Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro X/Capo I
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LIBRO DECIMO.
REGNO DI FERDINANDO I.
Anno 1821 a 1825.
CAPO PRIMO.
Stato morale del regno dopo la caduta del reggimento costituzionale.
I. Caduto il governo costituzionale, cessato l’universale sbalordimento, si palesarono della portentosa rovina le cagioni. Fu prima la facilità del rivolgimento, per lo che non levandosi in fama uomini nuovi, si affidò il governo dello stato a personaggi di antica autorità. Erano i murattisti, valevoli al reggimento de’ popoli, ma con usanze e persuasioni contrarie o lontane da stato tanto libero quanto il costituzionale delle cortes. Che se novatori fossero stati eglino stessi, quel rivolgimento trovando sostegno nella esperienza e nel senno di uomini numerosi e gagliardi, gridava altro statuto che lo spagnuolo; lasciava più potente la monarchia, più affrenato il popolo; componeva uno stato meglio adatto alla presente politica europea: onde nella pace meno difficili gli accomodamenti, e nella guerra più onorevoli, sebben forse più gravi, le avversità. Ver è che i potentati di Europa mal volentieri avrieno visto il risorgimento e la fortuna di una fazione combattuta per quattro lustri; ma forzati a scegliere tra cose ingrate, avrebbero anteposto il genio monarchico e quasi assoluto de’ napoleonici al troppo libero, pericoloso, novissimo dei carbonari. Si aggiunse la scelta tumultuaria e cieca dello statuto di Spagna, difettivo per vizii intrinseci, impossibile in doppio regno e con la Sicilia avversa, sotto re presente e nemico, tra popoli scorretti ed instabili, immaturi a tanta libertà.
Altra cagione fu la ingrandita carboneria. Quella setta dopo i successi dovea sciogliersi, o, cambiando voti e riti, stringersi e celarsi. Ma si allargò e palesò; diede agli astuti servi del potere agio di conoscerla, poi dominarla e tradirla. Le società segrete, che sono speranze e specie di libertà finchè si oppongono al governo, si mutano in istromenti di servitù qualora intendono a sostenerlo.
Furono cagione gl’inganni del re, del vicario, dell’intera casa; perciocchè niuna verità giammai comparve più vera delle finzioni di quei principi: scaltrezza cominciata per timore, durata per arte.
Ed altra cagione fu lo stato di Europa, la santa alleanza e con essa da necessaria adesione della Francia, la interessata pazienza della Inghilterra. Se tale non era il mondo, la rivoluzione di Napoli, cambiando in meglio, mantenevasi; però che ella stessa correggendo i proprii errori, il troppo di alcun potere, il poco di alcun altro si temperavano; che già per riuscire e durare ella aveva in sè due mezzi potentissimi: il tedio universale dell’antico, l’universal desiderio di mutarlo.
Questi che ho discorso furono gl’impulsi alle rovine di quello stato, secondati da pochi altri di minor possa che senza i primi non movevano, o tosto mossi quietavano. E sono l’ingegno fogoso e contumace del general Pepe, le doppiezze del deputato Borrelli, i mal ragionati concetti del general Carascosa, le mille licenze del popolo, gli ondeggiamenti e le debolezze di due ministeri, le varie timidità del parlamento. Senza queste spinte, che ho chiamato seconde, pure lo stato cadeva ma per precipizii più lenti ed onorevoli; lasciando alcuna speranza, e non, come avvenne, vergogna ed abbattimento alla Italia. La quale sentenza di non dubbia rovina, i caldi settatori de’ rivolgimenti contrastano con fatti di antiche genti, e co’ moderni prodigi della Grecia; senz’avvertire che le virtù della barbarie sono impossibili alla civiltà, e che nelle nostre guerre gli eserciti ed i popoli non hanno le condizioni di Sagunto, di Alessia, di Scio, di Messolungi, ossia le ultime necessità, feroci, orrende, ma feconde di quel maggior valore che nasce nelle disperazioni.
