Storia d'Italia/Libro XV/Capitolo XIII
Questo testo è completo. |
Capitolo tredicesimo
◄ | Libro XV - Capitolo XII | Libro XV - Capitolo XIV | ► |
XIII
Perseverava in questo tempo l’assedio di Pavia, benché cessato alquanto per mancamento di munizioni il molestarla con l’artiglierie. Alla quale difficoltá il re per provedere era stato contento che il duca di Ferrara, ricevuto nuovamente da lui in protezione, con obligo di pagargli in pecunia numerata settantamila ducati, ne convertisse ventimila in valore di tante munizioni; le quali si conducevano per il parmigiano e piacentino, con animali e carra de’ paesani prestate per commissione del pontefice: non senza grave querela del viceré, come se questo fusse prestare espressamente aiuto al re di Francia. Le quali perché sicuramente si conducessino avea mandato a incontrarle, con dugento cavalli e mille cinquecento fanti, Giovanni de’ Medici: il quale, nel principio della guerra, querelandosi di essere veduto con malo occhio dal viceré né gli essere dati tanti danari che bastassino a muovere i soldati, era dagli stipendi di Cesare passato agli stipendi del re. E pareva che ad assicurare le munizioni bastasse questo presidio, per la propinquitá del duca di Albania il quale nel tempo medesimo avea passato il Po; ma il viceré e il marchese di Pescara per impedirle, gittato il ponte presso a Cremona, passorno il Po con secento uomini d’arme e ottomila fanti, alloggiando a Monticelli il primo dí: nondimeno, ritornorno presto di lá dal fiume, avendo sentito che il re per opporsi loro mandava Tommaso di Fois con una parte dello esercito. Dopo la partita de’ quali il duca di Albania passò, per il territorio di Reggio e la Carfagnana, l’Apennino; ma procedendo con lentezza tale che confermava l’opinione che il re, piú per indurre con questo timore i capitani di Cesare o a concordia o ad abbandonare le cose di Lombardia che per speranza di fare progressi, tentasse questa impresa. Unissi con lui presso a Lucca Renzo da Ceri con [tre]mila fanti venuti in sulla armata, alla quale nel passare si era arrenduta Savona e Varagine; e ritornata l’armata nella riviera occidentale di Genova teneva in sospetto quella cittá.
Séguita l’anno mille cinquecento venticinque. Nel principio del quale don Ugo di Moncada, partito da Genova con l’armata, scese in terra con tremila fanti a Varagine, dove erano a guardia alcuni fanti de’ franzesi; ma venendovi al soccorso l’armata franzese, della quale era capitano il marchese di Saluzzo, l’armata inimica essendo restata senza fanti si ritirò, però i fanti franzesi, scesi in terra, assaltati gli inimici e mortine molti, gli roppono, e presono don Ugo.
Nel principio dell’anno medesimo, il duca di Albania astrinse i lucchesi a pagargli dodicimila ducati e a prestargli certi pezzi di artiglierie; e dipoi proceduto piú innanzi per il dominio de’ fiorentini, da’ quali fu raccolto come amico, si fermò con lo esercito appresso a Siena: pregato a questo dal pontefice, il quale, poi che né con l’autoritá né con le armi poteva ovviare a quel che gli era molesto, si sforzava di condurre i suoi disegni con l’arte e con la industria. Non dispiaceva al pontefice che il re di Francia conseguisse il ducato di Milano, parendogli che, mentre stavano in Italia Cesare e il re, che la sedia apostolica e il suo pontificato fussino sicuri dalla grandezza di ciascuno di loro. Questa medesima ragione causava che gli fusse molesto che il re di Francia acquistasse il regno di Napoli, acciò che in mano di uno principe tanto potente non fusse in uno tempo medesimo quello reame e il ducato di Milano: però, cercando occasione di differire l’andata del duca di Albania, fece instanza col re che nel transito riordinasse il governo di Siena; il quale il pontefice, essendo quella cittá situata in mezzo tra Roma e Firenze, desiderava sommamente che fusse in mano degli amici suoi, come per opera sua era stato pochi mesi innanzi. Perché essendo, nel pontificato di Adriano morto il cardinale Petruccio e pretendendo alla successione sua nel governo Francesco suo nipote, se gli opposono per la sua insolenza i principali del Monte de’ nove, con tutto che fussero della medesima fazione; facendo instanza col duca di Sessa, oratore cesareo, e col cardinale de’ Medici che fusse data altra forma al governo, o riducendola a libertá o volgendo quella autoritá a Fabio figliuolo di Pandolfo Petrucci, benché non molto innanzi si fusse occultamente fuggito da Napoli: la quale cosa, ventilata lungamente, fu finalmente, come Clemente fu assunto al pontificato, per consentimento comune suo e di Cesare, restituito Fabio nel luogo paterno. Ma non avendo l’autoritá che aveva avuta il padre, la cittá quasi tutta inclinata alla libertá, quegli del Monte de’ nove non molto uniti con lui né molto concordi tra loro, la debolezza che ha la potenza di uno quando non è fondata in sulla benivolenza de’ cittadini né si regge totalmente e senza rispetti a uso di tiranno, partorí (non ostante che alla piazza fusse la guardia dependente da lui) che suscitato uno giorno per opera de’ suoi avversari, senza aiuto alcuno de’ forestieri, tumulto popolare, fu con piccola difficoltá cacciato della cittá; donde il pontefice, il quale non confidava né nella moltitudine né in altra fazione, deliberò ridurre in loro l’autoritá, per costituirne poi capo o Fabio o chi altri di loro gli paresse: cosa che agli imperiali (come il sospetto cominciato fa che tutte le cose si ripigliano in mala parte) accrebbe l’opinione che la capitolazione tra il pontefice e il re di Francia contenesse da ogni parte maggiori effetti e obligazioni che di neutralitá. Dal fermarsi il duca d’Albania intorno a Siena procedette che i sanesi, per liberarsi dalle molestie dell’esercito, dettono amplissima autoritá a quegli cittadini che erano confidenti al pontefice sopra l’ordinazione del governo: la qual cosa come fu fatta, ricevute da’ sanesi artiglierie e certa quantitá di danari, passò piú oltre, ma procedendo colla consueta tarditá. Andò da Montefiascone a Roma a parlare al pontefice, e di poi passato il Tevere a Fiano si fermò nelle terre degli Orsini, dove si raccoglievano i fanti che si soldavano in Roma con permissione del pontefice; il quale permetteva medesimamente che i Colonnesi, i quali per la difesa del regno di Napoli facevano la massa a Marino, soldassino in Roma fanti. Ma per la tarditá del procedere, e perché da ogni parte apparivano pochissimi danari, era questo movimento in piccolissimo concetto: gli occhi l’orecchie gli animi degli uomini erano tutti attenti alle cose di Lombardia; le quali cominciando ad affrettarsi al fine, accrescevano per vari accidenti a ciascuna delle parti ora la speranza ora il timore.