Sotto il velame/Le rovine e il gran veglio/V

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Le rovine e il gran veglio - V

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V.


L’Acheronte è, dunque, la morte direttamente derivata dal peccato originale; e questa morte, quando si consideri il peccato in sè, senza mistura del peccato attuale, si riduce a “difficoltà„ e a “ignoranza„ totali e, diremo, originali. L’uomo vivo che entra dalla porta, e dal vestibolo, passando l’Acheronte, scende nel limbo, muore a questa morte; mortifica sì la “difficoltà„ e sì la “ignoranza„ originali. In vero Virgilio, sull’entrare dice:1 [p. 209 modifica]

               Qui si convien lasciare ogni sospetto:
               ogni viltà convien che qui sia morta.

La “viltà„ che rivolve co’ sospetti che desta, da imprese orrevoli, come falso vedere bestia ombrosa, e la traduzione della difficultas di S. Agostino. Guardando e passando, Dante continua in quest’opera di mortificazione. Nel limbo continuerà a mortificare ciò a cui è morto nel passo, o forse a seppellire ciò che nel passo ha mortificato. E questo è l’ignoranza: quella che nasconde la via della fede, secondo il detto su riportato. E sì. Egli si rivolge al maestro:2

               Dimmi, maestro mio, dimmi, signore,
               comincia’io, per voler esser certo
               di quella fede che vince ogni errore,
               
               uscicci mai alcuno...?

Il perchè dell’inchiesta, d’un cristiano a un pagano, il perchè, dico, assegnato da Dante stesso, sarebbe pure un gramo perchè! Ma Dante vuol solo far comprendere ai suoi lettori ch’egli mortifica o seppellisce l’ignoranza di cui è figlio l’errore: l’ignoranza “originale„, come io la chiamo più su.

La viltà dunque o difficoltà, e l’ignoranza originali. Ma queste chiudono in sè, virtualmente, tutti i peccati, poichè da esse gli uomini a tutti i peccati sono disposti e condotti. Onde, come Acheronte, spicciato dalla fessura, cioè dalla “colpa umana„, continuando il suo corso, diventa Stige e Flegetonte e Cocito; così tutto l’inferno è, in potenza, nel vestibolo e nel limbo, e tutto il cammino, di Dante fuor [p. 210 modifica]della selva, è virtualmente nella selva stessa, e tutto il tempo passato da Dante dopo quella notte, è, virtualmente, in quella notte medesima. Il che significa il poeta con sue potenti abbreviazioni, fatte apposta per mettere fuori di via l’interprete. In vero la selva è “aspra e forte„.3 “Aspra e forte„4 è la via tutta dall’inferno al purgatorio. Una notte è il tempo passato nella selva: dalla profonda notte sono usciti, Virgilio e Dante, quando sono sulla spiaggia del purgatorio,5 e per la profonda notte6 Dante afferma di essere stato condotto da Virgilio.

E quella notte nella selva fu con “pièta„7 e la guerra che Dante presentiva d’avere a sostenere nell’altro viaggio, era “sì del cammino e sì della pietate„.8 Da ciò l’importanza grande che hanno le disperate strida di quelli del vestibolo e la pietà che Dante prova nel limbo. Virgilio si dipinge di pietà per l’angoscia, Dante è preso da gran duolo al cuore.9 In quelle strida disperate e in questo gran duolo è involta tutta la disperazione e tutto il dolore della perdizione del genere umano causata dalla “umana colpa„. Chè ella procacciò agli uomini tale una infermità, cui nemmeno la redenzione in molti, o nei più, toglie, e tale un’ignoranza, per la quale nemmeno la innocenza dei parvoli e la sapienza e virtù degli spiriti magni può meritare salute: una difficoltà e un’ignoranza che prima e dopo la Redenzione furono causa di ogni reità e di ogni cecità, ma che, prima di quella, pareggiavano ogni cecità e ogni [p. 211 modifica]reità; sì che l’ultimo dei rei di malizia, con l’intelletto nero, con la volontà rossa, con l’appetito bianco e giallo, inordinato, insomma, in tutte le potenze dell’anima, non era più reo d’uno spirito magno e d’un parvolo innocente.

La porta dell’inferno era chiusa su tutti, e i piovuti del cielo dominavano oltre Acheronte e nel vestibolo medesimo. Ma il Redentore scrollò col suo ultimo anelito tutto l’inferno e, morto al peccato cioè alla carne, sconquassò la porta, e passò l’Acheronte. D’allora in poi tutti i viventi, che vogliano morire alla morte, possono far quello ch’esso fece: entrar da quella porta e passar l’Acheronte. Ma poichè quell’entrare e quel passare significano morire alla difficoltà o viltà e all’ignoranza originali, e in esse sono incluse tutte le deformità conseguenti al primo peccato, così ogni vivente (s’induce dall’esempio di Dante) può, volendo, prender via per le altre rovine, che sono effetto, come la rottura della porta, della Redenzione medesima, e passar gli altri fiumi che sono la continuazione dell’Acheronte, che sono l’Acheronte con altri nomi. Onde solo dei passatori dell’inferno Caron non lo tragitterà, perchè egli è il barcaiuolo, per così dire, del peccato originale, ossia della seconda morte in genere; e non può egli tragittare chi a questa seconda morte muore, invece di morirne. Gli altri sì, lo tragitteranno, perchè egli il fiume l’ha già passato virtualmente, e non valgono, quindi, contrasti più e dinieghi, quando si sappia ch’egli non lo passò morendo della seconda morte, come l’avrebbe passato se l’avesse tragittato Caron, ma morendo alla seconda morte, come lo passò il Cristo, cioè rinascendo e vivendo. [p. 212 modifica]

Dante dunque passerà i tre fiumi, trasportato dai loro passatori, i quali non si possono diniegare a un morto alla seconda morte. Ora questa seconda morte si assomma nella difficoltà e ignoranza originali; ma questa difficoltà e ignoranza si specificano in concupiscenza, infermità, malizia, ignoranza (in senso speciale e derivato). Passando i fiumi che rappresentano queste vulnera naturae, Dante muore a esse, come passando l’Acheronte muore alla vulneratio primitiva. Ora là egli muore alla vulneratio originale, per dir così e sebbene paia risibile detto, in due tempi. La sua viltà o infermità o difficoltà muore nel vestibolo, sull’entrare dalla porta disserrata; egli riacquista la discrezione o prudenza, ossia muore alla ignoranza, passando l’Acheronte. Succede così anche nel rimanente del suo viaggio?