Sotto il velame/Le tre fiere/V

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Le tre fiere - V

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Le tre fiere - IV Le tre fiere - VI

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V.


L’antica strega è l’incontinenza potenzialmente ed effettualmente. Quale incontinenza? Chè ella è di due specie: di concupiscibile e d’irascibile. E bene Dante così la distingue nel Convivio e nella Comedia.

Nel Convivio1 dice: “Questo appetito, che irascibile e concupiscibile si chiama, quanto ch’esso sia nobile, alla ragione ubbidire conviene, la quale guida quello con freno e con isproni; come buono cavaliere lo freno usa, quando elli caccia; e chiamasi quello freno temperanza, la quale mostra lo termine infino al quale è da cacciare; lo sprone usa, quando fugge per lo tornare al loco onde fuggir vuole; e questo sprone si chiama fortezza, ovvero magnanimità, la qual vertute mostra lo loco ove è da fermarsi e da pungere (meglio pungare)„. Ed esempla l’uso del freno e dello sprone con lo eroe dell’Eneide, il quale si partì da Didone; e questo è l’uso del freno; ed entro nell’inferno, e questo è l’uso dello sprone. Altrove,2 della fortezza dice che è “arme e freno a moderare l’audacia e la timidità nostra nelle cose che sono corruzione della nostra vita„. E della temperanza, ch’ella “è regola e freno della nostra golosità e della nostra soperchievole astinenza nelle cose che conservano la nostra vita„. Insomma egli, seguendo Aristotele, afferma come ogni virtù sia "un abito elettivo consistente nel mezzo". Nella Comedia non pare che pensi di tutte le virtù a questo modo; chè, se così avesse pensato, anche nel cerchio [p. 131 modifica]della lussuria e della gola avrebbe messo, oltre quelli che trasmodano per il troppo, anche quelli che trasmodano per il poco: “per la soperchievole astinenza„. Egli, nella Comedia, dà a divedere che nella lussuria e nella gola l’astinenza non è mai soperchievole. Se pure questa astinenza egli non vede che porti ad altre reità, le quali siano punite altrove; poniamo, in quanto alla gola, nel cerchio degli avari; in quanto alla lussuria, nel girone ove è Brunetto. A ogni modo, l’astinenza per sè e in sè non condanna, se non nell’avarizia e nel peccato della palude stigia. Nel quarto cerchio si peccò, pare, intorno a liberalità3 “la quale è moderatrice del nostro dare e del nostro ricevere le cose temporali„. In verità vi è punito il mal dare e il mal tenere; e l’ontoso metro dei dannati è: Perchè tieni? e, Perchè burli?4 Gli uni e gli altri non ebbero freno; cioè temperanza: gli uni a tenere, gli altri a spendere. E così conferma Stazio5 il quale dice ch’egli comprese, da un verso dell’Eneide, che l’appetito doveva essere retto, cioè governato e frenato, tanto nello spendere, quanto nel tenere: non ci dovevano essere nè pugni chiusi nè mani che aprano l’ali.

Ora se l’incontinenza è duplice, Dante la punì nell’inferno nelle sue due specie? Sì: chiaramente. Egli definisce l’incontinenza d’irascibile, quando nel Convivio parla della fortezza, dicendo ch’ella è “arme e freno a moderare l’audacia e la timidità nostra„. L’audacia e la timidità sono subbiettivamente nell’irascibile.6 Ora s’intende facilmente [p. 132 modifica]come nella palude stigia siano puniti quelli che non moderarono la timidità loro. Già il timore è tristizia;7 e i fitti nel fango furono e sono tristi; e poi nel fango hanno a stare, come porci in brago, certuni ch’or sono “lassù gran regi„.8 E questi, per tagliar corto, sono certamente tali che non ebbero la virtù più propria dei re, la magnanimità, cioè la fortezza; ed ebbero invece “la viltate„ quale, ad esempio, quella9 “di quel che guarda l’isola del foco„. La loro incontinenza, dunque, è punita; perchè incontinenza è, secondo Virgilio: incontinenza, dunque, d’irascibile. Nell’inferno, possiamo già dirlo, si puniscono le due specie d’incontinenza.

E Dante espressamente lo dice. Egli, udita la lezione di Virgilio intorno alla malizia, mostra di meravigliarsi10, come, se ogni malizia è punita entro il baratro, siano anche puniti

                              quei della palude pingue,
               che mena il vento, che batte la pioggia
               e che s’incontran con sì aspre lingue.

Osservisi questo novero. Se Dante voleva l’ordine inverso dei peccatori come furono veduti da lui, avrebbe mentovato, dopo quelli della palude, quelli che si sgridano, e poi quelli sotto la pioggia, e infine quelli in balìa del vento; se voleva l’ordine diretto, avrebbe prima domandato di questi ultimi, e via via degli altri; mentre così non pare abbia tenuto alcun ordine. E invece si vede che il poeta divide in due [p. 133 modifica]specie il genere incontinenza; e ricorda prima quella che vide ultima, e seconda quella che vide prima, e questa suddivide nelle sue tre sotto specie, secondo la loro serie: lussuria, gola, avarizia con prodigalità. Ed egli invero definisce le due grandi specie. Primi, di tutti gl’incontinenti, vede i lussuriosi. Egli intende che quelli sono11

                                     i peccator carnali
               che la ragion sommettono al talento.

Nel Convivio dice che l’appetito “alla ragione ubbidire conviene„. Il talento che qui, invece di essere sommesso, sta sopra la ragione, è quel medesimo appetito. Nella palude pingue Virgilio prima mostra a Dante12

               l’anime di color cui vinse l’ira.

