Sopra le vie del nuovo impero/I figli di Pantelleria
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Come sta risolvendosi il dramma
dei tre popoli. I figli di Pantelleria.
Tunisi, 11 Marzo
Stamani son tornato a far visita al signor Zauche e gli ho domandato in che precisamente consistono le «rivendicazioni» che il «proletariato arabo» chiede per bocca dei suoi primi fratelli «evoluti», i Giovani Tunisini. Questo argomento ha molta importanza per me che studiando gli arabi di Tunisi miro agli arabi di Tripoli.
Il signor Zauche non adopra quelle grosse parole occidentali, «evoluti», «proletariato», «rivendicazioni», e con due parole sole, con ammirabile giustezza, m’ha spacciato il socialismo e me lo ha distinto da ciò che egli e gli amici suoi vogliono per il loro popolo, dicendomi:
— Il socialismo è brutale: pareggiando i meriti distrugge i migliori. Noi non vogliamo far questo. Vogliamo soltanto che la Francia permetta ai nostri di procurarsi i mezzi di vivere, che li aiuti con l’istruzione ad addestrarsi nei lavori moderni che ora sono fatti quasi tutti dagli stranieri e che sopprima certi privilegi.
La vigna, per esempio, mi diceva il signor Zauche, la vigna che è quasi tutta di proprietà francese e un poco anche italiana, non è gravata di nessuna tassa. Anticamente gli arabi pagavano l’achur, la decima sui cereali. Ora chi ara con aratro arabo, paga l’achur, e chi con aratro europeo, paga il decimo della decima: vale a dire, gli arabi pagano 6 lire per ettaro di grano e 3 per ettaro d’orzo, e gli europei 60 centesimi per il grano e 30 per l’orzo. Così l’avena, prodotta quasi interamente dai francesi, non paga nulla. C’è qui in Tunisia il kamessat, una forma di contratto colonico per cui il contadino arabo ha solo il quinto del raccolto. Al giorno d’oggi con sì poco non può vivere e finisce schiavo del padrone con cui si indebita, e da cui, finchè il debito dura, non può distaccarsi. Inoltre, non per legge, ma per una consuetudine che ormai fa legge, gli arabi sono esclusi da certi impieghi pubblici, dalle poste e telegrafi, per esempio, dai lavori pubblici e simili.
I Giovani Tunisini hanno già ottenuto qualcosa: ci sono ora in quattro ufficii postali del sud commessi indigeni; ma si chiede di più: si chiede che le esclusioni in genere siano abolite. Finalmente i Giovani Tunisini chiedono qualche riforma anche per la conferenza consultiva. Questa conferenza è composta di 36 francesi divisi in 3 collegi, 12 agricoltori, 12 commercianti e operai, 12 varii, avvocati, funzionarii e simili, e di 16 arabi. Le due sezioni, l’araba e la francese, si radunano in separate sedi, perchè altrimenti la prima sarebbe esposta a non graditi trattamenti per parte della seconda; e si riuniscono soltanto 3 membri dell’una e 3 membri dell’altra in una sorta di consiglio superiore. E i francesi sono eletti da voto pubblico, mentre gli arabi vengono scelti dal governo. Ora i Giovani Tunisini vorrebbero che anche gli arabi fossero eletti dal popolo arabo.
Queste ed altre riforme simili chieste dagli arabi non possono non essere bene accolte da una democrazia occidentale in genere, dalla democrazia francese in ispecie. Si ripensi anche al rammollimento umanitario di cui sono infette in Europa le classi colte e in Francia i professori di socialismo sul tipo del Jaurès, e parrà ovvio prognosticare per le sopraddette riforme un buon successo. Del resto, sollevare un popolo, anche il popolo arabo, dalla sua miseria risponde ai sentimenti d’ogni uomo generoso ed agli scopi d’ogni sana dottrina politica moderna, e noi potremo e dovremo tentare in Tripolitania la stessa cosa che qui a Tunisi si vuol tentare.
