Sessanta novelle popolari montalesi/I

Da Wikisource.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
I. Zelinda e il Mostro

Sessanta novelle popolari montalesi ../II IncludiIntestazione 17 dicembre 2017 25% Da definire

Sessanta novelle popolari montalesi II

[p. 1 modifica]

NOVELLA I.

* Zelinda e il Mostro.


C’era una volta un pover’omo, che aveva tre figliole; e siccome tra di queste la più piccina era anco la più bella e garbata e di naturale dolce, così quell’altre due sorelle l’astiavano a morte, abbenechè il su’ babbo, tutt’all’incontrario, gli volesse dimolto bene. ’Gli accadde che in un paese vicino, per l’appunto nel mese di gennaio, e’ ci fussi una gran fiera, e quel pover’omo bisognò che ci andasse per far le provviste necessarie al campamento della su’ famiglia, e domandò, prima di mettersi in istrada, alle su’ tre figliole, se loro bramassono qualche regaluccio, proporzionato, s’intende, alle su’ facoltà. La Rosina volse un vestito, la Marietta gli chiese uno scialle, ma la Zelinda si accontentò che gli portassi una bella rosa. Quel pover’uomo, il giorno doppo, quando fu a male brighe bruzzolo, si vestiede e nuscì di casa per il su’ viaggio e, arrivato in sulla fiera, subbito fece le compere delle provviste, e poi gli fu facile trovare il vestito per la Rosina e lo scialle per la Marietta; ma di que’ tempi, abbenechè s’accanasse a ricercarla dappertutto, una rosa per la su’ Zelinda nun potiede averla. In ugni mò, voglioloso di accontentarla la su’ cara Zelinda, si rimesse in viaggio lì pe’ dintorni alla ventura, e cammina cammina, eccoti che ’gli arriva dinanzi a un bel giardino, tutto serrato da de’ muraglioni; ma siccome il cancello ’gli era soccallato, lui lo pinse in là, e poi pian pianino nentrò dientro. Il giardino si vedeva carico gremito d’ugni sorta di fiori e di piante, e in un cantuccio e’ c’era un cespuglio alto di rose vaghe [p. 2 modifica]sbocciate e di colore aocchiato. Guarda di qua guarda di là, nun pareva che per quel logo ci fussi anima viva per chiedergli una rosa o col pagare, oppuramente in regalo; sicchè, il pover’omo, insenza pensarci su più che tanto, allungata una mana in verso il cespuglio, abbrancò una rosa e la cogliette per la su’ Zelinda.

Misericordia! a mala pena che lui ’gli ebbe stacco il fiore dal gambo, nascette un gran fracasso e scaturirno valampole dal terreno, e a un tratto sbucò fori un Mostro terribile con la ficura di dragone, e fistiava a tutto potere, e scramò, iscurruccito a bono contro quel povero Cristiano: — “Temerario! che ha’ tu fatto? Ora ti tocca a morire subbito, chè tu ha’ avuto l’arditezza di brancicare e sciupinarmi la mi’ pianta di rose.” — Il pover’omo, morto più che mezzo dalla paura, si messe a piagnere e a raccomandarsi in ginocchioni, chiedendo perdono dello sbaglio commesso, e si diede a fare tutto il racconto del perchè lui aveva colto quella rosa; e poi diceva: — Lassatemi andar via: i’ ho la famiglia, e se manco io, per lei è finita e va in perdizione. Ma il Mostro, incattivito più che mai, gli arrispose: — “Senti, uno ’gli ha da morire. O portami la ragazza che volse la rosa, o insennonnò i’ t’ammazzo in questo vero mumento.” — E nun ci fu versi di persuaderlo nè con le preghiere, nè co’ pianti; chè il Mostro stiede fermo nella su’ sentenzia, e nun lassò andar via quel pover’omo, se prima lui nun gli ebbe promesso con giuramento di menargli lì nel giardino la su’ figliola Zelinda.