Nel Convivio dice che l’appetito “che irascibile e concupiscibile si chiama„ deve essere guidato dalla ragione, come cavallo. L’ira che qui vince invece d’essere vinta, è quel medesimo appetito. Ed è chiaro che le due definizioni si compiono a vicenda, secondo lo stile di Dante, prestandosi l’una all’altra qualche cosa; tanto che intendiamo che i peccatori carnali sommisero la ragione al talento concupiscibile, perchè da lui vinta; e che in quelli altri il talento irascibile vinse la ragione e la sommise. E così Dante con la virtù di quella simmetria, che è tanta parte del suo stile, ha, definendo solo i primi della prima specie e i primi della seconda, definito tutto ciò che è in mezzo a loro e sotto loro.

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Le due definizioni, monche e imperfette tutte e due di per sè, si compiono a vicenda, ed hanno il suggello, per così dire, nella conclusiva dichiarazione di Virgilio: che la disposizione che il ciel non vuole, di quei quattro ordini di peccatori, è incontinenza. E questa è la definizione Aristotelica, la quale non toglie che delle sottospecie non si dia poi la denominazione, dirò così, teologica o cristiana. Ma si dà come per incidente, a mezzo un discorso, senza parere: “a vizio di lussuria„ “lussuriosa„ “per la dannosa colpa della gola„ “in cui usa avarizia il suo soperchio„ “portando dentro accidioso fummo„.13 E qui osserviamo che nei due cerchi, in cui sono punite le due colpe contrarie, la denominazione cristiana della reità è unica: avarizia, accidia. È un caso? Il fatto è che Stazio, prodigo, non dice o non sa dire il proprio nome della sua colpa. Egli dice:14

               or sappi ch’avarizia fu partita
               troppo da me, e questa dismisura...

La colpa che rimbecca il peccato a cui è opposta, è bensì spiegata, ma non denominata. Anzi dalle parole di Stazio noi possiamo figurarci che le due colpe si chiamino, troppa avarizia o troppo poca avarizia. E così per la palude stigia potremmo imaginare, troppa accidia o troppo poca accidia. Già: l’accidia ha per segni l’esser fitti nel fango, il gorgogliare con parole mozze, l’essere depressi e vinti dal timore. Il troppo poco d’essa sarà il muoversi il vociferare rapido e forte, l’agitarsi continuamente, [p. 135 modifica]l’essere prosuntuosi e audaci. Or poichè costoro non hanno commesso ingiuria, perchè non sono rei di malizia, di cui ingiuria è il fine, e per ciò non sono entro Dite; ecco ch’essi ci appaiono blateroni, spacconi, anfanoni. E quelli tristi, e questi irascibili. E pure accidiosi; chè accidia è quella di questi fangosi, come avarizia è quella di quelli altri immondi: accidia e avarizia, sì quando usa in loro il suo soperchio, e sì quando è troppo partita da loro.

Tornando alla femmina balba che è incontinenza e accidia, dirò dunque più precisamente ch’ella è incontinenza d’irascibile, cioè accidia, che diventa, diventando sirena, incontinenza di concupiscibile, cioè lussuria e gola e avarizia; e poi da incontinenza di concupiscibile ridiventa incontinenza d’irascibile, con non lungo avvicendare, finchè imputridisce. E così, nelle figurazioni dell’inferno, la lonza è incontinenza di concupiscibile, perchè ella è leggera e presta e di bel colore; ma è ancora, potenzialmente, incontinenza d’irascibile, in quanto contro lei è farmaco e cagione di sperare

               l’ora del tempo e la dolce stagione.

Ora questo concetto dell’incontinenza di concupiscibile che termina a incontinenza d’irascibile, non è un trovato di Dante. Egli significa e dipinge e scolpisce, anzi fa viva e palpitante la conseguenza di quel principio filosofico, che “le passioni dell’irascibile sì hanno principio dalle passioni del concupiscibile, e sì in esse passioni del concupiscibile hanno termine„.15

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E se ne conclude che molto probabilmente la lonza Dantesca è la pantera de’ bestiarii,16 la quale col dolce suo fiato assonna gli animali, che la seguono sino alla morte. Mortale è quel sonno. E dicevano ancora ch’ella di primavera, quando spunta il sole, si rintana. Sicchè contro la fiera odorifera è rimedio convenevole, nel senso proprio (data la zoologia dei tempi), “l’ora del tempo e la dolce stagione„, e, nel senso filosofico, l’attività, significata nel camminare, e la contemplazione delle cose di Dio; non senza aggiungere che un bel mattino sereno è contrario all’ozio e al sonno.

Note

  1. Conv. IV 26.
  2. ib. 17.
  3. Conv. IV 17
  4. Inf. VII 25 segg.
  5. Purg. XXII 49 seg.
  6. Vedi Summa 1a 59, 1 e passim; 1a 2ae 25, 1 e passim.
  7. Summa 1, 2a 41, 2.
  8. Inf. VIII 49.
  9. Par. XIX 130. Per questo rimando alla Minerva Oscura. E anche qui se ne riparla.
  10. Inf. XI 67 segg.
  11. Inf. V 38 seg.
  12. Inf. VII 116.
  13. Inf. V 55, 63; VI 53; VII 48, 123.
  14. Purg. XXII 34.
  15. Summa 1a 2ae 25, 1; 41, 2.
  16. Vedi lo studio già citato del Capelli, p. 15.