Ma non per questo soltanto la causa dei Giovani Tunisini è destinata, come dissi nella lettera precedente, a trionfare, sibbene per molto di più. È destinata a trionfare, perchè tra i due «associati» nella politica d’associazione, l’indigeno e il francese dominatore, chi meno può far di meno di quella politica non è il primo, è il secondo.
Ed ecco il punto debole della Francia a Tunisi: non è affatto nel promuovere la politica d’associazione, nell’essere arabofila e nel fare le riforme; ma è nell’avere essa, per se stessa, bisogno di essere arabofila, di fare le riforme e la politica d’associazione; nell’avere essa, dominatrice, bisogno del suo dominato.
Sin dall’anno scorso era noto che la Francia aveva iniziato una politica araba nella sua vecchia colonia di Tunisi per conciliarsi gli arabi della nuova colonia che voleva aggiungersi, il Marocco. Ma a chi bene osserva, appare manifesto che l’arabofilia francese non nasce dalle opportunità transitorie del Marocco, sibbene dalle necessità immanenti di tutto l’impero africano francese. Non è una politica che la Francia si sceglie per una certa azione su un certo punto del suo impero in un certo momento; è l’imposizione del destino su tutto quanto il suo impero, per le condizioni stesse di questo impero. E le condizioni sono una sola, la medesima, immutabile, insanabile e tante volte mostrata: che nemmeno il possedere numerose colonie risolve la Francia a fare numerosi figliuoli.
La Francia incomincia a pagare il fio del suo volere un impero troppo grande con una popolazione troppo piccola, al contrario di noi che sin qui c’eravamo ostinati a restare in una patria troppo piccola con una popolazione troppo grande. La possibilità di popolamento che i francesi avevano, fu quasi giusta alla conquista d’Algeri; ma era già inferiore all’occorrente, alla conquista di Tunisi, tanto è vero che questa terra fu occupata da loro, ma popolata da un altro popolo che ne fu escluso, l’italiano; ora poi alla conquista del Marocco quella possibilità vien come diluita, sempre più scarsa, in una estensione sempre più vasta. Gli imperi si formano dalle nazioni con potenza generativa esuberante: allora quelle nazioni a larghe figliolanze escono dai loro confini e invadendo i territorii di popoli inferiori tendono a eliminare questi indigeni che non possono resistere loro nè per numero, nè per grado di civiltà. Ma la Francia è nella condizione opposta: non può eliminare gli indigeni, sibbene ne ha bisogno. Stabilire ciò e trarne la conseguenza che l’indigeno dominato prenderà la mano al dominatore, è tutt’uno.
Premessi tali schiarimenti, si capisce meglio ora che cosa è l’opposizione dei coloni franco-tunisini alla politica officiale d’associazione franco-araba; che cosa è questa politica d’associazione e che cosa sono i Giovani Tunisini.
I coloni parlano nel nome d’un egoismo, non possiamo dire di classe, non possiamo dire di casta, non possiamo dire di stirpe o nazionale; nel nome d’un nuovo egoismo, l’egoismo coloniale. Parlano nel nome dell’egoismo di tutti i francesi trapiantati in Tunisia, soprattutto dei più a fondo trapiantati, dei possessori di terre, e che non vedono, nè possono vedere più in là dei confini della Tunisia. È un egoismo angusto che non vede più in là dell’utile individuale, o al massimo della Tunisia. Nei loro fogli i coloni, combattendo contro la politica arabofila, sotto le loro parole di protesta francese celano la loro protesta di coloni franco-tunisini che da quella politica si sentono minacciati nel loro utile coloniale.
