Se allor che fan ritorno

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Gabriello Chiabrera

XVII secolo Indice:Opere (Chiabrera).djvu Letteratura Intestazione 28 luglio 2023 75% Da definire

Per me giaceasi appesa Cosmo, sì lungo stuol lieto in sembianza
Questo testo fa parte della raccolta Canzoni eroiche di Gabriello Chiabrera


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LXXIX

Quando nelle marine di Corsica si conquistarono due galeoni, fecersi schiavi centosessanta Giannizzeri.

XII

 
Se allor che fan ritorno
     Co’ Traci incatenati
     Le belle di Firenze armate prore,
     Dovesse alzar Livorno
     5Tronchi di spoglie ornati
     Per vero testimon d’alto valore,
     Già foran di trofei carchi suoi lidi;
     Ch’estate mai non riede
     Senza mirare afflitti i mari infidi
     10Da celebrarsi prede.
Dianzi udiro le sponde
     Di Corsica guerriera
     Cavi bronzi avventar fulmini e lampi
     E rosseggiaro l’onde
     15Per battaglia aspra e fiera,
     E furo di Nettun funesti i campi.
     I Gianizzeri fier sul gran momento
     Arser d’alta virtute,
     Che non si combattea lana ed armento,
     20Ma la lor servitute.
Qual crudi orsi vellosi
     Vibrano l’unghia e ’l dente,
     E contra il cacciator cercan difesa,
     Tale i tanto famosi
     25Campion dell’Oriente
     Nel periglio sovran fecer contesa
     Ma nulla fu; poichè feroci esempi
     Lasciaro infra’ nemici,
     Caddero al fin: gli scellerati e gli empi
     30Son mai sempre infelici.
Allor gl’incliti legni
     Volgean le vele ardite
     Il gran Livorno a rallegrar non tardi
     E negli umidi regni
     35Le figlie d’Anfitrite
     Verso loro tenean cupidi i guardi.
     Cosparso di coralli, alteri fregi,
     Suonava il buon Tritone,
     Ma Proteo alzava canti, e crescea pregi
     40Di Cosmo alle corone.
Dicea Forza Ottomana,
     Per cui giacquer disperse,
     Strano a pensar! tante province altere
     La discordia cristiana
     45Fu che il varco t’aperse
     A cotanto splendor, non tuo potere;
     Discordia, mostro fier del tetro inferno,
     Che foco orribil spira;
     Ministra rea del correttor superno,
     50Allor ch’egli s’adira.
Ma se giammai sapranno
     Pigliar nobil consiglio
     I Re d’Europa, ove il gran Dio s’adora,
     Maomettan Tiranno,
     55Vedransi in gran periglio
     I ricchi regni, onde esce fuor l’Aurora:
     Che non faranno allor cotanti stuoli,
     Carchi di tante glorie,
     Se oggi di Cosmo gli stendardi soli
     60Han cotante vittorie?
Mentre ei lieto dicea,
     Apparve i crespi crini
     Di bianche perle inghirlandata Dori;
     E l’alma Galatea
     65Su’ frenati Delfini
     Movea pensosa de’ passati amori;
     E prese immantenente a’ cari modi1
     Dell’armonie soavi,
     S’inviaro a Livorno, e davan lodi
     70All’onorate navi.

LXXX

Quando a Capo di Spartivento in Calabria si conquistò un Galeone, e nell’Arcipelago sotto la fortezza di Schiatti si prese una galera. Liberati duecentotrentadue Cristiani, fatti schiavi duecentotrenta turchi.