Figuratevi con che po’ di core quel pover’omo rinentrò in casa sua! Lui diede i regali compri alle su’ figliole più grandi, e anco la rosa alla Zelinda; ma ’gli aveva un viso istravolto e bianco come un morto iscaturito dalla sepoltura, sicchè le ragazze tutte impaurite gli domandorno quel che era stato e se gli era intravvenuto qualche disgrazia. Dagli e ridagli, finalmente il pover’omo piagnendo a calde lacrime si messe a ridire le su’ disgrazie di quel malauguroso viaggio e a che patto infine lui era potuto ritornare a casa: — “Insomma” — scramò — “ci bisognerà esser mangiati vivi, o io o la Zelinda, dal Mostro.” — Allora sì che le altre due sorelle scaricorono la sacca in sulla Zelinda. — “Bada lì” — dicevano loro — “la smorfiosa, la capricciosa! Lei, lei anderà dal Mostro! Lei che ha volsuto la rosa di [p. 3 modifica]questi be’ tempi. Che! il babbo ha da restare con noi. La grulla!” — A tutti questi improperi la Zelinda senza scommoversi s’accontentò di rispondere: — “’Gli è giusto che paghi chi ha fatto il malanno. Anderò io dal Mostro. Sì, babbo, menatemi al giardino, e sia pure la volontà del Signore.” —

Doppo varj contrasti e battibecchi in quella famiglia scompigliata, chè ognuno parlava a passione, abbenechè diversa, restò fissato che la Zelinda ’gli anderebbe nel giardino del Mostro per lassarla lì sola: e difatto feciano senz’altro accosì. Quando viense la mattina, la Zelinda con il su’ babbo tutto addolorato si messano in cammino e in sull’imbrunire loro arrivorno al cancello del giardino, e nentrati che furno, nun c’era, com’al solito, persona viva, ma ci veddano un gran palazzo da signori illuminato e con le porte spalancate; sicchè dunque, i due viaggiatori arrivati nell’androne, subbito quattro statue di marmo si mossano d’in sul piedistallo con le torce accese in mano e gli accompagnorno per le scale per insino in una sala grande, dove nel bel mezzo c’era una mensa apparecchiata con ugni ben di Dio. Loro, che avevano dimolta fame, senza tanti complimenti si sederno a mangiare; e quando furno satolli, le medesime statue co’ lumi gli condussano in du’ belle cammere ammannite, gli mettiedano a letto, e felice notte. La Zelinda e il su’ babbo gli erano tanto stracchi, chè s’appiopporno come ghiri e dormirno saporitamente per quanto fu lunga la notte.

Alla levata del sole la Zelinda e su’ padre destati si levorno diviato e delle mani invisibili gli servirno a culizione di tutto punto; doppo, scesi giù nel giardino, si diedano assieme a cercare del Mostro, e arrivati al cespuglio delle rose, eccotelo che sbuca fori con la su’ bruttezza e terribilità. La Zelinda, a quella vista, diventò bianca dalla paura e gli tremavan sotto le gambe; ma il Mostro la guardò fissa con que’ su’ occhiacci infocati e poi disse al pover’omo: — “Sta bene: tu ha’ mantienuta la parola e son contento. Ora però, vattene, vecchio, e lassami qui sola la ragazza.” — A questo comando, al vecchio gli parse di morire, e anco la Zelinda stava lì mezza grulla e con le lagrime vicine a spuntare; ma nun valse il pregare, chè il Mostro rimase duro come un sasso, e al pover’omo gli conviense andar via, lassando la su’ cara Zelinda nella padronanza del Mostro. [p. 4 modifica]

Quando il Mostro fu solo con la Zelinda, principiò a fargli delle carezze, de’ daddoli e a dirgli delle parole amorose, e tanto si addoperò, che gli rinuscette parere un po’ garbosino. Nun c’è pericolo che lui la dimenticasse mai, e badava che nulla gli mancassi, e tutti i santi giorni discorrendo con lei nel giardino sempre gli domandava: — “Che mi vo’ bene, Zelinda? Che vo’ tu diventar la mi’ sposa?” — Ma la ragazza gli rispondeva in sul medesimo tenore: — “Bene sì, ve ne voglio, signore: ma nun diventerò mai la vostra sposa.” — E il Mostro allora si addimostrava dimolto addolorato e raddoppiava le su’ carezze e i su’ boni garbi, e sospirando forte a su’ modo diceva: — “Eppure, vedi, Zelinda, se tu mi sposassi, gli accaderebban cose maravigliose. Ma quali, nun te lo posso dire, insino a che tu nun voglia essere la mi’ sposa.” —

