Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/50

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CAPITOLO L

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STORIA

DELLA DECADENZA E ROVINA

DELL’IMPERO ROMANO

CAPITOLO L.

Descrizione dell'Arabia e de' suoi abitatori. Nascita, carattere e dottrina di Maometto. Predica alla Mecca. Fugge a Medina. Propaga la sua religione colla spada. Sommessione volontaria o sforzata degli Arabi. Sua morte, e suoi successori. Pretensioni e trionfi d'Alì e de' suoi discendenti.

Dopo avere per più di sei secoli tenuto dietro ai vacillanti sovrani di Costantinopoli e della Germania, ora risalendo all’epoca del regno d’Eraclio, mi trasferirò sulla frontiera orientale della monarchia greca. Mentre lo Stato s’impoveriva colla guerra di Persia, e straziata era la Chiesa dalla Setta di Nestorio e da quella dei Monofisiti, Maometto, colla spada in una mano e coll’Alcorano nell’altra, fondava il suo trono sulle ruine del Cristianesimo e di [p. 6 modifica]Roma. I talenti del Profeta arabo, i costumi del suo popolo e lo spirito della sua religione sono tra le cagioni che hanno operato il decadimento e l’ultimo crollo dell’impero d’Oriente; e la rivoluzione che ne seguì, e che si può noverare fra le più memorabili che impressero nelle varie nazioni del Globo un carattere nuovo e permanente, ci presenterà uno spettacolo ben degno de’ nostri sguardi1.

La penisola d’Arabia raffigura2 tra la Persia, [p. 7 modifica]la Siria, l’Egitto e l’Etiopia una specie di vasto triangolo con faccie irregolari. Dalla punta settentrionale di Beles3, sull’Eufrate, forma una linea di mille e cinquecento miglia che termina nello stretto di Babelmandel e nel paese dell’incenso. La linea del mezzo, che va dall’Oriente all’Occidente, da Bassora a Suez, dal golfo Persico al mar Rosso, può essere all’incirca la metà in lunghezza4; i lati del triangolo si dilatano insensibilmente, e la base che è al mezzodì presenta all’Oceano indiano una costa di circa mille miglia. La superficie interna della penisola è quattro volte più ampia di quella dell’Alemagna o della Francia; ma la parte più vasta di quel terreno è stata giustamente disonorata cogli epiteti di Petrea e di Arenosa. La natura [p. 8 modifica]meno fregiò i deserti della Tartaria di grandi alberi, d’erbaggi abbondanti, e il viaggiator solitario vi trova nello spettacolo dei vegetabili una sorta di consolazione e di società; ma gli orridi deserti dell’Arabia non offrono allo sguardo che un’immensa pianura di sabbia, solamente interrotta da montagne aride ed angolose, e la superficie del deserto, priva d’ombra di sorta, mostra un terreno abbruciato dai raggi diretti del cocente sole del tropico. In vece di rinfrescar l’atmosfera non diffondono i venti che un vapore nocivo ed anche mortale, quando soprattutto vengono dal sud-ouest; i monti di sabbia cui formano e disperdono alternativamente, ponno paragonarsi ai flutti dell’Oceano: caravane ed eserciti intieri furono inghiottiti da quel vortice. Si desidera e si contende l’acqua colà, che per tutto il Mondo è sì comune, e tanta è la carestia di legna che ci vuol molt’arte per conservare e propagare il fuoco. Non ha l’Arabia una sola di quelle riviere navigabili, che fecondano il suolo, e ne portano alle vicine contrade le produzioni. La terra sitibonda assorbe i torrenti che cadono dalle colline: il tamarindo, l’acacia e poche piante robuste, che pongono le radici nei crepacci delle rupi, non si alimentano che della rugiada notturna: quando piove si ha cura di trattenere qualche goccia d’acqua in cisterne o in acquedotti; i pozzi e le fonti sono i secreti tesori di que’ deserti, e dopo molti giorni di viaggio il trafelato pellegrino della Mecca5 non incontra [p. 9 modifica]per dissetarsi che poche acque ributtanti pel sapor che han contratto sopra un letto di zolfo o di sale. Tale è la prospettiva generale del clima dell’Arabia; e questa universale sterilità dà un prezzo infinito a qualche apparenza di vegetazione, che si trovi qua e là; un bosco ombroso, un meschino pascolo, una corrente d’acqua dolce invitano una colonia d’Arabi a stanziar sul fortunato terreno che loro procaccia alimento ed ombra per sè e pei lor bestiami, e li incoraggia a coltivar la palma e la vite. Le alte terre che costeggiano l’Oceano indiano son segnalate dalle legne e dall’acque che vi si rinvengono in maggior abbondanza; l’aria è più temperata, più saporite le frutta, più numerosi gli animali e gli uomini; la fertilità del suolo inanimisce e premia i lavori dell’agricoltura; e l’incenso6 ed il caffè di quelle regioni hanno tratto colà in ogni tempo i mercadanti di tutti i paesi del Mondo. Paragonando questa regione privilegiata al rimanente della penisola, merita il nome d’Arabia Felice, e mercè del contrapposto de’ suoi dintorni comparisce agli occhi dell’immaginazione bella e pomposa di tutti gl’incanti della favola, che per la lontananza ha preso il credito della verità; si è supposto che la natura avesse riservato a questo paradiso terrestre i suoi favori più singolari, e le sue opere più curiose; che gli abitanti vi godessero di due cose che sembrano incom[p. 10 modifica]patibili; lusso e innocenza; che il suolo ridondasse d’oro e di pietre preziose7, e che terra e mare esalassero vapori aromatici. Non conoscono gli Arabi questa divisione dell’Arabia Deserta, della Petrea e della Felice tanto famigliare ai Greci ed ai Latini; ed è ben cosa singolare che un Cantone che non cangiò nè linguaggio, nè abitatori serbi appena qualche vestigio dell’antica sua Geografia. Li distretti marittimi di Bahrein e d’Oman stanno rimpetto alla Persia. Il regno di Yemen fa conoscere i limiti o almen la situazione dell’Arabia Felice: il nome di Neged si distende nell’interno delle terre, e la nascita di Maometto ha illustrato la provincia di Hejaz che giace sulla costa del mar Rosso8.

Si misura la popolazione dai mezzi di sussistenza, e la vasta penisola dell’Arabia ha forse meno abitatori che una provincia fertile e industre. Gli Icthyofagi9, o popoli che vivon di pesci, andavano un [p. 11 modifica]tempo erranti sulle coste nel golfo Persico, dell’Oceano ed anche del mar Rosso a procurarsi quel precario alimento. In sì miserabile condizione, che poco merita il nome di società, quel bruto che si chiama uomo, senz’arti e senza leggi, quasi sfornito d’idee e di parole era superiore di poco al resto degli animali; per lui passavano in una silenziosa obblivione le generazioni ed i secoli, e i bisogni e gli interessi che restringeano l’esistenza del Selvaggio all’angusto margine della costa marittima, gl’impedivano il pensiero di moltiplicar la specie; ma è ben rimota di già quell’epoca in cui la gran masnada degli Arabi si tolse da quella deplorabile miseria, e non potendo il deserto mantener una popolazione di cacciatori, passarono questi subitamente al più tranquillo e più felice stato della vita pastorale. Tutte le tribù erranti degli Arabi hanno le abitudini stesse; nella faccia de’ Beduini attuali si rinvengono i delineamenti dei loro avi10, i quali, al tempo di Mosè o di Maometto, abitavano sotto tende della medesima forma, e guidavano i lor cavalli, i cammelli, le gregge [p. 12 modifica]ai fonti ed ai pascoli stessi. Il nostro dominio sugli animali di servigio ci scema le fatiche, accrescendoci le ricchezze, ed il pastor Arabo è divenuto padrone ed arbitro d’un fedele amico, e d’uno schiavo laborioso nel suo cavallo11. Credono i naturalisti che il cavallo sia originario dell’Arabia, ove il clima è il più favorevole non alla statura, ma all’ardenza e alla velocità di questo generoso quadrupede. Il pregio de’ cavalli barbari, spagnuoli ed inglesi proviene della mischianza del sangue arabo12. Con una cura superstiziosa conservano i Beduini la rimembranza della storia e dei meriti della razza più pura; si vendono carissimi i maschi, ma le femmine rare volte si contrattano, e la nascita d’un nobile poledro è un’occasione di gioia e di congratulazioni fra le tribù. Questi cavalli sono allevati sotto tende in mezzo ai fanciulli arabi, coi quali stanno in un’amichevole famigliarità che nutre in loro abitudini di dolcezza e d’affetto. Non hanno che due andature, il passo e il galoppo; le loro sensazioni non sono mortificate dalle continue percosse della sferza o dello [p. 13 modifica]sprone; se ne riserva la forza pei momenti in cui occorre o fuggire, o inseguire; appena sentono la mano, o la staffa si slanciano colla celerità del vento; e se nella rapida corsa il loro amico è rovesciato a terra, nel punto istesso si fermano, e aspettano che il cavaliere risalga in sella. Nelle sabbie dell’Affrica e dell’Arabia, il cammello è un dono del cielo e un animale sacro. Questa robusta e paziente bestia destinata a portare i fardelli può camminar molti giorni senza mangiare e senza bere; il suo corpo, segnato dai marchi di servitù, ha una specie di tasca, o sia un quinto stomaco, che è un serbatoio d’acqua dolce; i grandi cammelli possono soffrire un peso di dieci quintali; e il dromedario d’una struttura più snella e più agevole, precorre il cavallo più agile. E in vita e in morte, quasi tutte le parti del cammello sono profittevoli all’uomo; la sua femmina somministra una quantità considerabile d’un latte nudritivo; quando è in tenera età la carne ha il sapor del vitello13; si ricava dall’orina un sale prezioso; i suoi escrementi suppliscono alle materie combustibili; e il suo lungo pelo, che cade e si rinova ogni anno, lavorato grossolanamente serve al vestire, al mobigliamento e alle tende de’ Beduini. Nella stagione piovosa si nutre della poca erba del deserto; negli ardori della state e nella penuria del verno [p. 14 modifica]le tribù s’accampano sulla costa del mare, sulle colline dell’Yemen, o ne’ contorni dell’Eufrate, e spesse volte si trasferirono, non senza rischio, sino alle sponde del Nilo e ne’ villaggi della Siria e della Palestina. La vita d’un Arabo vagabondo è tutta pericolo e miseria; e benchè si procacci talvolta colle rapine, o colle permute, i frutti dell’industria, un semplice particolare in Europa col suo lusso trova godimenti assai più sodi e piacevoli di quelli che possa ottenere il più altiero Emir, ricco d’un armento di diecimila cavalli.

Si osserva per altro una differenza essenziale tra le masnade, o sia orde della Scizia, e le tribù Arabe; parecchie di quest’ultime si adunarono in borgate, e si diedero al traffico e all’agricoltura. Impiegavano una parte del tempo e dell’industria nelle cure del bestiame; tanto in guerra che in pace si mischiavano coi loro fratelli del deserto; e queste utili pratiche procacciarono a’ Beduini qualche mezzo da sovvenire a’ bisogni, e diedero loro qualche sentore d’arti e di scienze. Le più antiche e più popolate delle quarantadue città dell’Arabia14, indicate da Abulfeda, appartenevano all’Arabia Felice; le torri di Saana15, e il mirabile serbatoio di Merab erano [p. 15 modifica]opera del re degli Omeriti16; ma questa gloria profana era oscurata e vinta da’ fasti profetici di Medina17, non che della Mecca18, situate presso il mar Rosso, lontane l’una dall’altra dugencinquanta miglia: era l’ultima di queste città sante conosciuta da’ Greci sotto il nome di Macoraba, e la desinenza della parola ne denota la vastità, che peraltro, nell’epoca più florida, non sorpassò mai l’ampiezza, nè [p. 16 modifica]la popolazione di Marsiglia. Convien dire che un occulto motivo, forse nato da qualche superstizione, determinasse i fondatori a prescegliere una situazione tanto infelice. Fabbricarono le abitazioni di melma, o di pietra, sopra un piano lungo due miglia circa, e largo d’un miglio, alle falde di tre monti sterili. Il suolo è roccia; l’acqua, non esclusa quella del santo pozzo di Zemzem, è amara o salmastra; i pascoli remoti dalla città, e l’uva che si mangia viene da’ giardini di Tayef, che sono lontani sessantasei miglia. Si segnalavano fra le diverse tribù Arabe i Koreishiti che regnavano alla Mecca, per la riputazione, e il valore; ma nel mentre che la trista qualità del terreno era ritrosa all’agricoltura, erano essi collocati in luogo vantaggioso per trafficare. Col mezzo del porto di Gedda, distante solo quaranta miglia, manteneano un’agevole corrispondenza coll’Abissinia, e questo regno cristiano fu il primo asilo de’ discepoli di Maometto. Si trasportavano i tesori dell’Affrica a traverso della penisola a Gerrha, o Katif, città della provincia di Bahrein, edificata da’ fuorusciti della Caldea, i quali, è fama, impiegarono per materiali una rocca di sale19. Si conduceano di poi, colle perle del golfo Persico, su le zattere, sino alla foce dell’Eufrate. Giace la Mecca quasi in pari distanza, cioè trenta giornate di viaggio lontana dall’Yemen che le sta a destra, e dalla Siria posta su la sinistra. Quelle caravane posavano il verno nell’Yemen, la state nella Siria, e l’arrivo loro dispensava i vascelli dell’India dalla noiosa e [p. 17 modifica]difficile navigazione del mar Rosso. I cammelli de’ Koresheiti ritornavano da’ mercati di Saana e di Merab, e da’ porti di Oman e d’Aden, carichi d’aromi preziosi. Le fiere di Bostra e di Damasco fornivano biada alla Mecca, e lavori dell’industria loro: queste lucrose permute portavano l’abbondanza e la ricchezza nelle contrade di quella città, e i più nobili de’ suoi figli accoppiavano l’amor delle armi alla profession del commercio20.

