello straniero. E anche qui la imitazione può avere per oggetto la struttura stessa dei poteri costituzionali e perciò degli organi legislativi, come è avvenuto nella imitazione della costituzione inglese da parte di tanti Stati moderni, e di leggi elettorali, e di ordinamenti del potere esecutivo e giudiziario di altri paesi. Certamente in questi casi è necessario che l’imitatore abbia una qualche disposizione a conformarsi al diritto imitato; ma è anche certo che senza l’imitazione assai difficilmente gli ordini giuridici importati sarebbero nati in quel tempo, e forse anche non sarebbero mai nati in quella forma. E poichè non può esser negata seriamente, neppure dai più restii, l’efficacia almeno consolidatrice della struttura giuridica sulle forze sociali, deve riconoscersi nell’ordinamento importato non soltanto un prodotto giuridico non generato immediatamente dalle forze interne sociali, ma un fattore non trascurabile di queste stesse forze e dell’ulteriore formazione del diritto.

Quotidiana poi è la importazione di norme giuridiche dal di fuori. La volontà del legislatore è propensa all’imitazione, [p. 136 modifica] come tutte le volontà umane; e nel diritto la imitazione è tanto più ragionevole e opportuna, che non solo toglie di mezzo ad un tratto tutte le difficoltà, che si oppongono ad ogni tentata innovazione, e facilita i rapporti internazionali con la somiglianza della norma giuridica, ma offre il vantaggio dell’esperienza, che altrimenti in siffatta materia è pressochè impossibile. Di questa imitazione sono piene le storie di tutti i diritti, sicchè convien riprovare come falsa esagerazione il concetto di un logico e continuato interno svolgimento degli istituti giuridici di un popolo, che un tempo appariva quasi canone fondamentale della storia del diritto. Gli esempi più clamorosi sono quelli della pacifica importazione o della volontaria adozione di intere parti del diritto straniero in complesso. In alcuni casi si tratta di riproduzione a guisa di propaggine, come avvenne nelle colonie greche e romane, e più recentemente nelle spagnuole e nelle inglesi, anche là dove non si può parlare di violenta imposizione per conquista. In altri di imitazione per ottenere l’unità del diritto con popoli, coi quali si hanno comuni rapporti, come avvenne nell’assimilazione di tante norme di diritto greco e in generale mediterraneo da parte dei romani, il cui esempio più manifesto è quello del diritto marittimo; e come accadde poi in Europa pel diritto marittimo italiano, spagnuolo e francese. In altri casi ancora più importanti per la scienza, si riscontra addirittura l’imitazione di tutto un sistema giuridico a causa della incapacità, in cui si sente un popolo o il suo legislatore, di compiere ad un tratto un’immensa riforma del diritto senza appigliarsi alla grande opera compiuta da altri. Così noi troviamo adottato per una seconda volta in Europa e fuori come diritto comune il diritto romano nella forma datagli dalla compilazione Giustinianea; così nel diritto musulmano si riscontrano tanti elementi del diritto bizantino; così gli Statuti di alcuni Comuni servirono di modello agli altri; così il diritto germanico s’infiltrò presso popoli Slavi ed Ungheresi; il diritto francese diventò il modello di tanti codici europei, americani ed africani; alcune parti del diritto commerciale tedesco furono accolte da parecchie altre legislazioni; e così, per chiudere con uno degli esempi più recenti e di