Scritti vari (Ardigò)/Polemiche/Contro la massoneria
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Padova, 7 gennaio 1903.
- Egregio Sig. Genovesi.
Rispondo subito alla di Lei lettera, che convengo interamente con Lei che dice giustamente che La Massoneria in uno stato libero è un non senso: e che a combattere l’oscurantismo è più efficace l’opera indefessa ed aperta di educazione e di elevazione civile che non l’opera tenebrosa e nascosta di una setta: e che coll’esistenza di questa la gran massa popolare non può che perdere la fiducia nella giustizia pubblica del proprio paese, nell’idea che la massoneria sia poi in fine una associazione di interesse pei soci a danno di quelli che non vi appartengono.
E fortuna per me che alle scomuniche sono avvezzo, e nulla temo perchè nulla spero.
Nel supplemento al numero 19-20 della Rivista della Massoneria italiana, colla data 4 febbraio 1903, comparve come risposta l’articolo seguente.
La scomunica di Roberto Ardigò.
Roberto Ardigò, il noto filosofo positivista, ha inviato una sua lettera all’«Egregio sig. Genovesi», direttore del Risveglio liberale di Mantova. In quella si afferma che la Massoneria, in uno Stato libero, è un non senso; che a combattere l’oscurantismo è più efficace l’opera indefessa ed aperta civile, che non l’opera tenebrosa e nascosta di una setta, e via discorrendo: conclude essere fortuna per lui che alle scomuniche è avvezzo, e nulla teme perchè nulla spera. E intanto la scomunica la lancia lui! Ma la Massoneria fa sua la frase che alle scomuniche è avvezza davvero e non le ha temute e non le teme, non perchè nulla abbia mai sperato e nulla speri, ma perchè ha sperato sempre e spera nel trionfo dell’onesto e del vero, che, nè le scomuniche dei Papi, nè le persecuzioni dei Principi, nè, molto meno, le condanne dei filosofi positivisti o no, possono impedire.
È curioso il commento che l’Eco di Bergamo, clericale, fa seguire alla lettera del filosofo positivista. E il commento è questo:
«Non è possibile non rilevare il cinismo ributtante della frase ultima allusiva alle scomuniche: lo spirito dello spretato ha voluto manifestarsi anche in un momento di buon senso».
Questa invettiva dell’Eco di Bergamo ci richiama alla mente qualche fase della vita dell’Ardigò. Egli era amico, presso a poco coetaneo, e collega in canonicato del defunto cardinale Lucido Maria Parocchi: erano ambedue canonici alla Cattedrale di Mantova, e correvano, naturalmente, il palio a chi salisse più presto i gradini della gerarchia ecclesiastica. Parocchi arrivò prima dell’Ardigò e fu creato arcivescovo di Bologna; il suo collega rimase canonico. Un bel giorno inaugurandosi l’anno scolastico nel Seminario di Mantova, Ardigò fu invitato a pronunziare il discorso di circostanza: accettò e parlò — niente di meno! — del Pomponazzi. Apriti cielo! Un canonico che, dinanzi a seminaristi, mette in rilievo la opera filosofica del Pomponazzi, del poderoso ingegno che batte in breccia le vecchie scuole e tenta di liberare la filosofia dal dogma e di separare la ragione e la fede, doveva empire quegli animi timorati di meraviglia e quasi di sgomento. Il Pomponazzi, mantovano anche lui, amico del cardinale Bembo e di Leone X, in grazia di certe remissive dichiarazioni, in grazia dei tempi volti al pagano, in grazia di quei potenti patroni non troppo in odore di santità e di rigida ortodossia, schivò la sorte di altri filosofi troppo liberi che furono dopo di lui; egli offriva quindi all’acume critico dell’Ardigò, modo facile a dire e non dire la metamorfosi che si disegnava, la rivoluzione che si compiva e tempestava nell’animo suo: nondimeno com’era da prevedere, e come forse l’Ardigò desiderava, la conferenza parve uno squillo di tromba e levò molto rumore nell’uditorio e in città: la sera, al gabinetto di lettura, dove tutti gli uomini colti di qualunque opinione si raccoglievano e dove frequentava il conferenziere, il compianto dott. Achille Sacchi, rivoltosi all’Ardigò ebbe a dirgli presso a poco che a chi parlava in quell’ambiente e a quel modo del Pomponazzi non stava più bene il collare. L’Ardigò non rispose: alcuni giorni dopo però i mantovani lo videro per via Pradella vestito in borghese e col sigaro in bocca: il Rubicone era passato.