La Zelinda, abbenechè in fondo nun si trovassi malcontenta lì in que’ be’ loghi e trattata da regina, pure di sposare il Mostro nun se la sentiva nè punto nè poco, perchè lui ’gli era troppo brutto e come una bestia; e alle richieste che gli faceva il Mostro lei aveva sempre le medesime risposte pronte. Ma ’gli accadde che un giorno il Mostro chiamò la Zelinda in fretta e furia, e gli disse: — “Senti, Zelinda, se tu nun acconsentisci a sposarmi ’gli è decretato che il tu’ babbo ha da morire. Già lui sta male e si trova in fine di vita, e tu non lo potrai nemmanco rivedere. Bada se ti dico la verità.” — E tirato fori uno specchio incantato, il Mostro fece lì dientro vedere alla Zelinda il su’ babbo moribondo nel letto di camera sua. A quello spettacolo la Zelinda, tutta disperata e mezza matta dal dolore, cominciò a urlare: — “Oh! salvatemi il babbo, per carità! Fate almanco ch’i’ lo possa riabbracciare prima che lui moia. Sì sì, ve lo prometto, che sarò in ugni modo vostra sposa fida e costante, e senza indugio. Ma il babbo, il babbo, salvatemelo dalla morte.” —

A male brighe che la Zelinda ’gli ebbe profferite queste parole, che in un tratto il Mostro si trasficurì in un bellissimo giovane. La Zelinda a quel mutamento improvviso restò sbalordita, e il giovane la prese allora per la mano e gli disse: — “Sappi, cara Zelinda, che io sono il figliolo del Re delle Pomarance. Una vecchia strega toccandomi e’ mi ridusse quel Mostro [p. 5 modifica]5] terribile di prima e mi condannò a starmene appiattato nel cespuglio delle rose in questa ficura, insino a che una bella ragazza nun acconsentiva a diventare la mi' sposa. Per tu' bontà, Zelinda, rideccomi omo come avanti. Si vadia dunque subbito dal tu' babbo, che dev'essere di già rinsanichito, e dopo si farà il legittimo matrimonio, quando i' abbia ottenuto il consentimento del Re delle Pomarance. La Zelinda e il giovane, senza più aspettare, si partirno assieme a cavallo dal giardino, e quand'ebbano rivisto il padre della Zelinda, tutti in un branco andiedano nel Regno delle Pomarance, dove il Re alla vista del figliolo, ché lo credeva da un bel pezzo morto, mancò poco che nun cascasse sbasito dall'allegrezza. Il giovane raccontò al Re quel che gli era intravvenuto per filo e per segno; ma alla novella dello sposalizio fissato con la Zelinda il Re si sturbò forte, e fece protesto, che lui, abbeneché dimolto obbligato alla Zelinda per la libberazione del figliolo, lui a quella richiesta nun ci poteva acconsentire; perché lui aveva già da più tempo impegnata la su' parola di Re, che il su' figliolo pigliassi per su' moglie la figliola del Re di Prussia. E siccome s'avveddan che nun c'era rimedio e il Re nun c'era caso di smoverlo dalla sua idea, la Zelinda e il giovane fissorno di scappare assieme di nottetempo, a costo di vagar per il mondo alla ventura, per nun si lassar mai; e difatto, travestiti da pitocchi, loro due uscirno a piedi fori del palazzo zitti zitti, e si mettiedano in cammino a traverso la campagna. La Zelinda e il su' sposo doppo di avere viaggiato tutto un giorno così a caso, in sull'abbuiare entrorno in una selva e vi si persan dientro: gira di qua, gira di là, nun ci fu versi che trovasseno la via per sortirne; sicché cominciavano a sgomentarsi a bono e a darsi per morti, quando lontan lontano e' veddano un lumicino. A tentoni s'indirizzorno laggiù e giunsano con grandi pene alla porta d'una spelonca, addove si diedano a picchiare colle noccole delle dita. Di lì a un po', deccoti s'affaccia a un finestrino una donna, che aveva