Il giudizio del volgo sulle cagioni del caduto governo era più stretto e maligno. Non altro che tradimenti: traditori i generali, i ministri, il parlamento: nulla incusavano il re, poco il vicario. Secondavano quelle voci, per nascondere la torpitudine de’ proprii falli, le numerose congreghe di settarii perfidi o vili, e di soldati infami della fuga, e di liberali e novatori codardi, e di timidi deputati, e d’impiegali bassi e servili. Tal che non rimase intatto alcun nome, già chiaro per virtù e servigi; e la ingiuria durerà ne’ discorsi della plebe e de’ tristi, come nella credenza di chi presta fede a quelle genti, sino a che, fatto libero il dire, la narratrice delle umane cose avrà rilevato de’ veri fatti le cause vere.
II. E poi che furono scoperte o sospettate le cagioni, si misurò la vastità delle rovine. Ne’ nove mesi di quel reggimento i disegni del ministero, l’ingegno del parlamento, il senno del consiglio di stato, tutti i pregi del governo restavano inosservati, perchè coperti dal romore e dalle sollecitudini delle interne discordanze e della guerra. Ma dipoi, nel silenzio della tirannide, si andavano lamentando le buone leggi quasi ad un punto fatte e distrutte, e la sperata nazionale felicità appena tentata ed oppressa.
Così che volendo rappresentare ne’ miei racconti la scena continua del popolo, non ho parlato di quelle leggi allorchè inavvertite passavano, e disegnai di trattarne in questo loco, cioè quando furono intese e compiante.
A rifare ed a migliorare le instituzioni gareggiarono il ministero e il parlamento. Ho riferito nel precedente libro i mali prodotti dal genio delle novità; qui dirò i beni, godendo a laudare le geste e gli uomini meritevoli. Il duca di Campochiaro fu ministro degli affari esteri. Destreggiò colle corti nemiche, ma non val destrezza dove soperchia la contraria forza: nulla ottenne, lasciò il ministero, Gli successe il duca del Gallo, che ne’ consigli e nelle opere fu sagace, fido e anch’egli sventurato: nelle grandi quistioni di regno, accompagnando il re a Laybach, riferendo in parlamento, consultando nel congresso de’ ministri, fu per i partiti più liberi ed animosi. Pure lo morse la maldicenza, mostro cieco e rabbioso, nato di plebe, peste d’Italia.
Fu ministro di giustizia il conte Ricciardi, già chiaro sotto i regni di Giuseppe e Gioacchino. I codici non abbisognavano di riforma; e si sperava tempo più riposato per discutere ogni legge; perciò provvide a’ bisogni presenti della giustizia: vide che l’era intoppo la setta de’ carbonari, e due volte ne propose lo scioglimento, ma invano; però che si opponevano al buon disegno la timidezza de’ principi, la timidezza o le affezioni dei deputati al parlamento, il numero e la potenza dei settarii. Indi propose la ricomposizione de’ magistrati, però che ve n’era degl’inabili alle instituzioni moderne, o incalliti alle passate, o troppo grandi di età, o scelti senza merito, per favore, quando la casa de’ Borboni tornò a questo regno. Dimostrato il bisogno della riforma, ne provò la giustizia; perciocchè i magistrati erano tuttora amovibili, a piacimento del re, difetto de’ precedenti anni, come altrove ho detto, volto ad utilità nel presente. Quindi intese a riformare quella parte della costituzione, che dava al consiglio di stato la facoltà di nominare i magistrati: egli dimandava che l’avesse il ministro, lasciando al consiglio l’approvazione o il rifiuto de’ proposti. E benchè parlasse a suo pro, il chiaro dire, il buon volere, la verità, la probità dell’oratore, vinsero il sospetto e la invidia. Poscia per nominare i magistrali novelli o promuovere i nominati segnò modi giusti, liberi, e tanto certi quanto è concesso agli umani giudizii. E lode anche maggiore a quel ministro diede la proposizione dei giurì; voto antico e deluso de’ padri nostri e di noi. Rammentò i dubbii generali, e i particolari al regno delle due Sicilie, abbattè gli uni e gli altri. Proponeva i giurì per i soli misfatti, riserbando a più espediti giudizii le colpe minori, e provvedendo che da questa eccezione non venisse danno o pericolo agli accusati. Tolse le idee dalle leggi francesi e inglesi sopra i giurì; più sì giovò delle americane. Avvantaggiò sopra tutte, sempre a pro degli accusati; parzialità, forse offensiva della giustizia, ma buona ad esempio di carità cittadina, e profittevole a’ costumi più che gli atti inflessibili del rigore. Dopo il conte Ricciardi fu ministro il magistrato Troyse, che, sebben grave di età e per lunga pezza impiegato sotto monarchia dispotica, ricalcò le tracce libere del precessore, e le avanzò. Così mostrando che ne’ suoi primi anni avea seguito, dolente, gli errori di assoluto governo.