Questo ricordo può essere la ragione determinante della sfuriata dell’Eco di Bergamo che, forse, insieme a tutti gli alti echi del clericalismo italiano, evocando il fantasma di certe trasformazioni, accarezza la lontana speranza che anche Roberto Ardigò descriva la parabola di Ausonio Franchi quando egli abiurò e tornò alla fede ed agli abiti della sua giovinezza.
! Questo non ci riguarda: noi non ci siamo mai troppo allarmati di certe senili conversioni, che, quando avvengono, non servono a nulla: se il positivista Ardigò ritornasse canonico, rimarrebbero sempre i suoi libri, come rimasero gli scritti di critica filosofica diE questa speranza ci ha da essere proprio in alcuni di coloro che acclamano, con alte voci e suon di man con elle, alla scomunica che l’Ardigò ha lanciato contro la Massoneria. In un articolo del Sole del Mezzogiorno del 23 gennajo, intitolato «Una consolante notizia» si legge che il prof. Ardigò invitò il parroco della chiesa di S. Pietro in Padova, dott. Pagnacco, a recare i conforti religiosi e il viatico alla sorella gravemente ammalata. Poichè non è a dubitare che l’inferma desiderasse l’assistenza del sacerdote, l’Ardigò fece benissimo, non solo a non opporsi, ma ad intromettersi perchè non le mancasse. Ma il Sole del Mezzogiorno, rilevando questo fatto e la pubblicazione della lettera contro la Massoneria, avvenuta pochi giorni innanzi, così commenta: «ciò vuol dire che il prof. Ardigò, ex-canonico di Mantova, benchè apostata dalla fede cattolica, non è ascritto all’infame setta: altrimenti non avrebbe pubblicato quella lettera — e noi aggiungiamo: verissimo — e tanto meno avrebbe permesso che un prete si accostasse al letto dell’inferma sua sorella — e noi aggiungiamo: falsissimo. — Tutto questo ci dà buone speranze pel ritorno, presto o tardi, del prof. Ardigò alla fede e alla Chiesa. Affrettiamolo con le nostre preghiere». — E non aggiungiamo una sillaba.
Ma lasciamo queste fisime: se son rose le fioriranno. Ci viene però spontanea una considerazione: se la Massoneria non avesse da secoli proclamata e difesa la libertà della coscienza e della scienza, se per questi preziosi beni non avesse instancabilmente lottato anche in Italia, determinando un movimento irresistibile nel pensiero pubblico, Ardigò avrebbe trovato un ministro che gli desse cattedra in una delle prime Università dello Stato?
Ma tutti i giornali fanno un gran chiasso di questa lettera dell’Ardigò: in fondo, di straordinario che cosa c’è? Forse il positivista ce l’ha colla Massoneria perchè essa, come Istituzione, non accetta e non esclude il positivismo, scaldandosi al gran fuoco della assoluta libertà di pensiero e di coscienza?
Se Roberto Ardigò per gli scrittori del Risveglio liberale e per gli altri conta per millanta, per la Massoneria conta per uno; e contro quell’uno essa potrebbe schierare le migliaja. Non parliamo dei grandi intelletti del secolo decorso: può essere che all’epoca della Rivoluzione francese il mondo fosse tanto più indietro d’oggi da non capire che la Massoneria rappresentava un controsenso, un anacronismo! Ma e Gian Domenico Romagnosi, che tenne seggio di Oratore nell’antica Loggia La Cisalpina? E il grande filosofo positivista Littré che, settuagenario, a somiglianza di Voltaire, chiese l’onore di essere ricevuto in una Loggia francese? E nei tempi nostri — citiamo a memoria e soltanto gli Italiani ed i morti — Giuseppe Garibaldi, Aurelio Saffi, Giuseppe Avezzana, Federico Campanella, Agostino Bertani, Giuseppe Ceneri, Quirico Filopanti, Nino Bixio, Giuseppe Mazzoni, Terenzio Mamiani, Oreste Regnoli, Giuseppe Petroni, Mauro Macchi, Giovanni Nicotera, Filippo Cordova, Domenico Farini, Orazio Antinori, Francesco Crispi, Antonio Mordini, Giuseppe Dolfi, Gaetano La Loggia, Giuseppe Libertini, Luigi Pianciani, Niccola Fabrizi, Felice Govean, Timoteo Riboli, Angelo Pichi, Ludovico Frapolli, Francesco de Luca, Francesco Curzio, Agostino Depretis, Pietro De Roberti, Federico Pescetto, Luigi Orlando, Ariodante Fabretti, Giorgio Asproni, Vittorio Bòttego, uomini insigni nella politica, nelle armi, nelle scienze, nelle lettere, nelle arti, tutti massoni convinti, operosi, insigniti dei più alti gradi nell’Ordine, a capo dei quali il duce dei mille, che si compiaceva del titolo di Gran Maestro e di primo massone italiano, erano forse cervelli rammolliti, anime sciocche così da entrare e rimanere in una Istituzione che fosse un anacronismo, un non senso? Il Risveglio liberale si tenga, dunque, e si abbracci forte il suo Roberto Ardigò: noi ci teniamo questi altri.