I forestieri e i nativi del paese discorsero con grandi elogi dell’independenza perpetua degli Arabi, e parecchi artificiosi controversisti hanno trovato21 in quello stato singolare, ma naturale, una profezia ed un miracolo in favore della posterità d’Ismaele22. [p. 18 modifica]Parecchi fatti che non si ponno nè dissimulare, nè eludere, rendono imprudente e superflua questa maniera di ragionare: il regno d’Yemen fu soggiogato ora dagli Abissini, ora da’ Persiani, ora da’ Soldani d’Egitto23, e da’ Turchi24: le città sante della Mecca e di Medina varie volte furono soggette a un tiranno Tartaro, e la provincia romana d’Arabia25 comprendea particolarmente il deserto ove Ismaele [p. 19 modifica]e i suoi figli alzarono probabilmente le loro tende in faccia a’ fratelli. Ma questa servitù non fu che passeggera o locale; il Corpo della nazione sfuggì all’impero delle più possenti monarchie. Sesostri e Giro, Pompeo e Traiano, non valsero a terminare la conquista dell’Arabia; e se il moderno sovrano de’ Turchi26 esercita una giurisdizione apparente, il suo orgoglio è ridotto a domandare l’amicizia d’un popolo che provocato è terribile, e che invano si assale. È cosa evidente che la libertà degli Arabi dipende dalla lor indole e dalla qualità del paese. Per molte generazioni, prima di Maometto27, aveano le contrade circonvicine provato con grave danno l’intrepido valore di quelli nella guerra offensiva e nella difensiva. Seguendo le abitudini e la disciplina della vita pastorale, gli uomini si conformano a poco a poco alle pazienti e operose virtù del soldato. La cura delle pecore e de’ cammelli è lasciata alle donne della tribù; ma la gioventù bellicosa, sempre a cavallo, armata ed unita sotto la bandiera dell’Emir, s’esercita a scagliar dardi, a maneggiar la chiaverina e la scimitarra. La memoria della lunga loro independenza è la testimonianza più certa per provarne la durata; ogni generazione novella si sente infiammata dalla brama di mostrarsi degna de’ suoi antenati, degna di conservare l’eredità del valore [p. 20 modifica]che gli fu trasmesso. All’avvicinarsi d’un comune nemico rimane sospesa ogni lite domestica; nelle ultime ostilità contro i Turchi, ottantamila confederati assalirono, e rubarono la caravana della Mecca. Marciano alla battaglia forti della speranza di vincere, e si conducono dietro quanto occorre ad assicurare la ritratta. I lor cavalli, e i cammelli, che in otto o dieci giorni possono correre quattro o cinque cento miglia, si dileguano rapidamente davanti al vincitore; le acque occulte del deserto ne eludono ogni ricerca, e le schiere vittoriose son costrette a languire di fame, di sete, di stenti inseguendo un nemico invisibile, che, ridendosi degli sforzi ostili, riposa sicuro in seno all’ardente sua solitudine. Nè solamente le armi e i deserti de’ Beduini ne francheggiano la libertà; essi sono una barriera per l’Arabia Felice, gli abitanti della quale lontani dal teatro della guerra sono snervati dal clima e dall’abbondanza del suolo. Dalle fatiche e dalle malattie furono distrutte le legioni d’Augusto28, nè mai si giunse, fuorchè per mare, a sottomettere l’Yemen. Quando Maometto29 inalberò il suo sacro Ves[p. 21 modifica]sillonota, era quel regno una provincia del reame di Persia; ma regnavano tuttavia nelle montagne sette principi degli Omeriti, e il luogotenente di Cosroe si indusse a dimenticare la patria, e il suo sciagurato padrone. Gli storici del secolo di Giustiniano ci espongono lo stato degli Arabi independenti, che parteggiarono secondo l’interesse e l’inclinazione propria nella lunga guerra dell’Oriente: fu permesso alla tribù di Gassan l’accamparsi sul territorio di Siria, ed a’ principi di Hira l’edificare una città circa quaranta miglia al mezzodì dalle ruine di Babilonia. Spediti erano e vigorosi nelle fazioni militari, ma venali nell’amicizia, incostanti nella fedeltà, capricciosi negli odii: era più facile l’attizzare questi Barbari erranti che il disarmarli, e nella familiarità che si acquista con chi guerreggia, imparavano a conoscere e a dispregiare l’altiera debolezza di Roma e della Persia. Da’ Greci e da’ Latini le tribù Arabe, disseminate fra la Mecca e l’Eufratenota, erano confuse sotto il nome generale di Saraceninota, cui sino 30 31 32 [p. 22 modifica]dall’infanzia ogni cristiano apprendeva a pronunciare con orrore e spavento.

Quando gli uomini vivono sommessi ad una tirannide interna, invano si rallegrano della lor nativa independenza; ma l’Arabo personalmente è libero, e per qualche rispetto gode i beni sociali senza rinunciare a’ dritti della natura. In ogni tribù, la gratitudine, la superstizione, o la fortuna sollevarono una famiglia particolare sopra dell’altre. Le dignità di Scheik e d’Emir si trasmettono in modo invariabile a questa razza eletta; ma l’ordine di successione è precario e poco determinato, e al personaggio più degno o più avanzato d’età in quella nobile famiglia si conferisce l’officio semplice, ma rilevante, di terminare coi suoi consigli le liti, e di guidare coll’esempio la bravura della nazione. Fu permesso ancora ad una donna valente e coraggiosa di comandare a’ concittadini di Zenobia33. Dalla [p. 23 modifica]momentanea unione di più tribù risulta un esercito: quando è durevole, una nazione; e il Capo supremo, l’Emir degli Emiri, che inalbera davanti a loro la sua bandiera, può dagli stranieri considerarsi per un re. Se i principi Arabi abusano d’autorità, ne sono presto puniti dalla diserzione de’ sudditi, accostumati ad un reggimento dolce e paterno. Non è frenato da verun vincolo il lor coraggio; liberi ne sono i passi; il deserto è per tutti: non sono congiunte le famiglie fra loro che per un contratto naturale e volontario. La popolazione dell’Yemen, più docile, ha tollerato la pompa e la maestà d’un monarca, ma se, come fu detto, non poteva il re uscire del palazzo senza porre a repentaglio la vita34, dovea la forza del suo governo essere in mano de’ Nobili e de’ magistrati. Nelle città della Mecca e di Medina si vede, in mezzo dell’Asia, la forma o piuttosto la realtà d’una repubblica. L’avolo di Maometto e i suoi antenati in linea retta compariscono nelle operazioni al di fuori, e nell’amministrazione interna come principi del loro paese: pure l’impero loro, come quello di Pericle in Atene, e de’ Medici in Firenze, era appoggiato all’opinione che avevasi della [p. 24 modifica]loro sapienza e integrità: il poter loro si divise col patrimonio, e lo scettro passò dagli zii del Profeta al ramo cadetto della tribù de’ Koreishiti. Adunavano il popolo nelle grandi occasioni, e poichè non si guida il genere umano se non per la forza o la persuasione, ne viene che l’uso e la celebrità dell’arte oratoria presso gli Arabi è la più chiara pruova della lor libertà pubblica35. Ma il semplice edifizio della lor libertà era ben diverso dalla struttura dilicata e artificiale delle repubbliche greche e romana, ove ogni cittadino aveva una parte indivisa de’ dritti civili e politici della Comunità. In un sistema di società men complicato, gode la nazione Araba la libertà, perciò che ciascheduno de’ figli suoi aborre dal sottomettersi vilmente alla volontà d’un padrone. Il cuore dell’Arabo è guernito delle austere virtù del coraggio, della pazienza e della sobrietà; coll’amore per la independenza vien contraendo l’abitudine di dominare sè stesso, e la tema del disonore sbandisce da lui lo spavento pusillanime delle fatiche, de’ pericoli, della morte. Il suo contegno denota la gravità del suo pensare; parla adagio, e il suo discorso è sensato e conciso; ride poco, e non ha altro gesto che quello di accarezzare la propria barba, rispettabile simbolo della virilità; pieno del sentimento di sè medesimo, tratta leggermente gli eguali, e senza soggezione i superiori36. La libertà dei [p. 25 modifica]Saraceni sopravvisse alla conquista del lor paese; ebbero i primi Califi a soffrire la franchezza ardita e familiare dei sudditi; salivano in cattedra a persuadere e ad edificare la congregazione, e solamente dopo che fu trasferita la sede dell’impero su le rive del Tigri, introdussero gli Abassidi l’altero e magnifico cerimoniale delle Corti di Persia, e di Bisanzio.

Volendo studiare le nazioni e gli uomini, conviene investigare le cagioni che tendono ad accostarli o a disgiungerli, che restringono o estendono, addolciscono o inaspriscono il carattere sociale. Segregati dal rimanente degli uomini, s’abituarono gli Arabi a confondere le idee di forestieri e di nemici, e la povertà del suolo diffuse fra loro un principio di giurisprudenza, che sempre ammisero, e posero in pratica. Pretendono che nel comparto della Terra, gli altri rami della gran famiglia abbiano avuto in sorte i climi ubertosi e felici, e che la posterità di Ismaele, proscritta e dispersa, abbia il dritto di rivendicare, coll’artificio e colla violenza, quella parte d’eredità che le fu ingiustamente negata. Secondo l’osservazione di Plinio, le tribù Arabe sono dedite al ladroneccio del pari che al traffico, assoggettano a contribuzioni o a spoglio le caravane che attraversano il deserto, e sin da’ tempi di Giobbe e di Sesostrinota, furono i lor vicini le vittime di loro 37 [p. 26 modifica]rapacità. Se un Beduino vede da lungi un viaggiatore solitario, gli corre addosso furiosamente, gridando: Spogliati: tua zia (mia moglie) è senza veste. Se quegli si sottomette subito, ha diritto alla clemenza dell’Arabo; ma la menoma resistenza lo irrita, e il sangue dell’assalito debbe espiare quello che sarebbe stato versato per la difesa. Chi spoglia i passeggeri da sè solo, o con pochi compagni, è trattato da ladro, ma le imprese d’una truppa numerosa prendono qualità di guerra legittima ed onorata. Le disposizioni violente d’un popolo armato così contro il genere umano s’erano inviperite per l’abito di saccheggiare, d’assassinare, di far vendette approvate da’ costumi domestici. Nell’odierna costituzione dell’Europa, il dritto di far pace o guerra appartiene a pochi principi, e ancora più pochi son quelli che in fatto esercitano questo dritto; ma poteva impunemente ogni Arabo, ed anche con gloria, volgere la punta della sua chiaverina contro un concittadino. Qualche somiglianza d’idiomi e di usanze erano quel solo vincolo che congiugneva queste tribù in Corpo di nazione, ed in ogni Comunità era impotente e muta la giurisdizione del magistrato: dalla tradizione si ricordano mille e settecento battaglie38 accadute in que’ tempi di [p. 27 modifica]ignoranza che precedettero Maometto: per l’animosità delle fazioni civili più acerbe facevansi le ostilità, e il racconto in prosa o in versi d’un’antica contesa bastava a riaccendere le stesse passioni nei discendenti delle popolazioni nemiche. Nella vita privata, ogn’uomo, o per lo meno ogni famiglia, era giudice o vindice della causa propria. Quella delicatezza d’onore che valuta più l’oltraggio che il danno, avvelena mortalmente ogni lite degli Arabi; facilmente s’offende l’onore delle lor mogli e delle lor barbe: un atto indecente, un motto frizzante non può espiarsi altramente che col sangue del reo, e tanto è paziente il lor odio nel temporeggiare, che aspettano per mesi ed anni l’occasione di vendicarsi. I Barbari di tutti i secoli hanno ammesso un’ammenda o un compenso per l’omicidio, ma nell’Arabia hanno i parenti del morto l’arbitrio d’accettare la soddisfazione, o di praticare colle proprio mani il diritto di rappresaglia. La loro rabbia giugne alla sottigliezza di ricusare anche la testa del nemico, di sostituire un innocente al colpevole, di rovesciare la pena sul migliore e sul più ragguardevole degli individui di quella razza di cui si dolgono. Se perisce per lor mano, sono esposti essi pure al pericolo delle rappresaglie: vanno ad accumularsi insieme l’interesse e il capitale di questo sanguinario debito, per modo che i Membri delle due famiglie passano i giorni a tendere, e a temere agguati, e tante volte occorre un mezzo secolo a saldare [p. 28 modifica]finalmente questa partita di vendetta39. Siffatta inclinazion micidiale, che non conosce nè pietà, nè indulgenza, è stata peraltro temperata dalle massime dell’onore, che vuole in ogn’incontro privato una specie d’eguaglianza d’età e di forza, di numero e d’armi. Prima di Maometto, celebravano gli Arabi un’annua solennità per due o quattro mesi, durante la quale, dimenticando le nimicizie straniere o domestiche, lasciavano religiosamente in riposo le armi, e questa tregua parziale ci offre meglio l’idea delle loro abitudini di anarchia e di ostilità40.