du' zanne di porco sporgenti fori delle labbra, che con una vociaccia sgangherata bociò: - Chi siete voi? e che volete a quest'ora? Dice il figliolo del Re delle Pomarance: - No' siemo du' meschini, marito e moglie, e [6] [p. 6 modifica]s'è smarrita la via per questa selva. Dateci per carità ricovero tutta la notte, e del pane e dell'acqua, perché si more dalla stracchezza e dalla fame. - Oh! sciaurati! - scramò la donna dalle zanne: - in che brutto logo siete ma' vienuti! Questa' gli è la casa dell'Orco e io sono la su' moglie. Scappate, ma lesti, che lui a mumenti e' torna, e se vi sente e vi trova, per voialtri due 'gli è bell'e finita. Vi mangia tutti e due vivi in un ammenne. - Ma dove s'ha da andare? - disse il giovane. - Badate piuttosto di nisconderci in qualche logo riposto, e domani a levata di sole si fuggirà via senza farci sentire. Arrisponde l'Orchessa: - Ma che vi pare! Son cose impossibili. Lì all'uscio, vedete! dalla parte di dientro, e' c'è una gabbia d'oro tutta zeppa gremita di sonagliolini e c'è serrato un uccellino che svolazza e fa la spia: in nella stalla c'è un cavallo con una sonagliera, e anco lui sbatte gli zoccoli, scote il capo e fa la spia. Se nentra un qualche Cristiano in casa, l'Orco lo risà subbito, perché le bestie con lo scampanellio e il diascoleto de' canti, de' nitriti, del dimenìo dell'ale e con lo sbattere delle zampe gli ridicono ugni cosa: e allora l'Orco cerca dappertutto, e per chi trova e' nun c'è scampo. - Tant'è - gli arreplicò il giovane, - morti per morti, apriteci e lassate che si vienga dientro, e accada quel che vol accadere. L'Orchessa, capito che que' due nun se ne volevan ire, e poi bramosa anco di fargli un po' di bene, s'avviò giù per la scala a aprir l'uscio; e in quel mentre che lei si arrangolava a smovere catenacci su catenacci e bracciali e saliscendoli messi lì per assicurare il serrarne, una vecchina tutta grinzosa gli apparse di fori alla Zelinda e al su' sposo, e lesta lesta gli disse: - Pigliate su questo cotone, questi confetti e queste cofacce: quando po' sarete dientro, tappate col cotone tutti i sonagliolini della gabbia e del cavallo, i confetti dategli all'uccellino a beccare, e le cofacce a mangiare al cavallo, e loro staranno cheti: e come l'Orco è a letto e dorme, voi sverti scappate e rubbate la gabbia con l'uccellino assieme, e nel mezzo della selva l'uccellino ammazzatelo e apritegli il capo, ché lui nel capo e' ci ha un ovo, e bisogna quest'ovo romperlo con una pietra, ché rotto l'ovo l'Orco morirà subbito, essendo appunto in quell'ovo l'incantesimo della su' vita. E detto che ebbe accosì la vecchina [ [p. 7 modifica]7] grinzosa sparve come il fumo. Infrattanto la porta della spelonca era stata aperta, e l'Orchessa fece rientrar dientro que' du' smarriti, gli menò in cucina, e diedegli da ristorarsi alla meglio, e poi gli messe nascosti nella ritoia del cavallo e li ricoprì per bene con del fieno e della paglia, e si raccomandò con le mane in croce che se ne stassero zitti senza bucicarsi. Que' du' sciaurati, gufi tra quella paglia, pensavano tra di loro come fare quel che gli aveva detto la vecchina grinzosa, quand'eccoti appare l'Orco; e l'uccellino subbito a cantare e a scotere tutta la gabbia, e il cavallo a nitrire e a smovere la sonagliera con de' salti. L'Orco insospettito da quel diascoleto, cominciò a rizzare il naso, ché lui l'aveva fino dimolto, e fiuta di qua e fiuta di là, barbottava tra le zanne:

Mucci, mucci! Sento puzzo di Cristianucci: O ce n'è, o ce n'è stati. O ce n'è de' rimpiattati.