«La rivolta del Djellas, scriveva ieri il Colon Français, nella quale soldati francesi furono colpiti, sangue francese fu sparso, non è stata ancora seriamente repressa. Anzi, incoraggiati dall’impunità, i Giovani Tunisini si preparano apertamente a peggio. Il primo Marzo, alla borsa del lavoro, il dottor Cattan lesse una dichiarazione indirizzata da agitatori musulmani al direttore della compagnia dei tranvai, e in cui fra le altre cose era scritto: — Abbiamo incominciato dai tranvai, perchè su questa sola amministrazione possiamo avere per ora un’azione diretta, immediata e visibile, Ma abbiamo incominciato da voi e continueremo contro gli altri! — Ecco il vero programma dei Giovani Tunisini: il boicottaggio dei francesi! E mentre i capi della Giovane Tunisia svelano così il loro disegno d’attacco, i loro satelliti percorrono le campagne ed eccitano gli indigeni contro i coloni. E ci vien riferito che si va predicando ai contadini di non lavorar più presso i coloni per meno di 3 o 4 lire al giorno, perchè, si dice loro, un uomo ne vale un altro, nè vi è ragione al mondo perchè un operaio indigeno sia pagato meno di un operaio europeo.»
Ma i coloni non prevarranno, perchè sostengono una cosa debole contro una cosa forte: la politica della sola colonia di Tunisi contro la politica generale di cui la Francia ha estrema necessità per tutto il suo impero d’Affrica.
È questa la tante volte nominata politica d’associazione. Forte a schiacciare gli interessi particolari di Tunisi, rappresenta la debolezza della Francia dinanzi alla totalità del suo impero. Povera di popolo in patria, la Francia cerca popolo nel suo impero presso gli indigeni.
I Giovani Tunisini sono gli avvocati degli indigeni della Tunisia e gli alleati della politica di Parigi e di monsieur Alapetite; domani possono essere gli arbitri di Tunisi, e per un avvenire più o meno lontano, o più o meno prossimo, possono essere il lievito d’un sollevamento di tutto quanto l’islamismo dell’Affrica francese contro la dominazione francese. L’arabo non si assimila; la Francia, dal Marocco a Tunisi, non ha un popolo proprio per sopraffare l’arabo, per confonderlo con sè e così in certo qual modo eliminarlo; e quando gli arabi si faranno minacciosi, la Francia non avrà nè un popolo proprio, nè un popolo misto per far loro argine.
Ma la terza dramatis persona, quella che ora appare in peggior condizione, presa e percossa tra gli altri due, l’indigeno e il dominatore; la terza dramatis persona, l’emigrante italiano, risolverà a suo vantaggio il dramma liberandosi degli altri due e andandosene.
Ho fatto gli scorsi giorni un breve viaggio lungo la costa tunisina orientale che precipita giù nella Piccola Sirte per poi andare verso la nostra Tripoli. Visitai Bu Ficha, Reyville nell’Enfida, fertilissima terra, quasi tutta messa in coltura dal lavoro italiano; visitai Bu Arkoub, una conca verde di grano e d’orzo tra leggiere colline, e poi risalendo su fui a Nabeul circondata di giardini d’aranci e di campi d’ulivi, e alla Kelibia che biancheggia sotto il Capo Bon. Tutta questa regione, e specialmente l’Enfida, è ripiena d’italiani, e non d’italiani di tutta la nostra Italia, e nemmeno della grande isola vicina, ma d’una sola isoletta più vicina ancora, di Pantelleria. La costa orientale della Tunisia è quest’altra sponda della piccolissima Pantelleria. L’isoletta prolificò e le sue generazioni una dopo l’altra passarono in barca il breve mare e prolificarono ancora sulla nuova terra promessa. Ed ora Reyville è un paese tutto d’italiani, e vi fa meraviglia di trovare che hanno quasi tutti gli stessi tre o quattro casati: furono poche famiglie capostipiti che si moltiplicarono. Vi abita una sola famiglia francese, quella del maestro elementare. Bu Ficha ha una popolazione metà araba e metà italiana con cinque o sei francesi soltanto, impiegati del governo. Poichè la piccola Pantelleria fa per una zolla di terra che trova, ciò che la grande Francia troppo ricca, troppo bisognosa di benessere, troppo carica della sua civiltà estrema e della sua corruzione, non farebbe ormai più nemmeno per l’eredità dei cinque continenti: prolifica nella sincerità della vita primitiva.