Ma questo ardore di rapina e di vendetta era mitigato dal commercio, ed anche dal gusto per la litteratura. I popoli più civili del Mondo antico circondano la penisola solitaria in cui giace l’Arabia; il mercadante è amico di tutte le nazioni, e le caravane annuali recavano alle città, ed anche ne’ campi del deserto, i primi albori di luce, e i primi semi di gentilezza. Qualunque siasi la genealogia degli Arabi, derivò la lor lingua della fonte medesima dell’ebrea, della siriaca, della caldaica: le diversità [p. 29 modifica]di dialetto che si notano fra le varie tribù, sono pruova della loro independenza41, e tutte, dopo il nativo idioma, preferiscono quello semplice e chiaro della Mecca. Nell’Arabia, siccome già nella Grecia, la lingua ha fatto più rapidi progressi che non i costumi; ottanta erano le parole per significare il mele, dugento per denotare il serpente, cinquecento per un lione, mille per una spada, in un tempo che questo copioso vocabolario non si conservava ancora che nella memoria d’un popolo illetterato. Nelle iscrizioni de’ monumenti degli Omeriti si trovano caratteri mistici e non usati, ma le lettere cufiche le quali sono il fondamento dell’alfabeto moderno, inventate furono sulle rive dell’Eufrate, e poco dopo introdotte alla Mecca da un forestiero, che quivi si domiciliò dopo la nascita di Maometto. L’eloquenza naturale degli Arabi era estranea alle regole grammaticali, poetiche, e rettoriche, ma avevan essi gran sagacità, ricca fantasia, frasi energiche e sentenziose42; i loro discorsi composti, pronun[p. 30 modifica]con gran forza, facevano molta impressione sull’uditorio. L’ingegno e il valore d’un poeta nascente erano dalla sua tribù, e dalle alleate per tutto decantati. S’imbandiva un solenne banchetto; un coro di donne battendo i timballi, in un assetto da giorno nuziale, cantavano davanti a’ figli e agli sposi la fortuna della loro tribù; erano vicendevoli le congratulazioni pel nuovo campione che s’apparecchiava a sostenere le loro ragioni, pel nuovo eroe che doveva immortalare il lor nome. Le tribù più remote e le più nemiche fra loro, andavano ad una fiera annuale, abolita poi dal fanatismo de’ primi Musulmani, e siffatta assemblea nazionale debbe pure aver contribuito molto a dirozzare, ed a familiarizzare insieme que’ Barbari. Trenta giorni spendeansi a permutare biada e vino, non che a recitare componimenti d’eloquenza e di poesia. La magnanima gara de’ poeti veniva disputando il premio, e l’Opera che ottenea la corona si deponeva negli archivi de’ principi e degli Emiri: furono recati in idioma inglese i sette poemi originali impressi in lettere d’oro, e appesi nel tempio della Mecca43. I poeti Arabi [p. 31 modifica]erano gli storici e i moralisti del loro secolo; e se partecipavano a’ pregiudizii de’ concittadini, incoraggiavano almeno e premiavano la virtù. Godevano cantando l’unione della generosità e del valore, e ne’ sarcasmi contro qualche tribù spregevole, il più amaro rimbrotto era questo, che gli uomini non sapeano dare, e le donne non sapeano rifiutare44. Ne’ campi degli Arabi si scontra quella ospitalità, che si usava da Abramo, e che si cantava da Omero. I feroci Beduini, terrore del deserto, accolgono, senza esame e senza esitazione, lo straniero che osa affidarsi all’onore di quelli, e porre il piede nelle lor tende. Sono trattati con amicizia e con riguardo. Egli entra a parte della ricchezza o della povertà del suo ospite, e quando ha passato riposo, viene rimesso in via, con ringraziamenti, con benedizioni, e fors’anche con donativi. Danno gli Arabi anche pruove di più generosa cordialità verso i fratelli, e gli amici che sono in bisogno: gli atti eroici che loro meritarono gli encomii di tutte le tribù sono senza dubbio di quelli che trapassavano, anche ai lor occhi, gli angusti limiti della prudenza e dell’uso comune. Si faceano dispute per sapere quale tra i cittadini della Mecca superasse gli altri in generosità: per metterli a la pruova, un giorno si rivolsero a tre di quelli, fra cui erano bilanciati i suffragi. Abdallah, figlio d’Abbas, partiva per un lungo viaggio: avea già il piede nella staffa, quando un pellegrino fattosi a lui dinnanzi gli volse queste parole: figlio dello zio dell’apostolo divino, vedi un viaggiatore, che è miserabile. Abdallah smontò [p. 32 modifica]subito da cavallo, offerse al supplicante il proprio cammello, col suo ricco vestiario, e con una borsa di quattromila monete d’oro; non ritenne che la spada, sia perchè fosse di buona tempera, sia che ricevuta l’avesse da un parente rispettato. Il servo di Kais disse al secondo supplicante: il mio padrone dorme, ma tu ricevi quella borsa di settemila monete d’oro: questo è quanto abbiamo in casa: eccoti di più un ordine, a vista del quale ti sarà dato un cammello e uno schiavo. Il padrone, quando fu desto, diede gran lodi al suo fedele ministro, e lo fece libero, con un mite rimprovero di avere, rispettando il suo sonno, messo limiti alla sua liberalità. Il cieco Arabah era l’ultimo de’ tre Eroi: mentre il mendico ricorse a lui, camminava appoggiato sulla spalla di due schiavi: oimè, esclamò, i miei forzieri son voti; ma tu puoi vendere questi due schiavi: e quando tu non li accettassi, io non li voglio più. A queste parole, respinse da sè i due schiavi, o cercò brancollando l’appoggio d’una muraglia. Abbiamo in Hatem un perfetto modello delle virtù degli Arabi45: era prode, liberale, poeta eloquente, ladro scaltrito: metteva ad arrostire quaranta cammelli per li suoi conviti ospitali, e se un nemico veniva supplichevole, gli restituiva i prigioni, e il bottino. L’independenza de’ suoi concittadini non curava le leggi della giustizia, ma tutti [p. 33 modifica]orgogliosamente seguivano il libero impulso della compassione e della benevolenza.

Gli Arabi46, simili agl’Indiani in questo, adoravano il sole, la luna, le stelle, superstizione affatto naturale, che pur fu quella dei primi popoli. Pare che quegli astri luminosi offrano in cielo l’immagine visibile della Divinità: il numero e la distanza loro danno al filosofo, come al volgo, l’idea di uno spazio illimitato; sta un’impronta d’eternità su que’ globi che non sembrano soggetti nè a corruzione, nè a deperimento, e pare che il loro movimento regolare annunci un principio di ragione o d’istinto, e la loro reale o immaginaria influenza mantiene l’uomo nella vana idea che oggetto speciale delle lor cure sieno la terra e i suoi abitatori. Babilonia coltivò l’astronomia come una scienza, ma non aveano gli Arabi altra scuola, nè altra specola fuorchè un cielo limpido, e un territorio tutto piano. Ne’ lor viaggi notturni prendeano a guida le stelle; mossi da curiosità, o da divozione, ne aveano imparato i nomi, le situazioni relative e il luogo del cielo ove comparivano ogni giorno: dall’esperienza aveano appreso a dividere in ventotto parti lo Zodiaco della luna e a benedire le costellazioni che versavano piogge benefiche sull’assetato deserto. Non potea l’impero di que’ corpi raggianti stendersi al di là della sfera [p. 34 modifica]visibile, e sicuramente ammetteasi dagli Arabi qualche potenza spirituale necessaria per presedere alla trasmigrazion dell’anime, e alla risurrezion de’ corpi: si lasciava morire un cammello sul sepolcro d’un Arabo, acciocchè potesse servire il padrone nell’altra vita, e poichè invocavano l’anime dopo morte, doveano ad esse supporre sentimento e potere. Io non conosco bene, e poco mi cale di conoscere la cieca mitologia di que’ Barbari, le divinità locali cui poneano nelle stelle, nell’aria e su la terra, i sessi e i titoli di que’ Dei, le loro attribuzioni o la gerarchia. Ogni tribù, ogni famiglia, ogni guerriero independente creava, e cangiava a suo talento i riti non che gli oggetti del suo culto; ma in tutti i secoli quella nazione, per molti rispetti, accettò la religione del pari che l’idioma della Mecca. L’antichità della Caaba precede l’Era cristiana. Il greco istorico Diodoro47 accenna nella sua descrizione della costa del mar Rosso, che tra il paese de’ Tamuditi e quello de’ Sabei sorgeva un Tempio famoso di cui tutti gli Arabi veneravano in santità: quel velo di lino o di [p. 35 modifica]seta che tutti gli anni è colà mandato dall’imperatore de’ Turchi, fu la prima volta offerto da un pio re degli Omeriti, che regnava sette secoli prima di Maometto48. Potè il culto de’ primi Selvaggi esser contento d’una tenda o d’una caverna, ma poi si innalzò un edifizio di pietra e d’argilla, e non ostante l’incremento dell’arti, e la potenza propria non si scostarono i re dell’Oriente dalla semplicità del primo modello49. La Caaba ha la forma d’un parallelogrammo cinto da un vasto portico; vi si vede una cappella quadrata, lunga ventiquattro cubiti, larga ventitre, alta ventisette, che riceve luce da una porta e da una finestra: il suo doppio tetto è sostenuto da tre colonne di legno; l’acqua pluviale cade da una grondaia, che presentemente è d’oro, e una cupola difende dalle sozzure accidentali il pozzo di Zemzem. Coll’arte, o colla forza ebbe la tribù dei Coreishiti in custodia la Caaba; l’avo di Maometto esercitò la dignità sacerdotale da quattro generazioni inveterata nella sua famiglia, la quale era quella [p. 36 modifica]degli Hashemiti, la più reverenda e la più sacra del paese50. Il recinto della Mecca avea le prerogative del santuario, e nell’ultimo mese d’ogn’anno la città ed il Tempio erano pieni d’una moltitudine di pellegrini che recavano alla casa di Dio voti ed offerte. Queste cerimonie, anche al dì d’oggi osservate dal fedel Musulmano, furono introdotte e praticate dalla superstizione degl’idolatri. Giunti ad una certa distanza, si spogliavano delle vestimenta, faceano sette volte rapidamente il giro della Caaba, e sette volte baciavano la pietra nera, e visitavano sette volte e adoravano le montagne vicine, e gettavano in sette riprese alcune pietre nella valle di Mina, e le cerimonie del pellegrinaggio terminavano, allora come adesso, con un sagrificio di pecore, e di cammelli, la lana e l’unghie de’ quali si seppellivano nel terreno sacro. Le varie tribù trovavano o introducevano nella Caaba gli oggetti del lor culto particolare. Era quel Tempio ornato, o piuttosto deformato, da trecentosessanta idoli che figuravano uomini, aquile, lioni, gazelle; il più notabile era la statua di Hebal, d’agata rossa, che teneva in mano sette frecce senza capo o penne, istrumenti e simboli d’una profonda divinazione; ma questo simulacro era un monumento dell’arte de’ Siri. Alla divozione de’ tempi più rozzi avea bastato una colonna, o una tavoletta, e le rupi del deserto furono tagliate a foggia di numi o d’altari, ad imitazione della pietra nera della [p. 37 modifica]Meccanota creduta, con forti ragioni, come un oggetto originariamente d’un culto idolatra. Dal Giappone al Perù fu in uso la pratica de’ sagrifici, e per esprimere gratitudine o timore, il devoto ha distrutto, o consunto, in onore degli Dei i doni del cielo più cari e preziosi. Parve la vita dell’uomonota l’obblazione più bella da farsi per allontanare una calamità pubblica, e il sangue umano tinse gli altari della Fenicia e dell’Egitto, di Roma e di Cartagine: sì barbara usanza si mantenne fra gli Arabi lunga pezza: nel terzo secolo la tribù de’ Dumaziani sagrificava ogn’anno un giovanettonota, e fu piamente 51 52 53 [p. 38 modifica]scannato un re prigioniero dal principe de’ Saraceni, che serviva sotto le insegne dell’imperator Giustiniano suo alleato54. Un padre che trascina un figlio appiè degli altari è il più sublime e il più grande sforzo del fanatismo. L’esempio dei santi e degli eroi ha santificato l’atto o l’intenzione di questo sagrificio. Lo stesso padre di Maometto fu così destinato a morte per un voto temerario, e si durò gran fatica a redimerlo con cento cammelli. In que’ giorni d’ignoranza, gli Arabi, al pari de’ Giudei e degli Egizi55, s’astenevano dalla carne di porco56, facevano [p. 39 modifica]circoncidere57 i figli giunti alla pubertà; e queste usanze, nè riprovate, nè prescritte dal Corano, sono tacitamente passate alla posterità loro, e ai proseliti. Si è congetturato con molto ingegno, che il sagace legislatore si uniformasse agli ostinati pregiudizi de’ suoi concittadini; ma è più naturale il credere ch’egli abbia seguìto le abitudini e le opinioni della sua gioventù, senza prevedere che un uso analogo al clima della Mecca sarebbe per divenire inutile o incomodo su le rive del Danubio o del Volga. Libera era l’Arabia: avendo la conquista e la tirannia capovolto i regni circonvicini, le Sette perseguitate ripararono su quel suolo felice ove poteano francamente professare la propria opinione, e regolare le azioni a seconda della credenza. Le religioni de’ Sabei, de’ Magi, de’ Giudei, de’ Cristiani erano diffuse dal golfo Persico sino al mar Rosso. In un tempo remotissimo dell’antichità, la scienza de’ Caldei58, e le armi degli Assiri propagato aveano il Sabeismo [p. 40 modifica]nell’Asia: su le osservazioni di duemila anni i sacerdoti e gli astronomi di Babilonia59 fondato aveano il concetto che formarono delle leggi eterne della Natura e della Previdenza. Adoravano i sette Dei, ovvero angeli, che dirigevano il corso de’ sette pianeti, e spandeano su la terra i loro indeclinabili influssi. Alcune immagini e talismani figuravano gli attributi de’ sette pianeti, i dodici segni dello Zodiaco e le ventiquattro costellazioni dell’emisfero settentrionale e dell’australe. I sette giorni della settimana erano dedicati alle lor deità rispettive: i Sabei oravano tre volte al giorno, e il tempio della Luna, situato in Haran, era il termine del loro peregrinare60; per la pieghevolezza della lor fede erano facili a dare continuamente e ad ammettere novelle opinioni. Le loro idee61 su la creazione del Mondo, sul diluvio, su i Patriarchi aveano una singolar so[p. 41 modifica]miglianza con quelle de’ Giudei lor cattivi; citavano i libri secreti d’Adamo, di Seth, d’Enoch; e una lieve tintura dell’Evangelo fece di tai politeisti i Cristiani di San Giovanni che stanno nel territorio di Bassora62. Le are di Babilonia furono atterrate dai Magi, ma la spada d’Alessandro vendicò le ingiurie de’ Sabei; per più di cinque secoli gemette la Persia sotto giogo straniero: alcuni de’ discepoli di Zoroastro scamparono dal contagio della idolatria, e respirarono co’ loro antagonisti l’aria libera del deserto63. Erano già stanziati nell’Arabia i Giudei da sette secoli prima, della morte di Maometto, e le guerre di Tito e d’Adriano ne scacciarono un più gran numero dalla Terra Santa. Questi esuli industriosi aspirarono alla libertà e alla dominazione, formarono sinagoghe nella città, castella nel deserto, e i Gentili, cui convertirono alla religione Mosaica, furono confusi co’ figli d’Israele, a’ quali, pel segno esterno della circoncisione, rassomigliavano. Più operosi ancora e più fortunati furono i missionari Cristiani: sostennero i Cattolici64 le pretensioni loro [p. 42 modifica]universale: le Sette da essi perseguitate si ritrassero di mano in mano al di là de’ confini dell’Impero romano: da’ Marcioniti, e da’ Manichei furono disseminate le loro opinioni fantastiche e i loro evangeli apocrifi: i Vescovi giacobiti e nestoriani65 introdussero nelle Chiese dell’Yemen, e fra i principi di Hira e di Gassan massime più ortodosse. Aveano le tribù la libertà di scegliere, ogni Arabo era padrone di farsi una religione particolare, e talvolta alla superstizione grossolana della sua casa accoppiava la sublime teologia de’ santi e de’ filosofi. Alla concordia generale de’ popoli istruiti andavano debitori del domma fondamentale della esistenza d’un Dio supremo che sovrasta a tutte le potenze della terra e del cielo, ma che sovente s’è rivelato agli uomini col ministero de’ suoi angeli e de’ suoi profeti, e che pel favore o per la giustizia sua ha interrotto con miracoli l’ordine consueto della Natura. I più ragionevoli tra gli Arabi ne riconoscevano il potere quantunque trascurassero d’adorarlo66. Per abitudine piuttosto che per convincimento aderivano a’ resti dell’idolatria. I Giudei e i Cristiani erano il popolo del libro santo: la Bibbia era già tradotta in lingua [p. 43 modifica]Arabica67, e que’ nemici implacabili riceveano con pari fede l’antico Testamento. Amavano gli Arabi di trovare nella Storia de’ patriarchi Ebrei qualche vestigio della propria origine. Festeggiavano la nascita d’Ismaele, e le promesse a lui fatte: riverivano la fede e le virtù d’Abramo; riportavano la sua genealogia e la loro sino alla creazione del primo uomo, e colla stessa credulità68 ammisero i prodigi del sacro testo come i sogni e le tradizioni de’ Rabbini giudaici.