A questo Articolo risposi col seguente nel numero 1 marzo 1903 del Risveglio liberale.
Logica, storia e morale di un commentatore.
Per caso ultimamente ho saputo di un articolo di commento alla mia lettera sulla Massoneria, pubblicato nel numero 19-20 della Rivista della Massoneria Italiana col titolo: — La Scomunica di Roberto Ardigò — ; e l’ho trovato, leggendolo, molto in disaccordo colla Logica, colla Storia e colla Morale. È attendibile questo mio parere? Lascio giudicare a chi vorrà leggere.
In disaccordo colla Logica. — Io rispondo, per non essere scortese, alla lettera di una persona amica desiderosa di sapere com’io la pensi circa la Massoneria; e l’Articolista battezza quella semplice espressione ingenua della opinione particolare di un galantuomo, avvezzo alla sincerità, per una Scomunica, come se si trattasse del decreto vendicativamente esecutivo di una potenza formidabile; e fa per giunta come se non intendesse che, dicendo di non temere le scomuniche, io alludeva alla possibilità di conseguenze personalmente svantaggiose in seguito alla mia dichiarazione; senza però negarne l’utilità — pel trionfo, come lui dice, dell’onesto e del vero — pel quale appunto la feci.
Ancora. Dice l’Articolista che, essendo noi ora in tempi di libertà io posso insegnare all’Università di Padova; e non si accorge che con ciò conferma (contraddicendosi) lo stesso mio asserto, che cioè in uno Stato libero, per combattere l’oscurantismo, si può, ora almeno come io dissi, far senza della Massoneria.
In disaccordo colla Storia — L’Articolista fa che il Parocchi fosse Canonico della Cattedrale di Mantova insieme con me; e invece canonico egli non ne fu mai. E fa che io fossi ancora canonico quando il Parocchi fu creato Arcivescovo di Bologna; e io invece non lo era più allora già da ben sette anni. E fa che io leggessi il mio discordo sul Pomponazzi nel Seminario, mentre invece lo lessi nel Teatro scientifico, e come professore del regio Liceo. E fa che mi si vedesse per via Pradella vestito in borghese alcuni giorni dopo quella lettura, che non fu invece se non due anni appresso.
Eh, sì! Precisiamo le date, non badando alle quali o falsandole, si volle anche fare quella tanto sciocca insinuazione che trapela pure dal passo dell’Articolista che qui trascrivo:
«Erano (l’Ardigò e il Parocchi) ambedue canonici della Cattedrale di Mantova, e correvano, naturalmente, il palio a chi salisse più presto i gradini della gerarchia ecclesiastica. Parocchi arrivò prima dell’Ardigò e fu creato Arcivescovo di Bologna; il suo collega rimase canonico».
Precisiamo, dico, le date. Nel 1869, in seguito alla pubblicazione del mio discorso sul Pomponazzi, mi venne la sospensione a divinis, non più revocata, non essendo possibile che mi ritrattassi. E comincia così da quell’anno la mia separazione dalla Chiesa, compiutasi anche materialmente colla svestizione dell’abito il 10 aprile 1871, al momento della pubblicazione del mio libro La Psicologia come scienza positiva. E il Parocchi era intanto pur sempre il semplice parroco di S. Gervasio, poichè vescovo di Pavia fu creato solo il 4 ottobre 1871. Cosa poi questa che io non poteva innanzi neanche prevedere e che, avvenuta, mi fece solo pensare, che vescovo, quella volta era stato fatto uno che ne aveva il merito.
