Storia d'Italia/Libro X/Capitolo VIII
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VIII
Interrotte del tutto le pratiche della pace, furno i primi pensieri del re che, come la Palissa, il quale [avea] lasciati in Verona tremila fanti per mitigare Cesare sdegnato della partita sua, avesse ricondotto il resto delle [genti] nel ducato di Milano, che soldati nuovi fanti e raccolto insieme tutto l’esercito si assaltasse la Romagna; sperando, innanzi che gli spagnuoli vi si fussero approssimati, occuparla o in tutto o in parte, e dipoi o procedere piú oltre secondo l’occasioni o sostenere la guerra nel territorio d’altri insino alla primavera: al qual tempo, passando in Italia personalmente con tutte le forze del suo regno, sperava dovere essere per tutto superiore agli inimici. Le quali cose mentre che disegna, procedendo piú lente le deliberazioni che per avventura non comportavano l’occasioni, e ritraendo il re da molti provedimenti e specialmente da soldare di nuovo fanti l’essere per natura alienissimo dallo spendere, sopravenne sospetto che i svizzeri non si movessino. Della quale nazione perché sparsamente in molti luoghi si è fatta menzione, pare molto a proposito e quasi necessario particolarmente trattarne.
Sono i svizzeri quegli medesimi che dagli antichi si chiamavano elvezi, generazione che abita nelle montagne piú alte [di Giura, dette di San Claudio, in quelle di Briga e di San Gottardo], uomini per natura feroci, rusticani, e per la sterilitá del paese piú tosto pastori che agricultori. Furono giá dominati da’ duchi di Austria; da’ quali ribellatisi, giá è grandissimo tempo, si reggono per loro medesimi, non facendo segno alcuno di ricognizione né agli imperadori né ad altri príncipi. Sono divisi in tredici popolazioni: essi le chiamano cantoni; ciascuno di questi si regge con magistrati, leggi e ordini propri. Fanno ogni anno, o piú spesso secondo che accade di bisogno, consulta delle cose universali; congregandosi nel luogo il quale, ora uno ora altro, eleggono i deputati da ciascuno cantone: chiamano, secondo l’uso di Germania, queste congregazioni diete; nelle quali si delibera sopra le guerre le paci le confederazioni, sopra le dimande di chi fa instanza che gli sia conceduto, per decreto publico, soldati o permesso a’ volontari di andarvi; e sopra le cose attenenti allo interesse di tutti. Quando per publico decreto concedono soldati, eleggono i cantoni medesimi tra loro uno capitano generale di tutti, al quale con le insegne e in nome publico si dá la bandiera. Ha fatto grande il nome di questa gente, tanto orrida e inculta, l’unione e la gloria dell’armi, con le quali, per la ferocia naturale e per la disciplina dell’ordinanze, non solamente hanno sempre valorosamente difeso il paese loro ma esercitato fuori del paese la milizia con somma laude: la quale sarebbe stata senza comparazione maggiore se l’avessino esercitata per lo imperio proprio e non agli stipendi e per propagare lo imperio di altri, e se piú generosi fini avessino avuto innanzi agli occhi, a’ tempi nostri, che lo studio della pecunia; dall’amore della quale corrotti hanno perduta l’occasione di essere formidabili a tutta Italia, perché non uscendo del paese se non come soldati mercenari non hanno riportato frutto publico delle vittorie, assuefattisi, per la cupiditá del guadagno, a essere negli eserciti, con taglie ingorde e con nuove dimande, quasi intollerabili, e oltre a questo, nel conversare e nell’ubbidire a chi gli paga, molto fastidiosi e contumaci. In casa, i principali non si astengono da ricevere doni e pensioni da’ príncipi per favorire e seguitare nelle consulte le parti loro: per il che, riferendosi le cose publiche all’utilitá private e fattisi vendibili e corruttibili, sono tra loro medesimi sottentrate le discordie; donde, cominciandosi a non essere seguitato da tutti quel che nelle diete approvava la maggiore parte dei cantoni, sono ultimatamente, pochi anni innanzi a questo tempo, venuti tra loro medesimi a manifesta guerra, con somma diminuzione dell’autoritá che avevano per tutto. Piú basse di queste sono alcune terre e villaggi chiamati vallesi perché abitano nelle valli, inferiori molto di numero, di autoritá publica e di virtú, perché a giudicio di tutti non sono feroci come i svizzeri. E un’altra generazione piú bassa di queste due, chiamonsi grigioni, che si reggono per tre cantoni, e però detti signori delle tre leghe: la terra principale del paese si dice Coira; sono spesso confederati de’ svizzeri, e con loro insieme vanno alla guerra e si reggono quasi co’ medesimi ordini e costumi; anteposti nell’armi a’ vallesi ma non eguali a’ svizzeri né di numero né di virtú.