Poi dice alla su' donna: - Moglie, c'è della carne d'omo, nun è vero? Addove l'ha' tu riposta? L'Orchessa però fece l'indiana: - Ma che! Stasera, mi' omo, tu ha' bevuto più del bisogno, e tu ha' i frazzi nel naso. Va' va' a letto, che 'gli è ora di dormire. L'Orco nun era mica persuaso a questo parlare, e storse il grugno, e stiede lì tra le due d'andarsene a letto o di rifrucolare dappertutto la casa; ma siccome nun si reggeva più in sulle gambe, finì con dire: - Basta, i' sono stracco stasera e nun vo' ora ammattire con delle ricerche. Domani poi i' guarderò in tutti i buchi, e se ci trovo della carne di Cristiano, che bella culizione! E preso il lume, salì nella sua cammera e si ficcò nel letto e doppo pochi mumenti ronfiava tanto forte da sentirlo da un miglio lontano. A male brighe che l'Orco si fu appioppato a quel modo, pian pianino si levorno su dal niscondiglio il figliolo del Re delle Pomarance e la Zelinda, e buttate le cofacce nella ritoia del cavallo e i confetti nella gabbia dell'uccellino, perché loro stasseno zitti, stopporno con il cotone tutti i sonaglioli; e poi, senza pensare a altro, vogliolosi come erano di fuggire, spalancata la porta della spelonca, ma con dimolta fatica, agguantorno la gabbia con l'uccellino, e via a corsa attraverso la selva. Ma [8] [p. 8 modifica]quando la gabbia fu fuori della porta, l'Orco si risvegliò con una gran scossa e si diede a bociare: - Mi rubban la mi' vita! e saltato giù dal letto, si messe a correr dietro a' ladri; e siccome lui aveva le gambe lunghe e sverte, non che bono l'odorato, presto gli arebbe raggiunti: ma loro in nel sentirselo alle costole, tutti impauriti, lassarono lì per le terre la gabbia e badarono soltanto a niscondersi dientro una macchia. L'Orco si accontentò allora di ripigliare la gabbia, che quando l'ebbe tocca gli fece ritornare le forze, e rivienuto alla spelonca ne incatenacciò la porta con gran premuria. In quel mentre che il figliolo del Re delle Pomarance e la Zelinda stevano accoccolati nella macchia e ansimavano per la corsa fatta e erano mezzo sbasiti dalla paura, tutt'a un tratto deccoti che tra il lusco e il brusco riapparisce la vecchina grinzosa, che gli disse: - O mattarelli! o allocchi! L'interesso vostro nun siete stati boni a farlo. Se l'Orco cascava morto, i su' tesori, e n'ha una dovizia, diventavano vostri senza contrasto. Gnamo via! coraggio, e ritornate stasera alla casa dell'Orco e addoperatevi come v'insegnai. Su, svelti! Chi nun risica e' nun rosica. Ma que' due non si sentivano dimolto vogliolosi di rimettersi nel pericolo; la vecchina però gliene disse tante e poi tante, che loro in sulla sera riandorno a picchiare alla porta dell'Orco, e doppo i soliti ragionari e le medesime cirimonie della prima volta, l'Orchessa aprì, gli messe dientro, gli ristorò e poi gli fece niscondere tra la paglia e il fieno nella stalla. Per tornare un passo addietro, bisogna sapere, perché me n'ero scorda, che la vecchina grinzosa questa seconda volta aveva regalato al figliolo del Re delle Pomarance una boccettina, dove ci steva serrata una medicina, che a odorarla chi la teneva nelle mani, l'Orco vieniva a perdere il su' naso. Dunque, quando l'Orco s'accorse che in casa c'era gente, principiò a fiutare e a borbottar tra denti la su' canzone. Dice: - Eh! ora poi, moglie, tu nun me la ficchi. Nun sarò tanto mammalucco. Dammi il lume, ché vo' cercar bene innanzi di buttarmi nel letto. Qui c'è de' Cristiani e, se gli trovo, in du' bocconi me gli pappo. Gira e rigira, l'Orco viense alla stalla; ma il giovanotto lesto annusò forte la boccetta, sicché subbito l'Orco perse la bussola, e, nun iscoprendo nulla, pensò che era meglio [ [p. 9 modifica]9] insaccare nel letto, dove s'addormì come un chioppo. Que' due, quando lo sentirno russare, nusciti dal niscondiglio, presano la gabbia e via a gambe per la selva. Gli corse subbito dietro l'Orco bociando. Ma il giovinotto, cavato l'uccellino fori dalla gabbia, con un sasso gli sfracasciò il cervello, sicché in tra fine fatta l'Orco cascò in terra morto steccolito. Allora la Zelinda e il su' sposo riviensero alla spelonca, e caricato il cavallo dell'Orco con tutto il tesoro, presano poi la strada del Regno delle Pomarance; addove arrivati che furno, il Re gli ricevette con dimolta allegrezza, e visto le ricchezze portate, perdonò al su' figliolo e gli acconsentì che sposasse la Zelinda. Gli sposi tutti contenti camparono poi per degli anni assieme, e successero nella corona alla morte del Re; e lì

Si goderno e se ne stiedano E a me nulla mi diedano.