Il ministero dell’interno si affaticò a conciliare le passate istituzioni amministrative colle presenti del nuovo statuto. Ma grande intoppo facevano le opinioni del pubblico ministro, però che il pubblico credeva il ministro fermo nelle pratiche dell’assoluto, e quegli vedeva i potenti della rivoluzione inchinati alle troppe libertà municipali. Era doppio e vero il difetto. Aggiungeva diffidanza e discordia l’ingegno del conte Zurlo, usato a’ rigiri della curia, alle dissimulazioni ministeriali, a’ comandi del dispotismo: perciò il suo ministero fu campo di liti e di astuzie. Gli succedette il marchese Auletta, che, tra ’l poco sapere e il voler poco, chiedeva di uscirne. E, lui uscito, il cavalier de Thomasis il quale sapeva e voleva; ma per brevità di tempo, fra le sollecitudini della guerra e i vacillamenti dello stato, nessuna cosa fece di memorabile.
L’erario era pieno nel 1820; ma per le rivoluzioni di quell’anno, tolti alcuni tributi, le rendite scemate, cresciuti i bisogni, distrutto il credito, le casse del fisco si vuotavano. Si chiese prestanza e si otteneva da case di Londra e Parigi, se il ministro di finanze, parendogli i patti assai duri, non avesse sciolto i maneggi. Quegli era il cavalier Macedonio, amante ab antico di patria e di governo, dotto in economia, ma giudicandone per sentenze che spesso fallaci anche nel riposo delle opinioni fallano assai più ne’ tempi di sconvolgimento e di guerra. Il Macedonio, come altrove ho riferito, diede luogo al duca di Carignano, ignorante di quelle scienze, avverso a libero stato, solo curante del proprio comodo. Crescendo i bisogni e i pericoli, divenuta impossibile la prestanza esterna, si fece ricorso ad un prestito interno sotto condizioni gravi alla finanza, più gravi a’ creditori; a’ quali si davano cedole non circolanti perchè rappresentative di credito non di moneta e perciò lontane speranze in tempi disperati. Il prestito divenne tassa forzata, motivo a vessazioni, materia e strumento di polizia.
Altro male sopravvenne dall’avere il banco dello stato fermato i pagamenti, perciocchè nelle cresciute strettezze della finanza colla memoria dei passati spogli, sotto ministro non abile, non sicuro, il pubblico ritirando a folla i depositi scuoprì un voto di ducati 500 mila, antichissimo e sino allora non avvertito. I fondi pubblici decaddero anch’essi; nè per infedeltà o improvvida legge, ma per gli stremi della finanza, il discredito del ministro, i vacillamenti di quel nuovo stato.
Molti provvedimenti per la milizia e per la guerra ho sparsamente riferiti nel nono libro, perciocchè non isfuggivano come gli altri allo sguardo del popolo. Ora dirò delle cose militari quanto si riferisce alle leggi. Trenta mila soldati ne’ tempi di pace, cinquantadue mila per la guerra componevano l’esercito stipendiato: seguivano le milizie civili, centoquaranta mila tra urbani, militi e legionarii, de’ quali i primi difenderebbero le proprie mura, i secondi la provincia, gli ultimi il regno. Le proporzioni tra fanti, cavalieri, zappatori, artiglieri, erano come in esercito bene ordinato e convenienti alle particolari condizioni delle due Sicilie. La guardia (parola intesa ne’ moderni eserciti) era conservata, ma per tal modo che fosse premio a’ servigi, sprone alle opere, non mai strumento al dispotismo, non mai pericolo alla libertà: ella, che che se ne pensi da taluni, è conveniente alla natura delle milizie ed al genio di questo età delle distinzioni cupida, purchè nascano dall’ eguaglianza. Le milizie soldate si facevano per coscrizioni, le civili erano regolate dal senno e dalla sorte: per quelle valevano ancora le antiche leggi, per queste il ministro della guerra propose una sapiente ordinanza, ma non piacque al general Pepe che altra men buona ne impose alla giunta di governo. Il parlamento avrebbe corretto quegli errori, se le urgenze della guerra soffrivano il ritardo che viene dalle riforme. Armi, vestimenti, munizioni, stanze, ospedali furono allestiti. Scarseggiavano gli archibugi, ed averne a compera nella presente lega de’ governi europei fu impossibile: perciò si animarono e accrebbero le fabbriche interne, le quali fornirono ai primi bisogni; avrebbero dato in breve armi abbondanti. Tutte le fortezze ristorate, accresciute: nuovi forti alzati nella frontiera e nello interno, troppi in guerra ordinata di eserciti, appena bastevoli combattendo per popoli.