maggior valore, nel Giappone, dove molti secoli or sono era stato adottato il diritto cinese, negli ultimi anni del secolo decimonono fu imitato in grandissima [p. 137 modifica] parte prima il diritto pubblico e il penale e poi il diritto privato europeo. Questo esempio, che può da noi essere studiato meglio, perchè siamo dinanzi ad esso nella posizione di osservatori presenti e disinteressati, vale anche a dimostrare quanto può esservi di arbitrario e di accidentale in un fenomeno giuridico di tanta importanza. Certamente le condizioni della popolazione giapponese tendente ad espandere la propria attività oltre il proprio territorio avevano preparato in singolar modo il fondamento della portentosa pacifica rivoluzione politica, giuridica ed economica, per cui il Giappone passò quasi d’un salto dalla civiltà dell’oriente asiatico alla civiltà europea. Ma il passaggio stesso fu determinato appunto dal contatto coi popoli europei ed americani, la cui civiltà si era formata in modo del tutto indipendente dalla giapponese, sicchè rispetto a questa essa costituiva un elemento estrinseco accidentale: le cose sarebbero andate diversamente se gli europei non avessero in certo modo forzate le porte chiuse del Giappone. Questo poi si trovava in quel momento in condizioni tali che non gli sarebbe stato possibile di mettersi alla pari delle nazioni europee e di emanciparsi dalle giurisdizioni straniere, senza imitarle con volontario, gigantesco e vittorioso sforzo, rompendo tutte le proprie tradizioni. L’imitazione fu fatta con perfetta intelligenza; ma nella storia interna del Giappone tutta l’opera nuova legislativa (e non soltanto questa) apparisce come un atto di solenne arbitrio di fronte alle leggi normali della interna evoluzione. Di più, se consideriamo, per esempio, la legislazione civile, troviamo che nello scegliere il modello europeo intervenne di nuovo l’efficacia di cause, che appariscono arbitrarie e accidentali. Fu infatti da principio assunto a tipo il codice francese, di cui più alta risonava la fama, perchè era stato imitato dalla legislazione civile di parecchi Stati, e furono pubblicati nel 1890 parecchi libri del nuovo codice con tale carattere: col 1.° gennaio 1893 avrebbe dovuto andare in vigore tutto il codice. Ma resistevano alla corrente coloro che si erano educati in Inghilterra o negli Stati Uniti americani e preferivano perciò il sistema inglese. Intervenne finalmente un altro elemento portato da coloro che si erano recati a studiare in Germania, dove appunto in quegli anni si veniva preparando il nuovo codice civile dell’Impero. Così non fu più attuato il codice già pubblicato, ma se ne formò un altro, [p. 138 modifica] entrato veramente in vigore nel 1898, di tipo misto, in cui furono chiamate a contributo le principali legislazioni vigenti, ma soprattutto la germanica. Come si vede, tutto ciò poco si ricollega con le grandi correnti dei fattori interni della civiltà giapponese. Certamente in tale opera di recezione, per quanto intelligentemente condotta, insieme con istituti bene adatti se ne saranno importati altri meno convenienti. Resisteranno essi tutti? Finora pare di sì. Nessuno poi vorrà negare che in questo caso il diritto introdotto con illuminato arbitrio non sia stato e non sia causa importantissima della evoluzione sociale del Giappone; causa che, relativamente al Giappone stesso, non si può senz’altro considerare come effetto diretto degli altri normali fattori sociali.