XIII

Cosmo, sì lungo stuol lieto in sembianza,
     Che a’ tuoi piedi s’atterra oggi dal seno,
     Perchè franco lo fai, letizia spande.
     Ei dee ben conservar la rimembranza
     5Di questo giorno, e tu di lui non meno,
     Che quante volte in terra anima grande
     Felicità comparte,
     D’assimigliarsi a Dio ritrova l’arte.
Sforza dunque, o mio re, l’alto pensiero,
     10Onde gli scettri tuoi splendono chiari:
     So che di torri e che di mura eccelse
     E forte quel che tu governi impero;
     O guardi l’Alpi, o pur difenda i mari:
     So che suoi pidi in lui Cerere scelse,
     15E che le genti industri
     Son di Minerva nelle scuole illustri.
Ma contrastati se ne van repente
     Tai pregj al vento: ecco la terra Argiva
     Langue tra’ ceppi, e di catene è carca;
     20E dell’aspro Quirin l’inclita gente,
     Quando di palme eterne alma fioriva,
     Calpestando superba ogni monarca,
     Trionfo tanto e vinse,
     Perchè la spada infaticabil cinse.
25Dannata vista, e di mirarsi indegna,
     Gioventù, che di gemme orni le dita,
     Che increspi il crine, e che di nardo odori!
     Ell’hassi da mirar sotto l’insegna,
     Che scuotendo cimier minacci ardita.
     30Che dallo sguardo fier versi furori,
     E che d’onor ben vaga
     Esponga il petto a memorabil piaga.

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Di così fatto onor saggio s’accorse
     Giovanni2 il franco, che del Mincio all’onde
     35Lasciò col suo morir l’Italia mesta;
     Poi per quell’orme ognun de’ suoi sen corse:
     E Cosmo di Livorno in sulle sponde
     Oggi l’Etruria a suon d’acciar tien desta,
     E con purpuree croci
     40Manda in battaglia i Cavalier feroci.
Or chi di verde allor non cerca rami
     A far ghirlande? e chi d’Aonii canti
     Agli spirti guerrier non dà tributo?
     Chi può l’armi tacer d’un Inghirami?
     45O la fervida man d’un Sozzifanti?
     O l’intrepido cor d’un Montacuto?
     O biondo Apollo, o Dive,
     Di ciascun taccia chi di lor non scrive.
Certo nel petto mio sembra, che avvampi
     50Ardor di Febo: o Calabrese arena,
     Che a te non corra, io me frenar non basto:
     E non men dell’Egeo trascorro i campi,
     Ove le turche braccia aspra catena
     Costrinse al fin dopo mortal contrasto;
     55E sol miro dolente
     Schiatti, che bronzo fea tonare ardente.
Potrei de’ fregj, onde Parnaso adorna
     L’altrui virtude, oggi abbellir miei versi.
     Bacco in mente mi vien sul lido Eoo;
     60E so, che svelte rimirò sue corna
     Dopo lung’arte negli assalti avversi
     Sotto l’Erculea man vinto Acheloo;
     E che campagne arate
     Dieder non spiche, ma falangi armate3.
65Rammento l’Idra, e i fieri incontri e crudi,
     Se mai la turba delle teste orrende
     Il germe fier d’Anfitrïone assalta:
     Questi son delle Muse egregj studi
     Chè ogni vigilia a gran ragion si spende,
     70Allor che merto di valor s’esalta;
     Ma quando alto ei lampeggia,
     Par che ornamento fuor di sè non chieggia.

Note

  1. Prese a’ cari modi. Elegante locuzione, e vuol dire: rapite all’udire i cari modi.
  2. Allude a Giovanni Medici, generale italiano, celebre per la sua intrepidezza nel principio del secolo XVI. Discendeva da Lorenzo il vecchio, fratello di Cosimo, padre della patria. Fu padre di Cosimo, il quale, mancato il ramo primogenito de’ Medici, fu primo granduca di Toscana. Questo Generale prestò i suoi servigi ai papi Leone X e Clemente VII suoi parenti; alla Repubblica Fiorentina contro il Duca d’Urbino: nella guerra tra i Francesi e gl’Imperiali in Lombardia, or sotto gli uni, or sotto gli altri, ma sempre tenendo le parti del Pontefice. Morì presso Mantova d’un colpo di falconetto, inseguendo il capitano Fronsperg, quello stesso che poi saccheggiò Roma. suoi soldati gli erano così affezionati, che tutti vestirono a lutto; nè più avendo dismesso il color nero, furono chiamati le così dette Bande nere, famose in quella guerra per ferocia e valore.
  3. Allude a Giasone.