Nuove leggi regolarono i licei militari, gli avanzamenti, i premii per guerre o ferite, le ricompense a’ velerani agl’invalidi: cessavano le parzialità de’ ministri e de’ principi; ogni merito, ogni servigio troverebbe mercede.
Le deseritte cose si operarono da tre ministri, Al Carascosa si debbe il maggior merito, perciocchè quasi tutte furono de’ tempi suoi. Fu del Parisi una legge per le vedove de’ militari e per gli orfani, ed altra per alloggiar le milizie stanziali o di passaggio. II Colletta nessuna nuova legge propose, operò sulle cose fatte: provvide in tempi penuriosi a tutti i bisogni dell’esercito e della guerra; intese per ordinanze a ristabilir la disciplina, ma non bastò il tempo a’ concetti.
Ministro di marina fu il cavalier de Thomasis sperto di politica e delle dottrine legali e filosofiche, imperito nell’armi. Ma per lui potè l’ingegno ciò che spesso per altri le pratiche lunghe non possono. Rappresentò al parlamento i benefizii che ricava lo stato da’ navilii guerriero e commerciale: disse come erano in atto; propose riforme, miglioramenti, risparmii; fu lodato dal pubblico per la sua già buona fama, e dagli uomini di armata per i suoi giudizii nell’arte. Quel ministero fu poscia unito al ministero di guerra, ed allorchè l’esercito apprestavasi alle difese, molte navi armate correvano i mari con maraviglia universale per la prestezza delle opere in tanta scarsezza di mezzi. Il parlamento, nelle buone leggi testè riferite meritò lode comune co’ ministri: ma fu solo agli altri onori che andrò esponendo. I maggiorati tuttora duravano nelle due Sicilie; in Napoli non aboliti da’ re francesi, imitatori vogliosi o forzati dell’imperator Napoleone, nè dal re Borbone che teneva quelle vecchie leggi, sostenitrici di assoluta monarchia; ed in Sicilia caduti per la costituzione dell’anno 12, e subitamente rinvigoriti con decreto di quel parlamento, così che la mala pianta vegetava ne’ due regni uniti. Ma legge del 1821 l’abbattè: i beni soggetti a majorasco, tornarono per essa liberi. Il deputato Arcovito fu della buona legge l’oratore.
Altre leggi, proposte dal deputato Natale, abolirono la feudalità di Sicilia; non essendo bastati sino al 1821 gli esempii de’ più civili regni e la sapienza de’ tempi e i costumi de’ signori e la stessa costituzione politica dell’anno 12 e parecchi decreti degli anni 16 e 17. Quella feudalità, cessata molte volle nel nome, non mai ne’ possessi, era finalmente per le nuove leggi distrutta, le stesse che sotto i re Giuseppe e Gioacchino operarono tra noi la piena caduta del barbaro edifizio. Mancò tempo alla seconda prova, perciocchè spento indi a poco il reggimento costituzionale, tornò qual era la feudalità nella Sicilia. Io credo che i modi bastati per noi erano scarsi per quell’isola, dove la feudalità è più potente, i fecudatarii più venerati, il popolo meno persuaso dell’utile riforma, il governo senza le giovani forze della conquista, gli ajuti e la grandezza di straniera potenza. Ma quali che si fossero ne’ successi quelle leggi, erano benefiche nel concetto.