[A. D. 569-609] L’oscura e volgare origine che si attribuì a Maometto è una sciocca calunnia de’ Cristiani69, i quali [p. 44 modifica]così adoperando danno più risalto al merito dell’avversario in vece di menomarlo. La discendenza sua da Ismaele era un privilegio, oppure una favola comune all’intera nazione70; ma se abietti o incerti erano i primi anelli della sua genealogia, provava una nobiltà purissima per più generazioni; discendea dalla tribù di Koreish, e dalla famiglia degli Hashemiti, i più illustri fra gli Arabi, principi della Mecca, e custodi ereditari della Caaba. Abdol-Motalleb, suo avo, era figlio di Hashem, cittadino ricco e generoso, che in tempo di carestia avea mantenuto co’ guadagni del suo traffico i concittadini. La Mecca, sostentata dalla liberalità del padre, fu salvata dal coraggio del figlio. Il regno d’Yemen obbediva a’ principi cristiani dell’Abissinia; avvenne che per un insulto ricevuto, Abrahah, loro vassallo, si determinò a vendicare l’onore della croce; una truppa d’elefanti e un esercito d’Affricani investirono la santa città. Si propose un accomodamento; nella prima conferenza, l’avo di Maometto domandò che fossero restituite le sue greggie. „E perchè, gli disse Abrahah, non implori piuttosto la mia clemenza in favore del tuo Tempio che ho minacciato?„ Perchè, replicò l’intrepido Capo, [p. 45 modifica]le greggie son mie, e la Caaba appartiene agli Dei, che ben sapranno difenderla contro l’oltraggio e il sacrilegio„. La diffalta di viveri o il valore de’ Koreishiti forzarono gli Abissini ad una ritratta obbrobriosa. Si ornò il racconto di quella sconfitta colla apparizione miracolosa d’uno stormo d’uccelli che fecero piovere una grandine di sassi su le teste infedeli, e la memoria di questa liberazione fu per lungo tempo celebrata sotto nome di Era dell’elefante71. La gloria d’Abdol-Motalleb fu rabbellita dalla felicità domestica; visse sino all’età di centodieci anni, e diede la vita a sei figlie e a tredici maschi. Abdallah, suo figlio prediletto, era il più bello e il più modesto giovanetto dell’Arabia; narrasi che nella prima notte delle sue nozze colla vezzosa Amina, della nobile stirpe degli Zahriti, duecento fanciulle morissero di gelosia e di rabbia. Maometto, o, più esattamente scrivendo, Mohammed, unico figlio di Abdallah e d’Amina, nacque alla Mecca quattro anni dopo la morte di Giustiniano, e due mesi dopo la sconfitta degli Abissini72, i quali, vincendo, intro[p. 46 modifica]dotta avrebbero nella Caaba la religione cristiana. Ancora fanciullo perdette il padre, la madre e l’avolo. I suoi zii erano considerati assai, ed erano molti: nella division della successione non ebbe per sua parte che cinque cammelli ed una schiava d’Etiopia. Abu-Taleb, il più ragguardevole de’ suoi zii, fu sua guida nell’interno della casa e fuori, in pace e in guerra73. Nella età di venticinque anni andò Maometto a servire Cadijah, ricca e nobile, vedova della Mecca, che in premio della sua fedeltà gli concedette ben tosto la sua mano e la sua fortuna. Il contratto matrimoniale dimostra, secondo la semplicità di que’ tempi, l’amore scambievole di Maometto e di Cadijah, e lo rappresenta per l’uomo più costumato e gentile della tribù di Koreish. Lo sposo assegnò alla moglie per trattamento vedovile dodici once [p. 47 modifica]d’oro e venti cammelli che furono dati dallo zio74. Questa alleanza ripose il figlio d’Abdallah nel grado de’ suoi antenati, e la saggia matrona fu paga delle domestiche di lui virtù, sinchè giunto all’età di quarant’anni75 assunse il titolo di Profeta, e predicò la religione del Corano. Secondo la tradizione de’ suoi compatriotti, Maometto76 era insigne per avvenenza, vantaggio [p. 48 modifica]esteriore dispregiato soltanto da quelli che nol possedono. Prima di favellare, sia in pubblico sia in privato, si conciliava già il favore degli astanti. Applaudivasi al suo contegno che annunciava un uomo autorevole, alla sua aria maestosa, al suo sguardo penetrante, al suo sorriso piacevole, alla lunga barba, alla fisonomia in cui si leggevano i sentimenti dell’anima, al gesto che cresceva forza alle sue parole. Nella familiarità della vita privata non si dipartiva mai dalla civiltà grave e cerimoniosa del suo paese; i suoi riguardi verso i ricchi e i potenti erano nobilitati dalla condiscendenza e affabilità con cui trattava i cittadini più poveri della Mecca. La franchezza delle sue maniere velava l’astuzia delle sue mire, e l’urbanità prendeva in lui le sembianze d’affetto per la persona a cui parlava, o quelle d’una benevolenza generale. Vasta era e sicura la sua memoria, agevole l’ingegno e adatto alla società, sublime l’immaginazione, e il giudizio chiaro, pronto, decisivo. Aveva coraggio nel pensare come nell’operare, e benchè sia da credersi che i suoi disegni si allargarono gradatamente a seconda del buon esito, la prima idea che concepì della sua missione profetica porta l’impronto d’un ingegno straordinario. Educato in grembo alla famiglia più nobile del paese, avevane preso l’abito di parlare il più puro dialetto degli Arabi; e sapea contenere la facilità e l’abbondanza del discorso, e accrescerne il pregio con un silenzio usato a luogo e tempo. Con tutti questi doni dell’eloquenza, non era in fin fine Maometto che un Barbaro ignorante: non se gli era insegnato quand’era giovane, a leggere, nè a scrivere77; la universale ignoranza lo assolvea da [p. 49 modifica]vergogna e da rimprovero; ma fra limiti angusti era imprigionato il suo spirito, e mancava di quegli specchi fedeli che riflettono su la mente nostra i pensamenti de’ saggi e degli eroi. Veramente il gran libro della Natura stava aperto davanti a’ suoi occhi; nondimeno debbonsi attribuire agli autori della sua vita le osservazioni politiche e filosofiche che ne’ suoi viaggi gli prestano78. Lo veggiamo, la mercè loro, fare confronti di tutte le nazioni e di tutte le [p. 50 modifica]religioni della terra, scoprire la debolezza della monarchia della Persia e di quella di Roma, osservare con isdegno e compassione il suo secolo degenerato, e formare il divisamento di unire sotto uno stesso re e uno stesso Dio l’invitto valore e le virtù prische degli Arabi. Più esatte indagini ci avvertono che Maometto non avea veduto le Corti, gli eserciti, i Templi dell’oriente; che consistettero i suoi viaggi nell’attraversare la Siria andando due volte alle fiere di Bostra e di Damasco; che avea soli tredici anni quando accompagnò la caravana dello zio, e dovè ritornare alla casa di Cadijah tosto ch’ebbe spacciate le merci da lei affidategli. Nelle sue corse precipitose e negligenti potè l’occhio acuto del suo grande intelletto penetrare cose invisibili pe’ suoi rozzi compagni: potè quello spirito fecondo ricevere i semi di varie cognizioni; ma l’ignoranza in cui era dell’idioma siriaco avrà poi repressa moltissimo la sua curiosità, e di fatto io non iscorgo nella vita e negli scritti di Maometto che siensi mai allargate le sue mire oltre i confini dell’Arabia. La divozione e il commercio conduceano ogn’anno alla Mecca pellegrini da ogni Cantone di quella romita parte del globo. Per le libere comunicazioni vigenti fra questa moltitudine di persone poteva un cittadino qualunque aver modo di studiare nella lingua nativa lo stato politico e il carattere delle varie tribù, la dottrina e la pratica de’ Giudei e de’ Cristiani. Poteano gli Arabi aver avuta occasione d’esercitare l’ospitalità con alcuni stranieri utili ad essi, colà guidati da genio o da necessità, e i nemici di Maometto nominarono un Giudeo, un Persiano e un Monaco siriaco come [p. 51 modifica]cooperatori secreti nel comporre il Corano79. Il conversare arricchisce d’idee l’intelletto, ma la solitudine è la scuola del grand’uomo, e l’uniformità di un’opera annuncia la mano d’un autor solo. Si era dato Maometto interamente alla contemplazione religiosa; ogni anno si allontanava dalla gente non che dalle braccia di Cadijah nel mese di Ramadan; si ritraeva nel fondo della spelonca di Hera, distante tre miglia della Mecca80: quivi consultava lo spirito di frode o quello del fanatismo, il soggiorno del quale non è già in cielo, ma nella mente del profeta. Non vi ha che un Dio, e Maometto è l’appostolo di Dio: tale è la fede, che sotto nome d’Islam, predicò egli alla sua famiglia e alla sua nazione, e che così comprende una verità eterna, ed una favola evidente. È lecito agli Apologisti della religione giudaica l’insuperbirsi perchè, in tempo che le favole del politeismo illudevano le nazioni dotte dell’antichità, [p. 52 modifica]da’ lor semplici antenati serbavasi nella Palestina la cognizione e il culto del vero Dio. Non è agevol cosa81 il conciliare gli attributi morali di Jehovah colla norma delle virtù umane; le sue qualità metafisiche sono esposte in un modo oscurissimo; ma ogni pagina del Pentateuco e dei profeti attesta il suo potere: l’unità del suo nome è stampata su la tavola prima della legge, nè mai il suo santuario è macchiato da veruna immagine visibile della Essenza invisibile. Dopo distrutto il Tempio di Gerusalemme, la devozione spirituale della sinagoga depurò, determinò, illuminò la fede degli Ebrei proscritti; nè basta l’autorità di Maometto a giustificare il rimprovero ch’egli ha sempre fatto ai Giudei della Mecca o di Medina d’adorare Ezra come figlio di Dio82. Ma [p. 53 modifica]gli uomini d’Israello più non componevano un popolo, e tutte le religioni del Mondo aveano il torto realissimo agli occhi di quel Profeta, di dare e figli e figlie e colleghi al Dio supremo. Nella goffa idolatria degli Arabi si appalesa senza velo e senza sutterfugio questa pluralità; e malamente si salvavano i Sabei da tale accusa, colla preminenza che davano nella gerarchia celeste al primo pianeta o intelligenza; e nel sistema de’ Magi la lotta de’ due principii tradisce l’imperfezione del principio vittorioso. Parea che i cristiani del settimo secolo fossero a poco a poco ricaduti nella idolatria83; volgeano preghiere in pubblico ed in secreto alle reliquie e alle immagini che deturpavano i Templi d’Oriente; una folla di martiri, di santi, d’angeli, oggetti della venerazion popolare, offuscavano il trono dall’Onnipotente, e i Colliridii, eretici che nel fertile suolo d’Arabia fiorivano, alla Vergine Maria conferivano il titolo e gli onori di Dea84. Sembra che al principio [p. 54 modifica]dell'Unità Divina s’oppongano i misteri della Trinità e dell’Incarnazione. L’idea che naturalmente presentano è quella di tre Divinità uguali, e della trasformazione dell’uomo Gesù nella sostanza del figlio di Dio85. La spiegazione che danno gli ortodossi86 [p. 55 modifica]satisfa soltanto un credente: una curiosità, ed uno zelo smoderato aveano rotto il velo del santuario, e ciascuna Setta dell’oriente avea premura di confessare che l’altre tutte meritavano il rimprovero di idolatria e di politeismo. Il simbolo di Maometto non dà su questa materia motivo di sospetto, nè di equivoco. Il Profeta della Mecca rigettò il culto degl’idoli e degli uomini, delle stelle e de’ pianeti, per quel ragionevole principio che tutto ciò che si leva dee tramontare, ciò che riceve vita dee morire, ciò che è corruttibile dee guastarsi e dissolversi87. Il suo entusiasmo, regolato dalla ragione, adorava nel Creatore dell’Universo un Essere eterno e infinito che non ha forma, nè occupa spazio, che non ha generato nulla, e a cui nulla si rassomiglia; che è presente a’ nostri più occulti pensieri, che esiste per necessità della sua natura, e che da sè trae tutte quante le sue morali e intellettuali perfezioni. I discepoli del [p. 56 modifica]Profeta costantemente aderiscono a sì grandi verità88, e gl’interpreti del Corano le spiegano colla precisione de’ metafisici. Un filosofo deista potrebbe sottoscriversi al simbolo popolare de’ Musulmani89, simbolo per avventura troppo sublime per le attuali facoltà dell’uomo; ed in fatti come mai la sua immaginazione od anche l’intelligenza sua potrebbero comprendere una sostanza incognita, quando da questa si separano tutte le idee di tempo e di spazio, di moto e di materia, di sensazione e di riflessione? La voce di Maometto confermò questo primo principio dell’unità di Dio insegnata dalla ragione e dalla rivelazione; i suoi proseliti dalle frontiere dell’India a quelle di Marocco, sono distinti dal nome d’unitari, e coll’interdizion delle immagini s’andò incontro al pericolo dell’idolatria. Da’ Maomettani fu ammessa con rigorosa osservanza la dottrina de’ decreti eterni, e della predestinazione assoluta, e studiansi essi inutilmente di concordare la prescienza di Dio colla libertà dell’uomo, col suo merito, o demerito, non che di spiegare l’esistenza del male in un Mondo governato da una potenza e bontà infinita.