Abbiamo così, con un rapido colpo d’occhio, veduto come l’arbitrio o violento o pacifico ed intellettuale possa anche profondamente alterare il corso ordinario dello svolgimento del diritto, agendo sulla società soggetta come causa perturbatrice del normale indirizzo delle altre forze sociali. In questo esame più d’una volta abbiamo usati quasi promiscuamente gli epiteti di arbitrario e di accidentale, non senza una profonda ragione, che oramai possiamo dichiarare con la sicurezza di non correre il rischio di essere fraintesi.

Per arbitrio del legislatore noi dobbiamo intendere quella volontà, che costituisce una legge, non determinata dalle cause normali dello svolgimento della società, cui la legge stessa si applica, e perciò anche non prevedibile da chi fermi la sua attenzione soltanto sull’ordinaria e immediata azione di quelle cause. Ciò non significa che anche questo arbitrio non abbia le sue cause e non sia quindi soggetto a leggi superiori meno facili a conoscersi.

Tale volontà apparisce così staccata dalla serie delle cause ordinarie e si presenta alla nostra mente in figura simile a quella di ciò che noi chiamiamo «caso» nella serie dei fenomeni naturali. Come nel «caso» si ha l’impreveduto incontro di cause, che operano, senza che a noi apparisca uno stretto nesso tra loro, così lo stesso deve dirsi dell’arbitrio di cui ragioniamo. Il parlare di arbitrio non significa dunque negare ch’esso sia motivato, ma solo negare ch’esso sia l’effetto della azione di alcune date cause, la cui normale efficacia ci sia nota.

Fin qui abbiamo considerato alcuni gruppi di casi di grande ampiezza ed importanza, nei quali la formazione del [p. 139 modifica] diritto è soggetta a cause che agiscono dal di fuori sopra un determinato popolo, onde il diritto pare costituito dall’arbitrio.

Dobbiamo ora portare lo sguardo sopra altri casi, relativi alla formazione del diritto nell’interno stesso di uno Stato, anche astraendo da influenze esterne perturbatrici.

La costituzione del potere presso certe persone, alle quali spetterà di fare la legge, suol essere determinata da correnti di volontà comuni dirette a certi scopi generalissimi. La prevalenza di questi scopi fa sì che il legislatore, che trae da siffatte volontà il suo potere, può anche esplicare la volontà propria in tutto ciò che non è sufficientemente determinato da quelle; anzi entro limiti, che talora possono essere abbastanza larghi, egli può anche opporre la volontà propria ad altre forze, che agiscono come cause sociali. Ciò si può riscontrare sempre: ma naturalmente in gradi molto diversi, secondo la diversa posizione costituzionale e politica, di chi è in possesso del potere legislativo. La sfera d’arbitrio può essere più ampia presso il tiranno, che desume la sua forza dalle necessità militari, e via via minore quando molti partecipino alla formazione della legge. Ma anche nei governi popolari di tipo odierno, in cui la legge è il prodotto di tante volontà concorrenti, non si può mai negare l’efficacia dell’arbitrio, sia delle molte volontà, che costituiscono un partito, sia di quelle che dominano i partiti e che più direttamente formano la legge.

Si hanno così numerosi casi di arbitrio legislativo, che spesso, quando la volontà del legislatore urta contro ciò che sarebbe il più naturale effetto delle altre forze sociali, colpisce manifestamente il sentimento popolare. Talora quelle forze reagiscono, e se l’arbitrio si oppone eccessivamente a forze molto efficaci, potrà prodursi anche la ribellione contro la norma o addirittura contro il legislatore. Ma questo è un ultimo limite: più spesso la pratica trova modo di sottrarsi più o meno indirettamente al diritto costituito: o gli uomini stessi chiamati ad applicare ed eseguire la legge non prestano la loro necessaria cooperazione; o l’arte dei giuristi e degli uomini di affari trova vie oblique per frustrare il precetto legislativo. Ma ciò non sempre accade; e se il legislatore è abbastanza forte e abbastanza abile, può molte volte riuscire ad imporre la propria volontà. Quando questa sia diretta a fini lodevoli, egli può così agire molto favorevolmente sul [p. 140 modifica] progresso della società, alla quale egli detta i suoi comandi; laddove egli può riuscire di non lieve nocumento quando, o per dolo o per errore, rivolga a scopi riprovevoli il potente strumento di cui dispone.

Una forma oggi assai comune d’imposizione, nell’interno degli Stati, di diritti che non sono l’effetto della condizione della società in varie regioni del territorio, si ha nell’unificazione della legislazione, che si considera appunto come fattore della unificazione di molti altri rapporti sociali. È facile di rilevare qui l’importanza del diritto di fronte a tali rapporti, perchè può non di rado accadere che paesi di condizioni molto differenti siano soggetti alla medesima legge; mentre al contrario paesi di condizioni pari si trovino divisi tra diversi Stati e quindi soggetti a leggi diverse.