Terza legge del parlamento regolava l’amministrazione delle comunità e delle province. L’asprezza delle ordinanze francesi, divenute nostre nel decennio e conservate nel succeduto regno dei Borboni, generò ne’ popoli opinione che fosse libertà il disfacimento di quel sistema. Perciò la nuova legge, parteggiando colle credenze dell’universale, schivando l’autorità del governo, affidava quelle amministrazioni agli uffiziali del municipio. Error grave in secolo di non puri costumi, ed in paese dove non trovi città o terra che non abbia il suo maggior potente, non per merito di virtù (che seria benefica preminenza), ma per uso di forza! Il re disapprovò quella legge. Se non mutavano i tempi, il governo inchinando verso le libertà, il parlamento verso le regole, si ricomponeva legge come le altre profittevole e sapiente. Per la finanza pubblica, benchè subbietto di continuo esame, si fecero poche e transitorie ordinanze, nessuna legge. Contrastavano al proponimento di miglior sistema le condizioni dei tempi, la guerra vicina, il ritegno a muovere quell’una parte di pubblica amministrazione alla quale tutte essendo legate, può un fallo, una inavvertenza, la stessa inopportunità di ottima legge produrre danni gravissimi. Era fatica per il vegnente anno, quando il parlamento sperava maggior sicurezza e minori ansietà di governo. Appariva frattanto che preparasse minorazion di tributi, economie nell’esercito; separazione delle casse di provincia dal tesoro pubblico, e che volesse render la libertà testè perduta alle amministrazioni di pubblici stabilimenti, e far palesi per divolgati conti e sindacati, le entrate, le uscite del denaro comune.
Sperati beni che non si ottennero; ed anzi bisognò ritirare dalla cassa di sconto un milione di ducati, e vendere ducati cinquanta mila di annuo frutto sulle inscrizioni possedute in maggior somma dalla finanza. Poco profittò il prestito forzato, nulla le vendite de’ beni dello stato. Doveva la Sicilia all’erario comune quasi metà dell’annuo tributo. Si pagarono alla casa Torlonia di Roma ducati seicento mila prestati nel 1816 per le ingrate spese del congresso di Vienna. Si mantennero gl’impegni co’ potentati barbareschi. Così che a computare le sopraddette somme vedesi che nulla o poco disperse lo stato per i casi di quel tempo; e frattanto ristaurò le fortezze da tempo immemorabile abbandonate, provvide armi nuove, fece alcun vantaggio a’ popoli per la diminuita imposta del sale e per lavori di guerra e guadagni nuovi. La finanza del 1821, succeduta al descritto tempo costituzionale, disse iniquamente che la povertà dello stato, il debito salito a cinque milioni e mezzo di frutto da solo ottocento mila ch’egli era sotto i re francesi, le taglie di un buon terzo cresciute, gli stenti, la miseria delle famiglie, provenivano da disordini e dalle fraudi dell’ultima rivoluzione: addebitandola delle spese de’ congressi di Laybach e di Verona, delle regie profusioni ne’ viaggi, de’ doni fatti a ribocco per ricuperare la maestà del regno, del mantenimento per quattro anni de’ presidii tedeschi, e dello spendere continuo per le spie, per la polizia, le prigioni di stato, gli ergastoli. Menzogne infami che palesate al mondo ritornano a vergogna de’ mentitori. Rimarrebbe a dire del parlamento se dir si potesse in breve ciò che operò per apprestare la guerra e concitar lo zelo de’ cittadini, premiare ogni virtù, fecondare le speranze, celebrare non che i fatti onorevoli, le intenzioni di alcun merito futuro. Ne’ quali trovati fu sagacissimo, ed in ben dire, in ben operare infaticabile il deputato Poerio: suoi pregi sventurati, perchè, sterili allora, gli fruttarono più tardi prigionia, esilio, molti danni, quasi povertà, fama più bella.
Per ciò che ho detto del ministero e del parlamento, ossia delle due parti operose dello stato, la memoria degli uomini riterrà che tra molti vizii molte virtù pubbliche si mostrarono, e fra certi transitorii mali un grande e stabile bene si alzava. Erano quindi, dopo la caduta di quel reggimento, dolorosi spettacoli all’universale la perduta libertà, la soprastante tirannide; sentivano per fino i tristi crucciarsi de’ tradimenti, degl’inganni, delle male opere; la stessa indifferenza, l’aver poco fatto era cagione a pentimento, Sensi tutti di virtù tardiva, cangiati meritamente in supplicio delle coscienze.