Il Dio della natura ha posto in tutte le sue opere la pruova della sua esistenza, e ha scolpito la sua [p. 57 modifica]legge nel cuore dell’uomo; i profeti di tutti i tempi hanno avuto la vera o apparente mira di dare a conoscere agli uomini l’Ente supremo, e di rinvigorire la pratica della morale. Maometto non negava a’ suoi predecessori quel credito che pretendeva per sè, e riconosceva una serie d’uomini ispirati dalla caduta del nostro primo padre sino alla promulgazione del Corano90. Durante quell’epoca, egli diceva, centoventiquattromila eletti, singolari per favori ricevuti e per virtù, hanno ottenuto qualche raggio della luce profetica; trecento tredici appostoli sono stati specialmente inviati a distogliere i loro concittadini dall’idolatria e dal vizio; lo Spirito Santo ha dettato cento quattro volumi; e sei legislatori d’una fama trascendente hanno annunciato al Mondo sei rivelazioni successive; per cui si variavano le cerimonie d’una religione immutabile. Adamo, Noè, Abramo, Mosè, Gesù Cristo e Maometto sono i sei legislatori gradatamente eminenti in modo, che ognun di loro è superiore a que’ che lo precedono. Egli metteva nel numero degl’Infedeli chi odiava o negava fede a qualcuno di questi Legislatori. Non sussistevano le scritture de’ Patriarchi se non se nelle copie apocrife de’ Greci e dei Sirii91: non s’era me[p. 58 modifica]ritato Adamo alcun dritto alla gratitudine e al rispetto de’ figli; una classe inferiore de’ proseliti della sinagoga osservava i sette precetti di Noè92, e i Sabei onoravano in certo modo la memoria d’Abramo nella Caldea, ove era nato il patriarca. Aggiugnea Maometto che fra le miriadi parecchie di profeti da Dio inspirati, Mosè e Gesù Cristo soli viveano e regnavano ancora, e che quanto rimaneva degli scritti inspirati era registrato ne’ libri dell’antico e nuovo Testamento. Il Corano93 ha consecrata e abbellita la storia miracolosa di Mosè, e possono i Giudei vendicarsi della lor cattività col vanto di vedere accettati i lor dommi dalle nazioni, delle quali essi beffano i simboli di fede più moderni. Il Profeta dei Musulmani palesa una gran riverenza per l’Autore del cristianesimo94. „Gesù Cristo, figlio di Maria„, dice egli, „è veracemente l’appostolo di Dio, egli è la sua parola mandata nel grembo di Maria; è uno spirito che da lui procede: merita onore in questo Mondo e nell’altro: egli è di quelli che più s’avvicinano alla faccia di Dio„95. Esso poi accumula sul capo di lui le meraviglie e de’ Vangeli veri e de[p. 59 modifica]gli aprocrifi96, nè la Chiesa latina97 ha sdegnato di pigliare in prestito dal Corano l’immacolata Concezione della Vergine madre98. Osserva peraltro che Gesù non era che un mortale, e che nel dì del Giudizio farà testimonianza contro i Giudei che non vogliono riconoscerlo per profeta, e contro i Cristiani che l’adorano come figlio di Dio. La malignità de’ suoi nemici macchiò la sua riputazione, e cospirò contro la sua vita, ma non ne fu peccaminosa che l’intenzione; un fantasma o un malfattore99 gli fu [p. 60 modifica]sostituito su la croce, e il Santo immacolato salì al settimo cielo100. L’Evangelo fu per sei secoli la via della verità e della salute; ma i cristiani a poco a poco posero in dimenticanza le leggi e l’esempio del fondatore, e apprese Maometto dai Gnostici ad incolpare e la chiesa e la sinagoga d’aver esse corrotto il sacro testo101. Mosè e Gesù Cristo si rallegrarono per la certezza della venuta d’un profeta più illustre di loro. La promessa102 del Paracleto, o Spirito Santo, [p. 61 modifica]fatta dall’Evangelo, fu adempiuta nel nome e nella persona di Maometto103, il più grande e l’ultimo degli appostoli di Dio.

A comunicare le idee è necessaria la corrispondenza del linguaggio co’ pensieri: nulla otterrebbe il discorso d’un filosofo nell’orecchio d’un paesano; ma quale differenza impercettibile è mai quella che si rinviene nelle loro intelligenze paragonate insieme, e quella che si scopre nel contatto d’una intelligenza finita con una infinita, la parola di Dio espressa dalla parola o dallo scritto d’un mortale! Può l’ispirazione de’ profeti ebrei, degli appostoli, degli evangelisti di Gesù Cristo, non essere incompatibile coll’esercizio della loro ragione e memoria, e lo stile e la composizione de’ libri nell’antico e nuovo Testamento dimostrano assai la diversità del loro ingegno. Si contentò Maometto alla figura più modesta, ma più sublime, di semplice editore; secondo lui e i suoi discepoli, la sostanza del Corano104 è increata ed eterna; esiste nella essenza della divinità ed è stata inscritta con una penna di luce su la [p. 62 modifica]tavola de’ suoi decreti eterni; l’angelo Gabriele, che nella religione Giudaica aveva ricevuto le più rilevanti missioni, gli recò, in un volume fregiato di seta e di gemme, una copia in carta di quell’Opera immortale, e il fedel messaggero gliene rivelò successivamente i capitoli ed i versetti. In vece di spiegare a un tratto il perfetto e immutabile esemplare del volere di Dio, ne pubblicò Maometto, come glien veniva talento, vari frammenti. Ciascheduna rivelazione è adattata a’ bisogni diversi delle sue passioni, o della sua politica, e per sottrarsi al rimprovero di contraddizione pose per massima, che ogni testo era abrogato o modificato da qualche passo susseguente. I discepoli di Maometto scrissero accuratamente sopra foglie di palma, o su omoplati di agnello, le parole di Dio e quelle dell’appostolo, e queste diverse pagine forono gittate senz’ordine e senza connessione in un forziere che il Profeta diede in custodia ad una delle sue mogli. Due anni dopo la sua morte, Abubeker, amico e successore di lui, compilò ordinatamente e diede alla luce il sacro libro: il quale fu riveduto dal califfo Othmano nell’anno trentesimo dell’Egira, e le varie edizioni del Corano partecipano tutte al miracoloso privilegio di presentare un testo uniforme e incorruttibile. Sia fanatismo, sia vanità, dai pregi del suo libro ricava la prova della verità della sua missione: disfida arditamente uomini ed angeli ad imitare la bellezza d’una delle sue pagine, ed osa affermare105 che Dio solo poteva dettare quello [p. 63 modifica]scritto106. Siffatto argomento fa grande impressione su l’animo di un devoto Arabo inclinato sempre alla credulità e all’entusiasmo, il cui orecchio è sedotto dal solletico de’ suoni, e che per ignoranza è inetto a raffrontare insieme le diverse produzioni dello spirito umano107. Non potrà certamente nè l’armonia, nè la ricchezza dello stile dell’originale passare nelle traduzioni all’udito dell’infedele Europeo. Questi non iscorrerà che con impazienza quella interminabile e incoerente rapsodia di favole, di precetti, di declamazioni che rado inspira un sentimento o un pensiero, che striscia talvolta su la polvere, e talvolta si dilegua per le nuvole. Gli attributi di Dio esaltano l’immaginazione del missionario Arabo; ma i suoi tratti più sublimi son di molto inferiori alla nobile semplicità del libro di Giobbe, scritto nello [p. 64 modifica]stesso paese e nella lingua stessa, da tempo antichissimo108. Se la composizione del Corano sorpassa le facoltà dell’uomo, a qual intelletto superiore debbesi attribuire l’Iliade d’Omero, le Filippiche di Demostene? In tutte le religioni, la vita del fondatore supplisce al silenzio delle sue rivelazioni scritte: le parole di Maometto furono considerate come tante lezioni di verità, le sue azioni come esempi di virtù; dalle sue mogli, dai suoi compagni fu conservata la rimembranza di quanto avea detto e fatto in tutta la vita pubblica e privata. Due secoli appresso, il Sonna, o sia la legge orale, fu statuita e consacrata dal lavoro di Al-Bochari, il quale separò centomila dugentosettantacinque tradizioni autentiche da un ammasso di tremila più incerte o men vere. Ogni giorno soleva questo pio Autore trasferirsi a pregare nel tempio della Mecca. Ivi facea le sue abluzioni colle acque dello Zemzem; depose successivamente le sue carte su la cattedra e su la tomba dell’appostolo, e dalle quattro Sette ortodosse de’ Sonniti fu approvata quell’Opera109. [p. 65 modifica]

Da prodigi strepitosi era stata confermata la missione di Mosè e di Gesù, e gli abitatori della Mecca e di Medina eccitarono più volte Maometto a dare ugual pruova per la sua, a far discendere dal cielo l’Angelo e il libro che diceva d’averne ricevuto; a creare un giardino in mezzo al deserto, o a distruggere la città miscredente con un incendio. Tutte le volte ch’egli si sentia così cimentato da’ Coreishiti, se ne sottrasse, vantando in modo oscuro il dono di visioni e di profezia; se ne appella alle pruove morali della sua dottrina, e si mette a coperto dietro la Providenza, la quale nega que’ segni e quelle maraviglie che scemano il merito della fede, e la colpa aggravano della infedeltà; ma dal tuono modesto, o collerico, delle sue risposte trapela la debolezza e l’imbarrazzo suo, e que’ passi sciagurati non lasciano dubbio veruno intorno all’integrità del Corano110. I suoi Settari parlano de’ suoi miracoli più asseverantemente di lui, e la franchezza della loro credulità va crescendo quanto più son lontani all’epoca e al luogo delle sue imprese spirituali. Credono essi, o assicurano, che andassero gli alberi ad incontrarlo; che fosse salutato da’ sassi; che scaturisse acqua dalle sue dita; che nudrisse miracolosamente i famelici, sanasse gl’infermi, risuscitasse i morti; che una trave mandasse gemiti al suo cospetto; che un cammello gli [p. 66 modifica]dirigesse lagnanze; che una spalla di agnello lo avvisasse ch’era avvelenata, e che la natura vivente del pari che la morta fossero sottomesse all’appostolo di Dio111. Fu descritto seriamente il suo sogno d’un viaggio che fece di notte, come se il fatto fosse vero e materiale. Un animal misterioso, il borak, lo trasportò dal Tempio della Mecca a quello di Gerusalemme, corse un dopo l’altro i sette cieli in compagnia dell’angelo Gabriele; nelle rispettive dimore dei Patriarchi, de’ Profeti, degli Angeli ne ricevette, e restituì loro, la visita. Ebbe egli solo licenza di oltrepassare il settimo cielo; aperse il velame dell’unità; giunse a due tiri di dardo presso il trono di Dio, e tocco nella spalla dalla man dell’Altissimo, ne sentì tal freddo che gli passò il cuore. Dopo questa familiare e considerevole conversazione, calò di nuovo a Gerusalemme, risalì sul borak, tornò alla Mecca, e spese soltanto la decima parte d’una notte a compiere un viaggio di molte migliaia d’anni112. [p. 67 modifica]Giusta un’altra leggenda confuse in un’adunata nazionale i Koreishiti i quali gli facevano una maliziosa disfida. La sua prepotente parola divise in due l’orbe lunare; l’obbediente pianeta si rimosse dal suo cammino, fece sette rivoluzioni intorno alla Caaba, e dopo aver salutato Maometto, in lingua Arabica, si impicciolì ad un tratto, entrò pel collo della sua camicia, e ne uscì per la manica113. Queste novelle meravigliose son di trastullo all’uomo volgare, ma i più gravi autori Musulmani imitano la modestia del lor maestro, e lasciano una certa libertà di credenza o d’interpretazione114. Potrebbono rispondere [p. 68 modifica]che per predicare la religione non era necessario rompere l’armonia della Natura; che una fede priva di misteri non ha uopo di miracoli, e che la spada di Maometto115 non era men potente che la verga di Mosè.

Il politeismo è oppresso e angustiato dalle tante superstizioni che ammette la sua credenza: mille cerimonie venute dall’Egitto erano frammiste alla sostanza della legge Mosaica, e lo spirito del Vangelo s’era dileguato entro la vana pompa del culto. Il pregiudizio, la politica o il patriottismo determinarono il Profeta della Mecca a consacrare le cerimonie degli Arabi, non che l’usanza di visitare la santa pietra della Caaba; ma spirano i suoi precetti una pietà più santa e più ragionevole; l’orazione, il digiuno, la limosina, son questi i doveri religiosi del Musulmano: gli viene data speranza che, nel suo pellegrinaggio verso il cielo, sarà dall’orazione portato a mezza strada, che il digiuno lo condurrà alla porta del palazzo dell’Altissimo, e che le limosine gliene apriranno l’ingresso116. 1. Secondo la tradi[p. 69 modifica]zione del viaggio notturno, l’Appostolo, nella sua conferenza con Dio, ebbe ordine d’imporre l’obbligo a’ suoi discepoli di fare cinquanta orazioni al giorno. Avendogli consigliato Mosè di domandare che scemato fosse questo fardello insopportabile, a poco a poco fu ridotto il numero a cinque, senza che gli affari, i piaceri, i tempi o i luoghi potessero dispensarne. Alla punta del giorno, a mezzodì, dopo pranzo, la sera, e nella prima vigilia della notte debbono i fedeli rinnovare gli atti della lor divozione, e quantunque sia ben menomato il fervor religioso, pure i viaggiatori rimangono edificati tuttavia dalla perfetta umiltà, e dal raccoglimento con cui sogliono orare i Turchi e i Persiani. La pulitezza è una introduzione alla preghiera; sin da’ più remoti tempi, usavano gli Arabi lavarsi di sovente mani, viso e corpo: il Corano comanda espressamente queste abluzioni, e in difetto d’acqua permette il servirsi di sabbia. Dal costume e dalle decisioni de’ dottori sono determinate le parole e le attitudini, se si debba star seduto, in piedi, o colla faccia in terra; ma consiste la preghiera in brevi e fervide giaculatorie; la pietà non è stancata da una noiosa liturgìa, ed ogni Musulmano, in ciò che lo risguarda, è investito del carattere sacerdotale. Fra i deisti che rigettano le Immagini, si è giudicato conveniente fermare il volo della fantasia fissando l’occhio e il pensiero verso un Kebla, o sia punto visibile dell’orizzonte. Da principio fu tentato il Profeta di prescegliere Gerusalemme, per divenire grato a’ Giudei; ma presto si ricondusse ad una inclinazione più naturale, e cinque volte al giorno gli occhi de’ Musulmani abitanti in Astracan, in Fez, in Delhi, stanno devo[p. 70 modifica]tamente rivolti al santo Tempio della Mecca. Non pertanto sono tutti i luoghi ugualmente acconci al servigio di Dio; i Maomettani sono indifferenti a pregare in casa o in istrada. Per distinguerli dai Giudei e da’ Cristiani, il lor Legislatore ha consacrato al culto pubblico il venerdì d’ogni settimana; ragunasi il popolo nella moschea, e l’Imano, per lo più vecchio venerando, sale il pulpito, fa l’orazione, indi una predica; ma la religion Musulmana non ha nè Sacerdoti, nè Sagrificio; e dallo spirito independente del fanatismo sono guardati con dispregio i ministri e gli schiavi della superstizione. 2. Le mortificazioni volontarie117 degli ascetici, tormento e vanto della lor vita, erano odiose ad un Profeta che biasima i suoi discepoli perchè han fatto voto d’astenersi dalle carni, dal sonno, e dalle donne, e che avea fermamente dichiarato che non soffrirebbe monaci nella sua religione118. Istituì peraltro un digiuno di trenta giorni all’anno; raccomandò premurosamente di osservarlo come cosa che monda l’anima e assoggetta il corpo, come un esercizio [p. 71 modifica]salutare d’obbedienza al voler di Dio e del suo Appostolo. Nel mese del Ramadan, dallo spuntare del sole sino al tramontare, il Musulmano non mangia, nè beve; si priva di mogli, di bagni, di profumi, nega a sè stesso ogni cibo atto a sostenere le forze e a fomentare qualunque piacere che può soddisfare i sensi. Secondo le rivoluzioni dell’anno lunare, il Ramadan cade alternativamente nel maggior freddo del verno, o nel più forte ardore della state, e per dare alla sete una stilla d’acqua, convien penosamente aspettare la fine d’una giornata cocente. Maometto è il solo che abbia fatto una legga positiva e generale119 della proibizione del vino, che nelle altre religioni è speciale per alcuni Ordini di sacerdoti o di romiti; e alla sua voce una parte considerevole del globo ha abiurato l’uso di questo salubre ma pericoloso liquore. Vero è che il libertino non si sottomette a queste disgustose privazioni, e l’ipocrita sa eluderle; ma non si può incolpare il Legislatore che ha posto questi regolamenti di sedurre i suoi proseliti coll’esca de’ piaceri sensuali. 3. La carità de’ Musulmani s’abbassa fino agli animali; e per quella che concerne agl’infelici e agli indigenti viene più volte raccomandata dal Corano, non solamente come opera meritoria, ma come un dovere assoluto e indeclinabile. Forse Maometto è l’unico Legislatore che abbia assegnata la precisa [p. 72 modifica]misura della limosina: sembra varia a seconda del grado e della qualità del possedimento, cioè secondo che gli averi consistono in denaro, in grani o in bestiame, in frutti o in mercanzie; ma per adempiere alla legge, debbe il Musulmano dare la decima delle sue rendite; e se ha peccato di frode, o di estorsioni, è tenuto, quasi per una specie di restituzione, a dare la quinta parte in vece della decima120. Necessariamente dee la benevolenza guidare alla giustizia, poichè ci è vietato di far danno a coloro che siamo obbligati ad assistere. Può bene un Profeta rivelare gli arcani del cielo e dell’avvenire; ma nelle sue massime morali non può che ripeterci le lezioni che dal proprio nostro cuore abbiam già ricevute.