I svizzeri adunque, in questo tempo non degenerati ancora tanto né corrotti come poi sono stati, essendo stimolati dal pontefice, si preparavano per scendere nel ducato di Milano; dissimulando che questo movimento procedesse dalla universitá de’ cantoni, ma dando voce ne fussino autori il cantone di Svit e quello di Friborgo, il primo perché si querelava che uno suo corriere passando per lo stato di Milano era stato ammazzato da’ soldati franzesi, questo perché pretendeva avere ricevuto ingiurie particolari. I consigli de’ quali e publicamente di tutta la nazione benché prima fussino pervenuti all’orecchie del re non l’aveano però mosso a convenire con loro, come i suoi assiduamente lo confortavano e come gli amici che aveva tra loro gli davano speranza potersi ottenere; ritenendolo la solita difficoltá di non accrescere ventimila franchi (sono questi poco piú o meno di diecimila ducati) alle pensioni antiche, e cosí ricusando per minimo prezzo quella amicizia che poi molte volte con tesoro inestimabile arebbe comperata; persuadendosi che o non si moverebbono o che, movendosi potrebbono poco nuocergli, perché soliti a esercitare la milizia a piede non avevano cavalli, e perché non avevano artiglierie: essere oltre a questo in quella stagione (giá era entrato il mese di novembre) i fiumi grossi, mancare a essi i ponti e le navi, le vettovaglie del ducato di Milano ridotte per comandamento di Gastone di Fois ne’ luoghi forti, bene custodite le terre vicine, e potersi opporre loro alla pianura le genti d’arme; per i quali impedimenti essere necessario che, movendosi, fussino necessitati in ispazio di pochi dí a ritornarsene. E nondimeno i svizzeri, non gli spaventando queste difficoltá, erano cominciati a scendere a Varese, nel qual luogo continuamente augumentavano; avendo seco sette pezzi d’artiglieria da campagna e molti archibusi portati da’ cavalli, e medesimamente non al tutto senza apparecchio di vettovaglie. La venuta de’ quali faceva molto piú timorosa che, essendo i soldati franzesi divenuti piú licenziosi che ’l solito, cominciava a essere a’ popoli non mediocremente grave lo imperio loro; perché il re, astretto dalla avarizia, non aveva consentito che si facesse provedimento di fanti; né le genti d’arme che allora erano in Italia, secondo il numero vero, mille trecento lancie e dugento gentiluomini, potevano tutte opporsi a’ svizzeri, essendone una parte alla guardia di Verona e di Brescia, e avendo Fois mandato di nuovo a Bologna dugento lancie, per la venuta del cardinale de’ Medici e di Marcantonio Colonna a Faenza: ove, se bene non avessino fanti pagati, nondimeno per le divisioni della cittá, e perché in quelli dí il castellano della rocca di Sassiglione, castello della montagna di Bologna, l’aveva spontaneamente dato al legato, era paruto necessario mandarvi questo presidio. Da Varese mandorno i svizzeri per uno trombetto a diffidare il luogotenente regio: il quale avendo seco poca gente d’arme, perché non aveva avuto tempo a raccorle, né piú che dumila fanti, né si risolvendo ancora per non dispiacere al re a soldarne di nuovo, era venuto ad Assaron, terra distante tredici miglia da Milano, non con intenzione di combattere ma di andargli costeggiando per impedire loro le vettovaglie; nella qual cosa solo rimaneva la speranza del ritenergli, non essendo tra Varese e Milano né fiumi difficili a passare né terre atte a essere difese. Da Varese vennono i svizzeri a Galera, essendo giá augumentati insino al numero di diecimila; e Gastone, il quale seguitava Gianiacopo da Triulzi, si pose a Lignano distante quattro miglia da Galera: dalle quali cose impauriti i milanesi soldavano fanti a spese proprie per guardia della