Di solito, quando si studiano questioni, come questa di cui ragioniamo, la nostra attenzione è attratta soprattutto dal diritto privato, e anzi dal diritto patrimoniale; ma per valutar bene tutta l’importanza dell’azione del legislatore sulla società, conviene rivolgere la mente a tutto il complesso del diritto, al penale, al costituzionale, all’amministrativo, dove è vasto il campo aperto alla volontà del legislatore ed efficace l’azione sua sullo svolgimento della vita sociale. Ma nello stesso diritto privato patrimoniale, che pure è così strettamente legato ai rapporti economici, noi troviamo molti istituti, nei quali l’arbitrio del legislatore, nel senso oramai noto della parola, almeno in parte si manifesta. Il famoso principio del diritto francese del passaggio della proprietà pel solo consenso e soprattutto il vincolo di necessità con cui fu legato al nascere dell’obbligazione, non fu forse un frutto di teoriche meramente giuridiche applicate più o meno felicemente ad alcuni resultati della pratica precedente? La prescrizione può veramente considerarsi come un prodotto di necessità sociali; ma la determinazione del tempo, in cui ciascuna prescrizione si compie, non è forse in gran parte arbitraria? e non possono tuttavia da tale determinazione nascere talora impreveduti, ma sensibili effetti economici? E nella tanto delicata e grave materia delle successioni per causa di morte, non ha forse avuto e non ha tuttavia larga parte l’arbitrio legislativo, sebbene essa abbia così grande influenza sulla costituzione economica della società? In molti casi, anche se il legislatore voglia soltanto adattare il suo comando alla [p. 141 modifica] presente condizione dei rapporti sociali, egli dovrà arbitrariamente valutarli e soprattutto arbitrariamente determinare la convenienza ad essi del proprio precetto legale, perchè spesso la coscienza di tutto ciò è oscura; e può accadere che l’intelletto cada in errore e produca effetti inaspettati.

Ho supposto in questi ultimi miei ragionamenti che il potere legislativo stia nelle mani di colui o di coloro ai quali spetta, secondo la vera generale volontà del popolo organizzato; ma bisogna pure ammettere che alcune volte (anche facendo astrazione da ogni estranea violenza o ingerenza) il potere si trova presso un legislatore, che tale non dovrebbe essere. Uno dei casi più frequenti è quello, in cui il potere rimane presso chi prima giustamente lo possedeva, in forza degli ordinamenti giuridici costituiti. Ho già fatto cenno di tale resistenza; essa non ha bisogno di essere dimostrata qui particolarmente, perchè è uno dei fatti più riconosciuti e si può dire che non sia che una particolare applicazione di una legge universale di resistenza di tutte le organizzazioni. Ma se il potere legislativo può essere perciò esercitato da chi non dovrebbe secondo i più immediati effetti delle forze sociali, è chiaro che la legge da esso costituita può molte volte trovarsi in conflitto con queste forze medesime, ed apparire perciò ed essere, nel senso da noi ammesso, arbitraria.

È superfluo avvertire che questi diversi gruppi di casi, che si sono così passati rapidamente in rassegna, non sono in realtà distinti e separati l’uno dall’altro, ma anzi s’intrecciano e si combinano insieme, in tal modo che spesso sarebbe difficile classificare il caso nell’una o nell’altra categoria; e specialmente l’imitazione si può riscontrare in gran numero di fenomeni di arbitrio legislativo.

Questo vario e molteplice arbitrio, che pur noi dobbiamo riconoscere come fattore della formazione del diritto e che può agire anche con una certa efficacia sulle altre forze normali della vita sociale, non è però illimitato; anzi per la sua stessa natura esso può talora essere circoscritto in limiti ristrettissimi. Tutto dipende dalla forza, su cui si fonda il potere legislativo e dal complesso delle cause, che agiscono sulla sua volontà.