Ricompense e gastighi sono il sostegno de’ due dommi, e de’ quattro doveri pratici dell’Islamismo: gli sguardi del Musulmano piamente s’affisano sul Giudizio finale; e benchè non abbia osato il Profeta stabilire l’epoca di quella tremenda catastrofe, accenna oscuramente i segni, che in cielo e in terra, precederanno la dissoluzione universale in cui tutti gli Esseri animati perderanno la vita, e l’ordine della creazione tornerà nel primo caos. Al suono della trom[p. 73 modifica]ba si vedranno dal nulla emergere nuovi Mondi; gli angeli, i genii, gli uomini s’alzeranno fuori dalle tombe, e l’anime umane saranno ricongiunte a’ lor corpi. Pare che sieno stati i primi gli Egiziani ad ammettere la dottrina della risurrezione121; imbalsamarono le mumie, alzarono piramidi per conservare l’antica dimora dell’anima durante un periodo di tremila anni, parziale tentativo ed inutile: con mire più filosofiche si fonda Maometto su l’onnipotenza del Creatore, che con una parola può ravvivare l’argilla priva di vita, e raunare atomi innumerevoli che più non conservino la lor forma o sostanza122. Non è facile a dirsi ciò che sia dell’anima in quell’intervallo, e coloro che sono i più convinti della sua spiritualità sentono troppo l’imbarazzo di spiegare come possa poi pensare e operare senza l’intervento degli organi de’ nostri sensi.

Il Giudizio finale succederà alla riunione del corpo e dell’anima; e Maometto nel farne la dipintura su le tracce de’ Magi, ha soverchiamente seguìto le forme, ed anche le operazioni lente e successive d’un tribunale umano. Lo incolpano i suoi intolleranti avversari d’avere prodigalizzata sino ad essi stessi la speranza della salute, d’aver propugnata la più pec[p. 74 modifica]caminosa eresia, dicendo che ogn’uomo che crede in Dio e fa buone opere può aspettarsi nell’ultimo giorno una sentenza favorevole. Poco si confaceva all’indole d’un fanatico sì ragionevole indifferenza, nè v’ha ragion di pensare che un inviato del cielo abbia scemato il pregio e la necessità delle proprie rivelazioni. Stando al Corano123 la fede in Dio è inseparabile dalla fede in Maometto; le buone opere son quelle da lui prescritte, e da queste due condizioni procede la necessità dell’Islamismo, al quale sono invitate tutte le nazioni come tutte le Sette. Per iscusare la lor cecità spirituale, indarno allegheranno ignoranza, o porranno in mezzo le lor virtù; punite saranno con eterni tormenti: le lagrime poi che versò Maometto sul sepolcro della madre, per la quale gli era vietato il pregare, sono una manifesta contraddizione di fanatismo e d’umanità124. Il decreto è per tutti gl’infedeli; quel grado d’evidenza che avranno rigettato, e la gravità degli errori commessi, determineranno il grado del peccato e della [p. 75 modifica]pena loro. Le dimore eterne de’ Cristiani, degli Ebrei, de’ Sabei, de’ Magi, degl’idolatri, stanno nell’abisso le une sotto l’altre, e l’ultimo inferno è per li miscredenti ipocriti che si copersero colla maschera di religione. Quando la maggior parte degli uomini sarà stata riprovata per le loro opinioni, i soli veri credenti saranno secondo le lor opere giudicati. Una bilancia vera, o allegorica, peserà esattamente il bene e il male della vita d’ogni Musulmano, e allora vi sarà un singolare compenso per la satisfazione delle ingiurie: una parte delle azioni buone dell’offensore sarà computata a vantaggio dell’offeso in proporzione del torto che gli fu fatto, e se l’offensore è spoglio di questa spezie di proprietà morale, una parte proporzionale de’ demeriti dell’offeso verrà ad accrescere la massa de’ suoi peccati. Sarà pronunciata la sentenza secondo che il peso de’ delitti o quello delle virtù tracollerà nella bilancia, e tutti allora senza distinzione passeranno il ponte acuto e pericoloso pendente sopra l’abisso; ma i buoni, camminando su le pedate di Maometto, faranno il loro ingresso glorioso in Paradiso, nel mentre che i peccatori saranno precipitati nel primo e nel meno orribile de’ sette inferni. Varierà la durata dell’espiazione da nove secoli a settemila anni; ma fu abbastanza scaltrito il Profeta per promettere che tutti i suoi discepoli (qualunque si fossero i loro peccati) sarebbero salvati per la lor fede, e per sua intercessione, dall’eterna condanna. Non faccia maraviglia che per mezzo della tema operi la superstizione più fortemente sullo spirito umano, poichè con più energia dall’immaginazione si dipinge la miseria di quel che la felicità della vita futura. Senz’altro sussidio [p. 76 modifica]che fuoco e oscurità, ecco fatta l’immagine d’un supplizio che coll’idea dell’eternità può aggravarsi all’infinito; ma questa idea medesima d’eternità genera un effetto contrario allora che si tratta della durata del piacere; e i nostri godimenti troppo sovente non provengono che dalla cessazione del dolore, o dal paragone dello stato nostro con un altro più infelice. È assai naturale che un Profeta arabo descriva enfaticamente i boschetti, le fontane, le riviere del paradiso; ma in vece di dare a’ beati il nobile diletto della musica, della scienza, dell’amicizia e del commercio spirituale, ne colloca puerilmente la felicità nello sfarzo delle perle e de’ diamanti, delle vesti di seta, de’ palagi marmorei, del vasellame d’oro, de’ vini squisiti, delle golosità raffinate, d’un seguito numeroso, e di tutta quella pompa di lusso e di sensualità, che diviene al suo possessore insipida pur anche nel breve spazio assegnato alla vita nostra mortale. L’ultimo de’ credenti avrà per suo uso settantadue houris, o fanciulle, dagli occhi neri, dotate d’una bellezza mirabile, di tutta la freschezza della gioventù, d’una purità virginale, d’una sensibilità squisita: l’istante del piacere si prolungherà per migliaia d’anni, e con facoltà centuplicate degni saranno i beati della loro felicità. Qualunque siasi per questo rispetto la volgare opinione, certo è ch’egli apre a’ due sessi le porte del cielo; ma non ha voluto spiegarsi riguardo agli uomini che le donne vi troverebbero, per timore di recare inquietudine alla gelosia de’ loro primi mariti, o di turbarne la contentezza col dubbio che eterno sarebbe per avventura il lor matrimonio. Questa dipintura d’un paradiso sensuale suscitò lo sde[p. 77 modifica]gno e forse l’invidia de’ monaci125; l’impura religione di Maometto è la materia delle declamazioni di costoro, e il pudore di qualche apologista del Corano non ha altro spediente a cui appigliarsi fuorchè le figure e le allegorie; ma da’ dottori più bravi e più conseguenti s’ammette, senza arrossirne, l’interpretazion letterale del Corano: di fatti inutile sarebbe la risurrezione del corpo se non gli si restituisce l’esercizio delle sue facoltà più preziose, ed è necessaria la riunione de’ piaceri de’ sensi e dell’intelletto a far perfetta la felicità dell’uomo, che di due sostanze è composto. Le gioie peraltro del paradiso di Maometto non saranno ristrette a’ piaceri del lusso, e alla soddisfazione degli appetiti sensuali; il Profeta dichiara espressamente che i santi e i martiri, ammessi alla beatitudine della visione divina, dimenticheranno e avranno a sdegno tutte le spezie d’un grado inferiore126.

[A. D. 609] Le prime e le più malagevoli conquiste che fece Maometto alla sua nuova religione127, quelle furono [p. 78 modifica]di sua moglie, del servo, del pupillo e d’un amico128, avvegnacchè si dava per Profeta con quelli che men [p. 79 modifica]d’ogn’altro potevano dubitare se fosse o no soggetto alle infermità della natura. Nonostante, credette Cadijah alle parole del marito, e fu a parte della sua gloria: Zeid, docile ed affezionato, si lasciò sedurre dalla speranza della libertà; l’illustre Alì, figlio di Abu-Taleb, abbracciò le opinioni di suo cugino coll’energia d’un giovane eroe; e la fortuna, la moderazione e la veracità di Abubeker francheggiarono la religione del Profeta cui succeder doveva. Persuasi da lui, dieci de’ più ragguardevoli cittadini della Mecca assentirono d’essere privatamente ammaestrati nella dottrina dell’Islamismo: cedendo al grido della ragione e dell’entusiasmo, divennero l’eco del domma fondamentale: „Non vi ha che un Dio, e Maometto è l’appostolo di Dio„; e per guiderdone della lor fede ottennero ancor viventi e ricchezze ed onori, e il comando degli eserciti e l’amministrazione de’ regni. Tre anni furono impiegati in silenzio alla conversione di quattordici proseliti: furono quelli i primi frutti di sua missione; ma sin dal quarto anno prese il carattere d’un Profeta, e volendo comunicare alla sua famiglia la luce delle divine verità, fece imbandire un banchetto composto, è fama, d’un agnello e d’un vaso pieno di latte, e convitò quaranta persone della razza degli Hashemiti. „Cari amici ed alleati, disse loro, vi offro, e sono io il solo che offerir vi possa i più preziosi donativi, i tesori di questo Mondo e dell’altra vita. Iddio mi ha comandato di chiamarvi al suo servizio. Chi è tra voi che voglia [p. 80 modifica]aiutarmi a portare il mio carico? chi vuol essere mio compagno e mio visir?„129 Nulla gli fu risposto: per lo stupore, per l’incertezza o pel disprezzo stavan chiuse tutte le bocche; quando finalmente Alì, giovanotto di quattordici anni, caldo d’ardore e d’ardire, ruppe il silenzio, e sclamò: „Profeta, son io quegli che cerchi: se oserà qualcuno levarsi contro di te, io gli spezzerò i denti, gli caverò gli occhi, gli romperò le gambe, gli spaccherò il ventre. Profeta, sarò io il tuo visir„. Accolse Maometto con gran trasporto questa profferta, e fu ironicamente esortato Abu-Taleb a rispettare la nuova dignità di suo figlio. Avendo poscia voluto il padre d’Alì, in tuono serio, indurre il nipote ad abbandonare un impegno ineseguibile: „Risparmiate i consigli, rispose allo zio suo benefattore l’intrepido fanatico: quando si ponesse il sole sulla mia destra, la luna sulla sinistra non si cangerebbe la mia risoluzione„. Per dieci anni perseverò nell’esercizio della sua incumbenza, e questa religione, che ha soggiogato l’Oriente e l’Occidente, non pose radici nelle mura della Mecca che con gran lentezza e difficoltà. Aveva peraltro il contento di vedere che la sua piccola congregazione di unitari andava ogni giorno crescendo; n’era rispettato come un Profeta, ed egli a tempo e luogo le comunicava il cibo spirituale del Corano. Si può argomentare il numero de’ suoi proseliti dalla partenza [p. 81 modifica]di ottantatre uomini e di diciotto donne che nel settimo anno della sua missione si ritirarono in Etiopia; la sua Setta fu assai presto rafforzata per la conversione di Hamza suo zio, e dell’inflessibile e feroce Omar, che adoperò in favor dell’Islamismo collo stesso zelo con cui ne aveva tentata la distruzione. Non si racchiuse la carità di Maometto nella sola tribù di Koreish o nel recinto della Mecca; nelle grandi solennità, o ne’ giorni di peregrinazione, andava alla Caaba, favellava agli stranieri di tutte le tribù, e sia nelle conferenze particolari, sia nelle pubbliche aringhe, predicava la credenza e il culto d’un solo Dio. Debole allora di forze e saggio nella sua dottrina, sosteneva la libertà di coscienza, e riprovava l’uso della violenza in materia di religione130: ma esortava gli Arabi alla penitenza, e scongiuravali a risovvenirsi degli antichi idolatri di Ad e di Thamud, che la giustizia divina avea disperso dalla faccia della terra131. [p. 82 modifica]