cittá, e Teodoro da Triulzi faceva fortificare i bastioni e, come se l’esercito avesse a ritirarsi in Milano, fare le spianate dalla parte di dentro, intorno a’ ripari che cingono i borghi, perché i cavalli potessino adoperarsi. Presentossi nondimeno Gastone di Fois, con cui erano cinquecento lancie e dugento gentiluomini del re e con molta artiglieria, innanzi alla terra di Galera; all’apparire de’ quali i svizzeri uscirono ordinati in battaglia: nondimeno, non volendo insino non erano maggiore numero combattere in luogo aperto, ritornorno presto dentro. Cresceva intratanto continuamente il numero loro; per il quale deliberati di non ricusare piú di combattere vennono a Busti, nella quale terra erano alloggiate cento lancie, che a fatica salvorno sé, perduti i carriaggi con parte de’ cavalli. Alla fine i franzesi, ritirandosi sempre che essi procedevano innanzi, si ridussono ne’ borghi di Milano; essendo incerti gli uomini se volessino fermarsi a difendergli, perché altro sonavano le loro parole altro dimostrava il fornire sollecitamente il castello di vettovaglie. Approssimoronsi dipoi i svizzeri a’ sobborghi a due miglia; ma vi era giá molto allentato il timore, perché continuamente sopravenivano le genti d’arme richiamate a Milano e similmente molti fanti che si soldavano, e d’ora in ora si aspettavano Molard co’ fanti guasconi e Iacob co’ fanti tedeschi, richiamati l’uno da Verona l’altro da Carpi. E in questo tempo furno intercette lettere de’ svizzeri a’ loro signori. Significavano essere debole l’opposizione de’ franzesi, maravigliavansi non avere ricevuto dal pontefice messo alcuno né sapere quel che facesse l’esercito de’ viniziani; e nondimeno, che procedevano secondo che si era destinato.
Erano giá in numero sedicimila e si voltorno verso Moncia, la quale non tentato di occupare ma standosi piú verso il fiume dell’Adda, davano timore a’ franzesi di volere tentare di passarlo; però gittavano il ponte a Casciano, per impedire loro il transito con l’opportunitá della terra e del ponte. Dove mentre stanno, venne, impetrato prima salvocondotto, uno capitano de’ svizzeri a Milano, il quale dimandò lo stipendio di uno mese per tutti i fanti, offerendo di ritornarsene al paese loro; ma partito senza conclusione, per essergli offerta somma molto minore, tornò il seguente dí con dimande piú alte, e ancora che gli fussino fatte offerte maggiori che ’l dí dinanzi, nondimeno, ritornato a suoi, rimandò subito indietro uno trombetto a significare che non voleano piú la concordia: e l’altro dí dipoi, mossi contro all’espettazione di tutti verso Como, se ne tornorno alla patria; lasciando liberi i giudíci degli uomini se fussino scesi per assaltare lo stato di Milano o per passare in altro luogo, e per quale cagione non soprafatti ancora da alcuna evidente difficoltá fussino tornati indietro, o perché volendo ritornarsene non avessino accettato i danari, avendone massime dimandati. Come si sia, è manifesto che mentre si ritiravano sopravenneno due messi del pontefice e de’ viniziani, i quali si divulgò che se fussino arrivati prima non si sarebbeno i svizzeri partiti. Né si dubita, che se nel tempo medesimo che entrorono nel ducato di Milano fussino stati gli spagnuoli vicini a Bologna, che le cose de’ franzesi, non potendo resistere da tante parti, sarebbono andate senza indugio in manifesta perdizione. Il quale pericolo gustando il re per l’esperienza, che prima non l’aveva antiveduto con la ragione, commesse, innanzi sapesse la ritirata loro, a Fois che per concordargli non perdonasse a quantitá alcuna di danari; né dubitando piú, quando bene i svizzeri componessino, d’avere a essere assaltato potentemente, comandò a tutte le