Correre il palio a chi salisse più presto i gradini della gerarchia ecclesiastica? Ma che! Una sola fu sempre la preoccupazione della mia vita: quella di avere l’agio di attendere a’ miei studi prediletti. Aspirare a fare il Vescovo? Per carità! Piuttosto rimanere sempre, come pure sono stato da principio, un semplice maestro elementare. Ah, sì! L’Articolista non lo immagina il temperamento che sono io.
Per anni e anni a Mantova (e mi rallegro tutto a pensarvi e come a un tempo di vita proprio secondo i miei gusti) finita la scuola alle tre o alle quattro dopo il pomeriggio, e mangiato un poco a casa, io usciva dalle porte della città con un libro in tasca e carta e matita, e mi aggirava solitario, a mio agio, senza seccature attorno, fosse pure d’estate col gran caldo, sulle rive dei laghi, fermandomi talvolta in qualche insenatura ombrosa delle alture che li circondano, e preparandomi in mente il tratto del mio libro in formazione che doveva far seguito ai tratti già scritti. E sull’imbrunire, lieto del fardello delle fatte meditazioni che portava meco, tornava, tutto polveroso e inzaccherato, a casa a fare un po’ di cena, per passare al Caffè del Corso a giuocare un pajo d’ore al bigliardo. E quindi una buona dormita, e alzarmi la mattina assai per tempo a scrivere quanto aveva pensato il pomeriggio precedente, e godere così che un po’ alla volta venisse fuori un libro da lanciare al pubblico, come una sfida ai pregiudizi tradizionali: di lanciarla colla fiducia confortantissima della più salda e imperitura convinzione. Altro che il gusto di fare il vescovo!
In disaccordo colla Morale. — Che dire di un Articolista, tutto spirito di massone, il quale dà l’esempio non certo dignitoso di giovarsi, a mio disdoro, di articoli malevoli e calunniosi di giornali clericali, compiacendosi di riprodurli senza riprovarli, e quindi evidentemente a scopo di denigrazione della mia persona non più a lui simpatica dopo la mia lettera al Risveglio? Sicuro! Egli si affretta anche a ricordare essersi stampato, che io, l’apostata, lo spretato (anche questi graziosi e garbati epiteti mantiene quel gentiluomo nelle sue citazioni), lascio speranza di una finale ritrattazione, colla quale termini in ultimo collo smentirmi. Si affretta a ricordarlo: ma colla precauzione di soggiungere, come il famoso personaggio del venticello: Non dico che sia, ma potrebbe anche essere. E s’accorda mo’ questo colla buona morale?
(Dal numero 11 gennaio 1903 del giornale di Mantova, Il Risveglio Liberale - Rispondendo ad una domanda del suo Direttore).
Note
- ↑ Polemica col periodico Rivista della Massoneria italiana.
- Testi in cui è citato Pietro Pomponazzi
- Testi in cui è citato Pietro Bembo
- Testi in cui è citato Papa Leone X
- Testi in cui è citato Cristoforo Bonavino
- Testi in cui è citato Gian Domenico Romagnosi
- Testi in cui è citato Voltaire
- Testi in cui è citato Giuseppe Garibaldi
- Testi in cui è citato Aurelio Saffi
- Testi in cui è citato Giuseppe Avezzana
- Testi in cui è citato Quirico Filopanti
- Testi in cui è citato Nino Bixio
- Testi in cui è citato Giuseppe Mazzoni
- Testi in cui è citato Terenzio Mamiani
- Testi in cui è citato Oreste Regnoli
- Testi in cui è citato Giuseppe Petroni
- Testi in cui è citato Mauro Macchi
- Testi in cui è citato Giovanni Nicotera
- Testi in cui è citato Filippo Cordova
- Testi in cui è citato Domenico Farini
- Testi in cui è citato Orazio Antinori
- Testi in cui è citato Francesco Crispi
- Testi in cui è citato Gaetano La Loggia
- Testi in cui è citato Giuseppe Libertini
- Testi in cui è citato Luigi Pianciani
- Testi in cui è citato Felice Govean
- Testi in cui è citato Timoteo Riboli
- Testi in cui è citato Francesco Raffaele Curzio
- Testi in cui è citato Agostino Depretis
- Testi in cui è citato Ariodante Fabretti
- Testi in cui è citato Vittorio Bottego
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