[A. D. 613-622] Dalla superstizione e dalla gelosia era confermato nella incredulità il popolo della Mecca. Gli anziani della città, gli zii del Profeta, affettavano dispregio dell’ardimento d’un orfano che voleva figurare da riformatore del suo paese. Le pie preghiere di Maometto nella Caaba erano perseguitate dalle grida di Abu-Taleb: „Cittadini e pellegrini, gridava, non date orecchio al tentatore, non date retta alle sue empie novità: state invariabilmente attaccati al culto di Al Lata e Al Uzzah„. Non ostante, questo vecchio Capo amava sempre il figlio d’Abdallah, e ne difendeva la persona e la riputazione contro gli assalti de’ Koreishiti, la cui gelosia da lungo tempo era adontata dalla preminenza della famiglia di Hashem. Coprivano l’odio sotto il colore della religione; al tempo di Giobbe, il magistrato Arabo puniva il delitto d’empietà132, e Maometto era reo del delitto d’abbandonare e rinnegare gli Dei della sua nazione; ma la Polizia della Mecca era sì difettosa, che i Capi dei Koreishiti, anzi che accusare un reo, furono obbligati ad usare la persuasione o la violenza. Più volte si diressero ad Abu-Taleb con aria di rimprovero e di minaccia. „Tuo nipote, gli dissero, insulta la nostra religione, accusa d’ignoranza e di follìa i nostri saggi antenati; fallo tacere subitamente acciocchè non turbi e sollevi la città. Se prosegue [p. 83 modifica]così, sguaineremo la spada contro lui e i suoi aderenti, e tu renderai conto del sangue de’ tuoi concittadini„. Abu-Taleb potè pel suo credito e per la sua moderazione sottrarsi alla violenza di questa fazion religiosa. I più deboli o più timidi fra i discepoli di Maometto si ritrassero in Etiopia, e il Profeta andò in cerca d’asili in diversi luoghi, sia in città sia in campagna, che gli offrissero qualche sicurezza. Continuando a difenderlo la sua famiglia, il rimanente della tribù di Koreish s’impegnò a rinunziare ogni commercio co’ figli di Hashem, a nulla comperare da loro, a nulla vendere ad essi, a non contrarre più matrimoni seco loro, ma a perseguitarli senza pietà finattanto che non consegnassero alla giustizia degli Dei Maometto. Questo decreto fu sospeso nella Caaba, ed esposto alla vista di tutta la nazione; gli emissari de’ Koreishiti perseguitarono i Musulmani sin nel cuore dell’Affrica, assediarono il Profeta e i suoi più fidi discepoli, li privarono d’acqua, e con rappresaglie dall’una e dall’altra parte s’inviperì la reciproca animosità. Parve che una tregua, di poca durata, riconducesse la concordia, ma colla morte d’Abu-Taleb rimase abbandonato Maometto in balìa de’ nemici; e la morte della fedele e generosa Cadijah gli levava ogni consolazione domestica. Abu-Sophiam, Capo del ramo d’Ommiyah, succedette alla primaria dignità della repubblica della Mecca. Il quale, zelante adoratore degl’idoli, nemico mortale della famiglia di Hashem, convocò un’assemblea de’ Koreishiti e de’ loro alleati per decidere della sorte dell’appostolo. Imprigionandolo, si poteva provocare il suo coraggio ad atti di disperazione, ed esiliando un fanatico eloquente, e accetto al popolo, [p. 84 modifica]si potea da lui diffondere il male in tutte le province dell’Arabia.  [A. D. 622] Fu decisa la sua morte, ma si convenne che per dividere il delitto e prevenire la vendetta degli Hashemiti, un Membro d’ognuna delle tribù gl’immergerebbe la spada nel petto. Da un angelo o da una spia fu informato di quella sentenza, nè vide scampo fuorchè nella fuga133. A mezza notte, accompagnato dal suo amico Abubeker, fuggì cheto cheto di casa; attendeanlo i sicari alla porta, ma rimasero ingannati dalla figura d’Alì, che dormiva nel letto dell’appostolo, vestito del suo abito verde. Ebbero rispetto i Koreishiti alla pietà del giovane eroe, ma in alcuni versi d’Alì, che sussistono ancora, abbiamo una descrizione commovente delle sue inquietudini, della sua tenerezza, della sua religiosa fiducia. Maometto e il suo compagno si tennero nascosti per tre giorni nella caverna di Thor, distante dalla Mecca una lega: quando imbruniva la notte, il figlio e la figlia d’Abubeker recavano ad essi i viveri, e le notizie di quel che nella città succedeva. I Koreishiti, che attentamente spiavano per tutti i dintorni, giunsero all’ingresso della caverna; ma la Providenza, dicesi, li deluse con un ragnatelo, e con un nido di colombo che erano situati in modo da persuadere che niuno vi fosse entrato. „Non siamo che due, diceva tremante Abubeker: „un terzo è con noi, rispose il Profeta, ed è Iddio medesimo„. Rallentato che fu alquanto l’ardore delle persecuzioni, uscirono della spelonca i due fuggiaschi, e salirono su i lor cammelli; camminavano alla volta di Me[p. 85 modifica]dina quando furono arrestati dagli emissari de’ Koreishiti; a forza di preghiere e di promesse poterono scampare dalle lor mani. In quel critico momento avrebbe la lancia d’un Arabo cangiata la storia del Mondo. Questa fuga di Maometto, che passò dalla Mecca a Medina, stabilisce l’epoca memoranda dell’Egira134, che dopo dodici secoli segna ancora gli anni lunari delle nazioni Musulmane135.

[A. D. 622] La religion del Coran sarebbe morta in culla, se non avesse Medina accolto con fede e con riverenza i santi esuli della Mecca. Medina, o la città che nomavasi Yatreb avanti che fosse consecrata come il trono del Profeta, era divisa fra due tribù, i Caregiti e gli Awsiti, dove i menomi accidenti di continuo risvegliavano l’odio ereditario; erano suoi umili alleati due colonie di Giudei che vantavano origine sacerdotale; senza convertire gli Arabi avevano introdotto fra loro quel genio della scienza e delle idee religiose che procacciò a Medina l’onore d’essere soprannomata la città del Libro. Avendo le predicazioni di Maometto convertiti alcuni de’ suoi cittadini [p. 86 modifica]più nobili venuti in pellegrinaggio alla Caaba, tornando a casa, diffusero la cognizione del vero Dio e del suo Profeta; e la novella alleanza de’ Medinesi coll’appostolo fu ratificata dai loro deputati in due conferenze secrete, che si tennero la notte sur una collina dei sobborghi della Mecca. Nella prima, dieci Caregiti e due Awsiti si unirono di religione e d’affetto, e dichiararono in nome delle loro mogli, dei figli e dei fratelli assenti che per sempre professerebbero i dommi del Corano, e ne osserverebbero i precetti. Produsse la seconda un’associazione politica che fu il principio dell’impero de’ Saraceni136. Settantatre uomini e due donne di Medina ebbero una solenne conferenza con Maometto, co’ suoi alleati e co’ suoi discepoli, e scambievolmente prestarono giuramento di fedeltà. Promisero gli abitanti di Medina in nome della loro città, che se sbandito fosse Maometto, lo riceverebbero come un alleato, che gli obbedirebbero come a Capo, e che lo difenderebbero sino all’ultima estremità con tanta costanza come le proprie mogli ed i figli. „Ma se vi richiama la vostra patria, dimandarono con un’inquietudine per lui onorevole, abbandonerete i vostri nuovi alleati? — Tutto ora è comune tra noi, rispose Maometto ridendo; il vostro sangue è mio sangue; mia la ruina vostra. Siamo avvinti gli uni agli altri dall’onore e dall’interesse. Io son l’amico vostro, e il nemico de’ vostri nemici. — Ma se spendiamo la vita per voi, qual premio ne avremo? soggiunsero i deputati di Medi[p. 87 modifica]na. — Il Paradiso, replicò Maometto. — Stendi dunque la mano, gridarono. L’appostolo stese la mano, ed essi rinnovellarono il giuramento di sommessione e di fedeltà. Ratificò il popolo questo trattato, e con unanime voto accettò l’Islamismo. Si rallegrarono gli abitanti di Medina per l’esilio di Maometto, ma tremavano per la sicurezza sua, e ne attesero con impazienza l’arrivo. Dopo un cammino pericoloso e rapido lungo la costa del mare, posò a Koba, situata a due miglia da Medina, e fece il suo pubblico ingresso sedici giorni dopo la fuga dalla Mecca. Gli andarono incontro cinquecento cittadini, e da ogni parte udì acclamazioni di fedeltà e di riverenza. Sedeva sopra un cammello femmina, coperto da un ombrello la testa, e davanti a lui era portato un turbante spiegato a guisa di stendardo. I suoi più prodi discepoli, dispersi dalla tempesta, si radunarono intorno a lui, e i suoi Musulmani, eguali tutti di merito si distinsero co’ nomi di Mohageriani, e d’Ansari, fuggiaschi gli uni dalla Mecca, e gli altri ausiliari di Medina. Per soffocare ogni seme di gelosia, bravamente immaginò di congiugnere a due a due i primari tra loro con investirli di dritti e obbligandoli a legami fratellevoli. Dopo questa disposizione, Alì rimase solo, e amorevolmente dichiarò il Profeta sè voler essere compagno e fratello di quel giovane gentiluomo. Riuscì in tutto a bene questo espediente; e in pace e in guerra fu rispettata la santa fraternità, e le due parti studiarono di segnalarsi con generosa gara di coraggio e di fedeltà. Una sola volta addivenne che una contesa accidentale alcun poco turbò quella unione; un patriotta di Medina accusò i forestieri d’insolenza; lasciò travedere che si potevano cacciare, ma fu inteso con raccapriccio, e suo figlio [p. 88 modifica]si profferse vivacemente a recare al piè dell’appostolo la testa del proprio padre.  [A. D. 622-632] Dal punto che Maometto stanziossi in Medina, esercitò i poteri di re e di gran Pontefice, e fu empietà il non piegare il capo a’ decreti d’un giudice dalla sapienza divina inspirato. Ricevette egli in dono o comperò un piccolo pezzo di terra appartenente a due orfanelli137: quivi fabbricò una casa ed una moschea più venerande nella rozza loro semplicità che non i palagi ed i templi de’ Califfi d’Assiria. Fece incidere nel suo suggello d’oro o d’argento il suo titolo di appostolo; quando faceva orazione, e predicava nell’assemblea, che tenevasi ogni settimana, si appoggiava al tronco d’una palma, e solamente lungo tempo dopo fece uso d’un seggio, o d’una cattedra di legno lavorata alla grossolana138. Dominava già da sei anni, quando mille e cinquecento Musulmani raccolti sotto le armi giurarono nuovamente [p. 89 modifica]fedeltà; e Maometto di bel nuovo promise loro assistenza sino alla morte dell’ultimo di loro, o al totale discioglimento della Lega. Nel campo medesimo ebbe a scorgere con maraviglia il deputato della Mecca quanta fosse l’attenzione de’ fedeli alle parole, e ai sguardi del Profeta, la premura nel raccogliere sia gli sputi sia i capegli che gli cadevano, e l’acqua che serviva alle sue abluzioni; quasi tutte queste cose un grado avessero di profetica virtù. „Ho veduto, diss’egli, il Cosroe della Persia e il Cesare di Roma; ma non ho mai veduto un re così rispettato da’ sudditi quanto lo è Maometto da’ suoi compagni„. Il devoto fervore del fanatismo in fatti si manifesta in guisa più energica e vera che la fredda e cerimoniosa servilità delle Corti.

Ogn’uomo, nello stato di natura, ha diritto d’impiegare la forza dell’armi in difesa della sua persona o delle sue proprietà, di respingere ed anche di prevenire la violenza de’ nemici, e di continuare le ostilità sinattanto che abbia ottenuto una giusta soddisfazione, o che sia giunto a quell’ultimo segno ch’è stabilito per le rappresaglie. Nella libera società degli Arabi, i doveri di suddito e di cittadino non metteano un grave freno, e Maometto, adempiendo una missione di carità e di pace, era stato spogliato e sbandito dall’ingiustizia de’ suoi concittadini. Per l’elezione fattane da un popolo independente, il fuoruscito della Mecca era stato elevato alla dignità di sovrano, e legittimamente avea ricevuta la prerogativa di formare alleanze, e di fare la guerra offensiva e difensiva. Suppliva la pienezza della potenza divina all’imperfezione de’ suoi diritti, e diveniva il fondamento del suo potere: prese egli nelle sue [p. 90 modifica]nuove rivelazioni un’aria più feroce e più sanguinaria, pruova, che l’anteriore moderazione che usò era stata una conseguenza della sua debolezza139. Avea tentato le arti della persuasione, ma passato era il tempo della pazienza; dichiarò che Iddio gli comandava di propagare la religione col ferro, di abbattere i monumenti dell’idolatria, e di perseguitar le nazioni miscredenti senza rispetto a’ giorni o a’ mesi santi. Attribuì all’autore del Pentateuco e dell’Evangelo que’ precetti di sangue che dal Corano ripetonsi ad ogni pagina; ma il carattere di dolcezza che si scorge nello stile dell’Evangelo permette di spiegare altrimenti quel passo equivoco ove sta scritto, che Gesù ha recato in terra non la pace, ma la spada; e non denno confondersi le sue virtù pazienti e modeste collo zelo intollerante de’ principi e de’ vescovi, che il nome disonorano di suoi discepoli. A giustificare questa guerra di religione, allegava con più esattezza Maometto140 l’esempio di Mosè, o quello de’ Giudici e de’ re d’Israello. Le leggi militari degli Ebrei sono anche più rigorose di quelle dell’Arabo legislato[p. 91 modifica]re141 . Il Dio degli eserciti marciava in persona davanti a’ Giudei; se una città resisteva, passavano a fil di spada i maschi senza distinzione: le sette nazioni di Canaan furono esterminate, nè il pentimento o la conversione valeano a sottrarle dall’inevitabile sentenza, per la quale non si dovea entro il recinto del lor dominio risparmiare veruna creatura vivente. Maometto almeno lasciò a’ nemici la libertà di scegliere la sua amicizia, la sommessione, o la guerra. Come tosto professassero l’Islamismo, gli ammetteva a’ vantaggi temporali o spirituali de’ suoi primi discepoli, e li facea combattere sotto le bandiere medesime per la gloria della religione a cui s’erano addetti. Per lo più la sua clemenza era ligia al suo interesse, ma di rado conculcava il nemico atterrato, e par che prometta che per un tributo lascerà a’ men colpevoli de’ sudditi increduli il culto loro, o almeno l’imperfetta lor fede. Sin dal primo mese del suo regno eseguì quanto avea ne’ suoi precetti statuito su la guerra religiosa, e inalberò il suo vessillo bianco davanti le porte di Medina; l’appostolo guerriero si trovò in persona a nove bat[p. 92 modifica]taglie o a nove assedii142, e in dieci anni compiè da sè stesso, o coll’opera de’ suoi luogotenenti, cinquanta imprese guerresche. Continuava egli, nella sua qualità d’Arabo, a esercitare le professioni di mercadante e di ladrone, e colle piccole scorrerie che andava facendo, per difendere o assaltare una caravana, disponeva a poco a poco le sue genti alla conquista dell’Arabia. Una legge divina avea regolato il comparto del bottino143, il quale veniva fedelmente ammassato in un solo cumulo; riservava il Profeta per opere pie e caritatevoli un quinto dell’oro e dell’argento, de’ prigionieri e del bestiame, de’ mobili e degl’immobili; del resto faceva parti eguali cui distribuiva a’ soldati, sia che avessero riportato vittoria, o custodito il campo; le ricompense di quelli che avessero perduto la vita passavano alle mogli ed ai figli; per animare poi la gente ad accrescere la cavalleria, dava una porzione al cavaliere ed una al cavallo. Accorrevano da ogni luogo gli Arabi erranti a porsi sotto il vessillo della religione e del saccheggio: era stato premuroso il Profeta a santificare il commercio de’ soldati colle [p. 93 modifica]donne prigioniere sia che fossero trattate come spose, sia da concubine; egli mostrava loro nel godimento della fortuna e della bellezza una debole immagine delle gioie del paradiso destinate a’ prodi martiri della Fede: „La spada„, egli diceva, „è la chiave del cielo e dell’inferno; una goccia di sangue versata per la causa di Dio, una notte passata in armi, varranno più che due mesi di digiuni e d’orazioni: chi perirà in battaglia otterrà il perdono de’ peccati; nell’ultimo giorno, le sue ferite saranno lucide come il minio, odorose come il muschio; ali d’angeli e di cherubini saranno sostituite alle membra ch’egli abbia perdute„. In tal guisa seppe infiammare l’anima intrepida degli Arabi. L’idea di un Mondo invisibile si dipingeva con forti colori alla fantasia di quel popolo, e quella morte che già sprezzavano divenne oggetto di speranza e di desiderio. Insegna il Corano, nel significato il più assoluto, i dommi della predestinazione e della fatalità che spegner potrebbero ogn’industria ed ogni virtù, se l’uomo regolasse la vita colle proprie opinioni: que’ dommi peraltro hanno in ogni tempo esaltato il coraggio de’ Saraceni e de’ Turchi. I primi compagni di Maometto marciavano alla battaglia con intrepidezza: non vi ha pericolo ove non sia incertezza d’evento; se erano predestinati a morire nel proprio letto, esser doveano sicuri e invulnerabili in mezzo a’ dardi de’ combattentinota 144 [p. 94 modifica]