genti d’arme che aveva in Francia che passassino i monti, eccetto dugento lancie le quali si riservò nella Piccardia; e vi mandò, oltre a questo, nuovo supplemento di fanti guasconi, e a Fois comandò che riempiesse l’esercito di fanti italiani e tedeschi. Ricercò ancora con instanza grande i fiorentini, gli aiuti de’ quali erano di momento grande, per l’aversi a fare la guerra ne’ luoghi vicini e per l’opportunitá di turbare da’ confini loro lo stato ecclesiastico e interrompere le vettovaglie e l’altre comoditá all’esercito degli inimici, se si accostava a Bologna, che scopertamente e con tutte le forze loro concorressino seco alla guerra; ricercando la necessitá delle cose presenti altro che aiuti piccoli o limitati o che si contenessino dentro a’ termini delle confederazioni, né potere mai avere maggiore occasione d’obligarsi sé, né fare mai beneficio piú preclaro e del quale si distendesse piú la memoria in perpetuo a’ suoi successori: senza che, se bene consideravano, difendendo e aiutando lui difendevano e aiutavano la causa propria, perché potevano essere certi quanto fusse grande l’odio del papa contro a loro, quanta fusse la cupiditá del re cattolico di fermare in quella cittá uno stato dependente interamente da sé.
Ma a Firenze sentivano diversamente. Molti, acciecati dalla dolcezza del non spendere di presente, non consideravano quel che potesse portare seco il tempo futuro; in altri poteva la memoria che mai dal re né da Carlo suo precessore fusse stata riconosciuta la fede e l’opere di quella republica, e l’avere con prezzo grande venduto loro il non impedire che recuperassino Pisa: col quale esempio non potersi confidare delle promesse e offerte sue, né che per qualunque beneficio gli facessino non si troverebbe in lui gratitudine alcuna; e perciò essere non piccola temeritá fare deliberazione di entrare in una guerra, la quale succedendo avversa parteciperebbono piú che per rata parte di tutti i mali, succedendo prospera non arebbono parte alcuna benché minima de’ beni. Ma erano di maggiore momento quegli che, o per odio o per ambizione o per desiderio di altra forma di governo, si opponevano al gonfaloniere, magnificando le ragioni giá dette e adducendone di nuovo; e specialmente, che stando neutrali non conciterebbono contro a sé l’odio d’alcuna delle parti, né darebbono ad alcuno de’ due re giusta cagione di lamentarsi: perché né al re di Francia erano tenuti di altri aiuti che di trecento uomini d’arme per la difesa degli stati propri, de’ quali giá l’aveano accomodato, né questo potere essere molesto al re d’Aragona, il quale riputerebbe guadagno non piccolo che altrimenti in questa guerra non si intromettessino, anzi essere sempre lodati e tenuti piú cari quegli che osservano la fede, e specialmente perché per questo esempio spererebbe che a lui medesimamente, quando gli sopravenisse bisogno, si osserverebbe quel che per la capitolazione fatta a comune col re di Francia e con lui era stato promesso. Procedendo cosí, se tra’ príncipi nascesse pace la cittá sarebbe nominata e conservata da amendue; se uno ottenesse la vittoria, non si reputando offeso né avendo causa di odio particolare, non sarebbe difficile comperare l’amicizia sua con quelli medesimi danari e forse con minore quantitá di quella che arebbono spesa nella guerra, modo col quale, piú che coll’armi, aveano molte volte salvata la libertá i maggiori loro: procedendo altrimenti, sosterrebbono mentre durasse la guerra, per altri e senza necessitá, spese gravissime; e ottenendo la parte inimica la vittoria rimarrebbe in manifestissimo pericolo la libertá e la salute della patria. Contrario a questi era il parere del gonfaloniere, giudicando essere piú