Vidi quei rozzi pantellereschi in mezzo alle loro vigne nuove, per le pianure che scendono sul paradisiaco golfo di Hammamet su cui già splendeva la primavera. C’era fra terra e cielo una novità che si respirava e si vedeva; c’erano l’aria e la luce e la gioia, la felicità e la fecondità d’una nuova terra promessa conquistata allora allora. Conobbi molti di quei pantellereschi irsuti e quasi negri che una volta nell’isola natia, o essi medesimi, o i loro padri, o i padri de’ padri, eran gente di mare e poi avevano emigrato e s’eran convertiti in industriosi trasformatori di terre e in costruttori di prosperi villaggi. Ne conobbi uno, già uomo di vela e di remo, approdato 25 anni fa alla spiaggia deserta dove ora sorge Reyville, con un suo fratello, nella sua barca paterna. I due giovani giunti al tramonto trassero la barca in secco, vi dormiron dentro la notte, e il giorno dopo adocchiarono alcuni ettari di terreno e li comprarono, forse da quella stessa Società Franco-Affricana, se c’era allora, che in quella regione rappresenta soltanto la conquista del denaro dinanzi agli italiani che rappresentano la conquista del lavoro e della specie. Ora i due fratelli posseggono diecine e diecine d’ettari floridi di vigne. Un altro pantelleresco possiede 1200 ettari, e giunse nell’Enfida con 120 lire soltanto, 25 anni fa, fece il panattiere e non essendo affatto muratore, da se stesso si costruì la sua prima casa.
Ma questi italiani si ricordano dell’isoletta natìa e anche acquistarono l’amore della nostra Italia, a mano a mano che i loro animi si trasformarono e si aprirono col lavoro e nel benessere. E ne vidi tanti tanti intorno me, di quelli emigranti nostri di Bu Ficha, di Reyville, di Nabeul, della Kelibia, come della stessa Tunisi, come d’ogni altra parte dove fui; li vidi stringersi intorno a me che sapevano essere già stato a Tripoli e in procinto di ritornarvi. E interrogarmi con la stessa ansia che avevo già vista in Italia, e con un’altra espressione ancora che in Italia non avevo vista; con un’espressione che mi colmò di contento, appena me ne accorsi; con l’espressione d’un desiderio che mordeva i loro cuori, di lasciare la terra di emigrazione e di rimpatriare in quella parte, nella parte della nostra Tripoli.
Molti di loro non potranno farlo, vincolati dal possesso del suolo tunisino; ma la emigrazione italiana già rimpatria in quella parte.
Come quest’anno ho visitato le pianure sul mare orientale, fui l’anno scorso verso occidente alle montagne del Kef dove sono le miniere che scendono poi giù sino a Gafsa lungo la frontiera algerina. La Tunisia, se mi si passi l’espressione, respira con questi due polmoni, l’uno disteso sulla spiaggia nord-est, dove sono le pianure assolate di cui ho parlato, e l’altro nel profondo delle montagne occidentali dove sono le miniere. Con le miniere e le belle pianure fertili la Tunisia fa la sua vita e la sua ricchezza. Già ho parlato dell’Enfida italiana. E nelle miniere lavorano 50 mila minatori, dei quali 20 mila italiani e 20 mila arabi della Tripolitania. Un grande minatore italiano da me celebrato l’anno scorso, G. B. Dessi, mi diceva iersera a Tunisi con l’accento sicuro del condottiere:
— Io passerò in Tripolitania dove esistono miniere e si sa dove. Tutti i miei italiani e tutti i miei tripolini di Sidi Amor, Ben Salem, Slata Fer, Salsalà, son pronti a seguirmi come un uomo solo.