Anzitutto dovranno riconoscersi limiti psicologici. La mente umana non crea, ma raccoglie e combina; sicchè gli elementi intellettuali che muovono la volontà del legislatore [p. 142 modifica] sono sempre dati dalle cognizioni, che gli sono fornite dal suo tempo, e la preferenza per l’una o per l’altra deliberazione è determinata da correnti, alle quali partecipa lo spirito di lui: ciò si può verificare non soltanto nei più forti motivi, economici, religiosi, morali, militari ecc., ma persino nelle più piccole e apparentemente capricciose determinazioni. Per esempio, fu già osservato, che la preferenza per certi numeri arbitrariamente stabiliti dal legislatore è cagionata da quella che, per tutt’altri motivi, il popolo ha per alcuni numeri fondamentali e per alcune combinazioni di essi.

Altri limiti sono imposti dalla necessità, in cui ogni legislatore si trova di disporre di mezzi di applicazione del suo comando: mezzi materiali e uomini, come già abbiamo dianzi di passaggio accennato.

Finalmente l’azione delle grandi forze sociali, se non ha determinato il precetto legislativo, può contrapporsi ad esso, o suscitando la ribellione, o affrettando l’abrogazione, o con più lenta e silenziosa resistenza lasciando cadere in desuetudine la legge. Così le forze che non furono causa, o almeno causa immediata, possono essere limiti dell’arbitrio. Ma la limitazione non è negazione di questo.

Si dice che per far prevalere un’idea conviene esagerarla alquanto: ma in uno studio scientifico deve rifuggirsi da ogni artificio di tal natura, ed io non voglio attribuire all’arbitrio, che pur mi sembra di dover porre in rilievo, un valore superiore al vero. Io ammetto che il diritto sia in gran parte il prodotto delle maggiori forze sociali; anzi quando dico che l’arbitrio del legislatore consiste nel complesso degli svariati casi, nei quali la volontà legislativa non è immediatamente determinata da quelle forze, con ciò stesso riconosco l’efficacia normale di queste. Ma noto soltanto che la combinazione dei motivi, onde nasce la volontà del legislatore, può essere indipendente e talora avversa alla direzione di quelle forze nel popolo, che deve ubbidire al comando. Questo fenomeno può turbare lo svolgimento ordinario di una data società; ma la constatazione di esso non deve spingerci a negare la efficacia delle forze normali; anzi essa obbligandoci ad esaminare con maggior rigore e con più minuta analisi i fatti storici, può giovare a spiegare il fatto della non corrispondenza della storica realtà alla logica deduzione della teoria. L’arbitrio del legislatore rappresenta la maggior complicazione dei motivi, che [p. 143 modifica] si combinano per determinare la volontà; e non bisogna dimenticare la forza delle combinazioni.

Coloro che ammettono che il legislatore possa affrettare o ritardare il naturale movimento della vita sociale, riconoscono che in un dato momento storico la volontà legislativa possa portare anche a molto più profonde perturbazioni; perchè il trovarsi una società ad un dato grado di sviluppo, in un dato momento storico, può essere, a causa delle combinazioni con le altre società, decisivo per l’esistenza sua stessa o per il modo di esistenza. Basti ricordare l’esempio del Giappone, sul quale ci siamo dianzi soffermati.

In ogni modo, sia grande o sia tenue l’efficacia dell’arbitrio del legislatore, sia duratura o sia transitoria, non deve trascurarsi dalla scienza nostra. Anche i fatti tenui, anche i transitori sono fatti, e la scienza che non li spiega è una scienza imperfetta. È necessario constatare le apparenti disarmonie per poterle risolvere in armonie superiori.

E poichè le scienze morali e politiche non possono rinunziare ad esercitare la loro influenza sull’umana attività, conviene anche riconoscere che è moralmente confortante il constatare che la vita del diritto non è meramente fatale, ma che la volontà vi esercita la propria efficacia: e in un popolo libero questa volontà appartiene a tutti. In essa si combinano le cause preesistenti, ed ogni combinazione è materia e causa di altre nuove. Or come in natura certe combinazioni non avvengono se non a un dato grado di calore, così anche nello spirito nostro deve, per le più utili combinazioni delle forze sociali, continuamente alimentarsi la fiamma dell’intelletto e dell’amore.

Roma, Università.

Note