salutifero alla republica che si prendessino l’armi per il re di Francia: e perciò, prima aveva favorito il concilio e suggerito al pontefice materia di sdegnarsi, acciò che la cittá, provocata da lui o cominciata a insospettirne, fusse quasi necessitata a fare questa deliberazione; e in questo tempo dimostrava non potere essere se non perniciosissimo consiglio lo stare oziosi ad aspettare l’evento della guerra, la quale si faceva in luoghi vicini e tra príncipi tanto piú potenti di loro. Perché la neutralitá nelle guerre degli altri essere cosa laudabile, e per la quale si fuggono molte molestie e spese, quando non sono sí deboli le forze che tu abbia da temere la vittoria di ciascuna delle parti; perché allora ti arreca sicurtá, e bene spesso, la stracchezza loro, facoltá di accrescere il tuo stato. Né essere sicuro fondamento il non avere offeso alcuno, il non avere data giusta cagione di querelarsi; perché rarissime volte, e forse non mai, si raffrena dalla giustizia o dalle discrete considerazioni l’insolenza del vincitore; né reputarsi, per queste ragioni, meno ingiuriati i príncipi grandi quando è negato loro quel che desiderano, anzi sdegnarsi contro a ciascuno che non séguita la volontá loro e che con la fortuna di essi non accompagna la fortuna propria. Credersi stoltamente che il re di Francia non s’abbia a tenere offeso quando si vedrá abbandonato in tanti pericoli, quando vedrá non corrispondere gli effetti alla fede che aveva ne’ fiorentini, a quel che indubitatamente si prometteva di loro, a quel che tante volte gli era stato da loro medesimi affermato e predicato. Piú stolto essere credere che, rimanendo vincitori, il pontefice e il re d’Aragona non esercitassino contro a quella republica immoderatamente la vittoria; l’uno per l’odio insaziabile, amendue per la cupiditá di fermare un governo che si reggesse ad arbitrio loro, persuadendosi che la cittá libera arebbe sempre maggiore inclinazione a’ franzesi che a loro: e questo non si vedere egli apertamente, avendo il pontefice, con approvazione del re cattolico, destinato legato all’esercito il cardinale de’ Medici? Dunque: lo stare neutrale non importare altro che volere diventare preda della vittoria di ciascuno; aderendosi a uno di essi, almeno dalla vittoria sua risultarne la sicurtá e la conservazione loro, premio, poiché le cose erano ridotte in tanti pericoli, di grandissimo momento; e se si facesse la pace dovervi avere migliori condizioni. Ed essere superfluo disputare a quale parte si dovessino piú aderire, perché niuno dubiterebbe doversi seguitare piú tosto l’antica amicizia (e dalla quale se la republica non era stata rimunerata o premiata era almeno stata piú volte difesa e conservata) che amicizie nuove, che sarebbono sempre infedeli sempre sospette. Diceva invano il gonfaloniere queste parole, impedendosi il voto suo sopra tutto per l’opposizione di coloro a’ quali era molesto che il re di Francia riconoscesse dalle sue opere l’essergli congiunti i fiorentini. Nelle quali contenzioni, interrompendo l’una parte il parere dell’altra, né si deliberava il dichiararsi né totalmente lo stare neutrali; onde spesso nascevano consigli incerti e deliberazioni repugnanti a se medesime, senza riportarne grazia o merito appresso ad alcuno. Anzi, procedendo con queste incertitudini, mandorono, con dispiacere grande del re di Francia, al re d’Aragona imbasciadore Francesco Guicciardini, quello che scrisse questa istoria, dottore di legge, ancora tanto giovane che per l’etá era, secondo le leggi della patria, inabile a esercitare qualunque magistrato; e nondimeno non gli dettono commissioni tali che alleggierissino in parte alcuna la mala volontá de’ confederati.