Avrebbe la fuga di Maometto bastato per avventura a satisfare i Koreishiti, se temuto e pressentito non avessero la vendetta d’un nemico il quale era in luogo ove intercettare il commercio loro per la Siria nel passaggio all’andata e al ritorno pel territorio di Medina. Lo stesso Abu-Sophian colla sola scorta di trenta o quaranta guerrieri guidava una caravana di mille cammelli, e fu tanto felice, o ben regolato, il suo viaggio che deluse la vigilanza del Profeta, ma seppe che i santi ladroni stavano in imboscata, spiando il suo ritorno. Spedì un corriere a’ suoi fratelli della Mecca, i quali per il timore di perdere merci e munizioni volarono immantinenti a soccorrerlo con tutte le forze della città. La santa masnada dell’appostolo contava trecento tredici Musulmani, fra i quali settantasette fuorusciti, il resto ausiliari; non avea che settanta cammelli, che servivano alternativamente a ciascheduno di loro (i cammelli d’Yatreb erano terribili in guerra); ma tanta era la miseria de’ suoi primi discepoli, che due soli erano coloro che potessero comparire a cavallo sul campo di battaglia145. Si trovava egli nella celebre. [p. 95 modifica]e fertile vallata di Beder146, lungi tre giornate da Medina, quando le sue vedette l’avvisarono, che s’appressava da una parte la caravana, e dall’altra i Koreishiti con cento cavalli ed ottocento cinquanta fanti. Dopo breve deliberazione decise di sagrificare le ricchezze alla gloria ed alla vendetta; fece un piccolo trinceramento per coprire le sue genti e un ruscello d’acqua dolce che bagnava la valle. „O Dio, esclamò egli, mentre i Koreishiti calavano dalle colline, o Dio, chi più t’adorerà su la terra se i miei guerrieri periscono? — Animo, figli miei, stringete le file, scagliate i vostri dardi, e la vittoria è nostra„. Dopo queste parole s’assise con Abubeker sopra un trono o cattedra147, ed invocò con gran fervore l’aiuto di Gabrielle e di tremila angeli. Tenea [p. 96 modifica]fisso l’occhio sul campo di battaglia; già cedeano i suoi soldati, ed erano sul punto di rimanere sconfitti; quando il Profeta si slanciò dal trono, salì a cavallo, e gittò un pugno di sabbia in aria, gridando: „La faccia di coloro sia coperta d’obbrobrio„. I due eserciti, colpiti dal suono della sua voce, credettero vedere la squadra angelica da lui chiamata in soccorso148: tremarono i Koreishiti, e si diedero alla fuga: settanta de’ più valorosi furono uccisi, e settanta prigionieri decorarono il primo trionfo dei fedeli. I morti furono spogliati e insultati: due prigionieri giudicati i più rei ebbero la morte, e gli altri pagarono pel riscatto quattromila dramme d’argento, che furono qualche compenso per la fuga della caravana; ma indarno i cammelli d’Abu-Sophian cercarono una nuova strada in mezzo al deserto e lungo l’Eufrate; pervenne ancora la vigilanza di Maometto a coglierli in via, e il bottino dovette essere considerevole, se, come è fama, la quinta parte dell’appostolo fu di ventimila dramme. Abu-Sophian irritato per la perdita pubblica e propria, ragunò un corpo di tremila uomini, fra’ quali settecento armati di corazze e dugento cavalieri: tremila cammelli lo seguitarono, ed Henda, sua sposa, con quindici matrone della Mecca, batteva conti[p. 97 modifica]nuamente il tamburino per animare i soldati ed esaltare la grandezza di Hobal, la divinità più popolare della Caaba.  [A. D. 623] Da novecento cinquanta credenti era difeso il vessillo di Maometto; la sproporzione del numero non era più grande di quel che fosse alla giornata di Beder, e tanta era la lor fiducia che la vinse su l’autorità divina, e su le ragioni umane che volle adoperare Maometto per dissuaderli dal combattere. La seconda battaglia si fece sul monte Ohud, lungi sei miglia da Medina al settentrione149: s’avanzarono i Koreishiti in forma di mezza luna, e Caled, il più terribile e il più fortunato de’ guerrieri Arabi, conducea l’ala diritta della cavalleria. Maometto da bravo capitano collocò i suoi soldati sul pendìo del colle, e lasciò nel di dietro un distaccamento di cinquanta arcieri. La carica fu sì vigorosa che sbaragliò il centro degli idolatri, ma nell’inseguirli perdettero il vantaggio del terreno; gli arcieri abbandonarono il posto; gli uni e gli altri allettati dall’esca del bottino, disubbidirono al generale, e ruppero l’ordinanze. Allora l’intrepido Caled girando la sua cavalleria a’ fianchi, e da tergo de’ nemici, gridò ad alta voce che Maometto era stato ucciso. Avea questi di fatto sofferto un colpo di chiaverina nella faccia, e un sasso gli aveva spezzato due denti; ma in mezzo al disordine ed al terrore sgridava gl’infedeli feritori d’un Profeta, e benediva la mano amichevole che ne stagnava il sangue, e lo conduceva in luogo di sicurezza. Settanta martiri perdettero la vita pe’ peccati del popolo; caddero orando, dice l’appostolo, e [p. 98 modifica]tenendo ciascuno abbracciato il corpo del commilitone morto con lui150: le femmine della Mecca inumanamente mutilarono i cadaveri, e la sposa di Abu-Sophian mangiò un brano delle viscere di Hamza, zio di Maometto. Poterono i Koreishiti godere del trionfo della loro superstizione, e sfogare il furore ond’erano invasi; ma il piccolo esercito di Maometto si riordinò prestamente sul campo di battaglia, senza avere però nè forza, nè coraggio per porre l’assedio a Medina.  [A. D. 625] Nell’anno seguente fu assalito l’appostolo da diecimila nemici, e questa terza spedizione prese il nome ora dalle nazioni che marciavano sotto le bandiere d’Abu-Sophian, ora dalla fossa che fu scavata davanti alla città e al campo, dove, in numero di tremila, i Musulmani si tenevano trincerati. Evitò Maometto prudentemente un’azion generale: Alì si segnalò in un duello: la guerra si prolungò per venti giorni, indi i confederati si ritirarono. Una bufèra accompagnata da pioggia e da grandine rovesciò le lor tende: un avversario insidioso ne fomentava le dissensioni, e i Koreishiti nella diffalta de’ loro alleati perdettero ogni speranza di atterrare il trono, o di fermar le conquiste dell’uomo invincibile che aveano proscritto151. [p. 99 modifica]

[A. D. 623-627] Dalla scelta che volea far Maometto della città di Gerusalemme per primo Kebla dell’orazione, si manifesta l’inclinazione inspiratagli da’ Giudei; ed era da desiderarsi, pe’ temporali loro interessi, che avessero ravvisato nel Profeta arabo la speranza d’Israele, e il Messia ad essi promesso. L’ostinazione dei Giudei convertì in odio implacabile la sua affezione; perseguitò egli quel popolo sciagurato sino all’ultimo istante della sua vita, e pel suo duplice carattere d’appostolo e di conquistatore, avvenne che la sua persecuzione si stese a questo Mondo e nell’altro152. I Kainoka abitavano Medina, protetti dalla città: Maometto colse l’occasione d’un tumulto, nato a caso, per dichiarare che dovevano essi abbracciare la sua religione, o combattere. „Oimè, risposero sbigottiti gli Ebrei, noi non sappiamo trattare l’armi, ma perseveriamo nella credenza e nel culto de’ padri nostri; e perchè vuoi tu ridurci alla necessità d’una giusta difesa?„ Questa lotta disuguale si terminò in quindici giorni, e solo con estrema ripugnanza s’arrese il Profeta alle istanze de’ suoi alleati, e fece grazia della vita a’ prigioni, ma ne confiscò le ricchezze. Divennero più formidabili l’armi di questi in pugno a’ Musulmani di quel che lo fossero state in lor mano, e settecento infelici esiliati dovettero colle mogli e co’ figli mendicare un asilo su le frontiere della Sorìa. I più rei erano i Nadhiriti, per aver tentato d’assassinare il Profeta in una conferenza amiche[p. 100 modifica]vole. Maometto ne assediò il castello distante da Medina tre miglia; ma quelli si difesero con tanto valore che ottennero una capitolazione decorosa; uscì la guarnigione a tamburo battente, e ricevette tutti gli onori di guerra. Aveano i Giudei suscitata la guerra de’ Koreishiti, e vi si erano immischiati: dal punto che le nazioni si scostarono dalla fossa, Maometto, senza mai deporre l’arnese, s’incamminò nel giorno stesso ad estirpare la razza nemica dei figli di Koraidha. Dopo una resistenza di venticinque giorni, si arresero a discrezione. Fondavano qualche speranza nell’intervento de’ loro alleati di Medina, ma avrebbero dovuto sapere che il fanatismo estingue l’umanità. Un vecchio venerando, al giudizio del quale si sottoposero volontari, pronunziò contro tutti la sentenza di morte. Settecento Ebrei incatenati furono condotti su la piazza del mercato, furono calati vivi nella fossa preparata pel supplizio e per la sepoltura loro, e il Profeta con occhio imperturbato mirò la strage de’ suoi nemici disarmati. Da’ Musulmani si ereditarono le pecore e i cammelli degli uccisi; trecento corazze, cinquecento picche, e mille lance furono la parte più utile delle spoglie. Chaibar, città antica e opulenta, lontana sei giornate al nord-est di Medina, era il centro della potenza degli Ebrei in Arabia; il suo territorio fertile, nel cuor del deserto, era sparso di piantagioni e di bestiame, e difeso da otto castella, molte delle quali imprendibili. Avea Maometto dugento cavalieri, e mille e quattrocento fanti; in una serie d’otto assedii laboriosi, che bisognava fare in maniera metodica, queste schiere furono esposte a’ rischi, alla fatica e alla fame, e già i Capi più ardimentosi disperavano del buon successo. [p. 101 modifica]Rianimò l’appostolo la lor fedeltà e il coraggio citando le glorie d’Alì, ch’egli nomò il Leone di Dio. Forse si può credere per vero che la terribile scimitarra di questo tagliò in due un soldato Ebreo di statura gigantesca; ma sarebbe difficile per noi lodare il senno de’ romanzieri, che ce lo rappresentano in atto di levare da’ gangheri la porta d’una Fortezza, coprendo con quest’enorme scudo il braccio sinistro153. Dopo la resa delle castella, dovette la città di Chaibar sottomettersi al giogo. Il Capo della tribù fu messo alla tortura in presenza di Maometto, che voleva forzarlo a dichiarare in che luogo nascosti avesse i tesori: l’industria de’ pastori e degli agricoltori ottenne un’indulgenza precaria; fu permesso che migliorassero il proprio patrimonio, ma a piacimento del vincitore, e a patto di dargli la metà della rendita. Sotto il regno di Omar, gli Ebrei di Chaibar furono trapiantati in Siria, e il Califfo notificò in quella occasione, che nel letto di morte aveagli il suo signore ordinato di cacciare dall’Arabia ogni religione che non fosse la vera154.

[A. D. 629] Cinque volte al giorno volgea Maometto lo sguardo [p. 102 modifica]verso la Mecca155, e da’ più santi e più forti impulsi sentiva in sè suscitata la smania di rientrare da conquistatore in quella città, e in quel Tempio, da cui era stato espulso; o vegliando, o dormendo, sempre avea davanti agli occhi la Caaba: egli interpretò certo suo sogno come una visione ed una profezia; spiegò la santa bandiera, e si lasciò sfuggire di bocca l’imprudente promessa di trionfo. Il suo viaggio da Medina alla Mecca non annunciava che una peregrinazione religiosa e pacifica; settanta cammelli ornati pel sacrificio precedeano la sua vanguardia. Rispettò il territorio sacro, e poterono i prigionieri, rimandati senza riscatto, divolgare la sua clemenza; ma come ebbe messo piede nella pianura, lontano dalla città una giornata, esclamò: „Coloro si sono vestiti di pelle di tigre„. Fu arrestato dalla moltitudine e dal valore de’ Koreishiti, e aveva a temere non gli Arabi del deserto, trattenuti sotto le sue insegne dalla speranza del bottino, abbandonassero poi e tradissero il lor capitano. In un momento l’imperterrito fanatico si trasformò in un freddo e circospetto politico, omise nel trattato co’ Koreishiti la qualità di appostolo di Dio, segnò con essi e co’ loro alleati una tregua di dieci anni; s’impegnò a restituire i fuggiaschi della Mecca che abbracciassero la sua religione, e ottenne solamente per patto l’umile privilegio d’entrare nella Mecca l’anno dopo, come amico, e di rimanervi tre giorni per terminare le cerimonie [p. 103 modifica]del pellegrinaggio. La vergogna e il dolore copersero come d’una nube la ritirata de’ Musulmani, e per questo infelice successo poterono facilmente accusare d’impotenza un Profeta, che sì frequentemente avea spacciato le sue vittorie come pruova di sua missione. Nell’anno seguente, si risvegliarono alla vista della Mecca la fede e la speranza de’ pellegrini: stavano le loro spade nel fodero; fecero sette volte il giro della Caaba su le pedate di Maometto; i Koreishiti s’erano ritirati su le colline; e Maometto, dopo le solite cerimonie, uscì nel quarto giorno della città. La sua divozione edificò sommamente il popolo; sorprese, divise, sedusse i Capi; e Caled e Amron, che poi doveano soggiogare la Siria e l’Egitto, abbandonarono in tempo l’idolatria che già era vicina a perdere tutto il credito. Vedendo Maometto che cresceva di potere per la sommissione delle tribù Arabe, raunò diecimila soldati pel conquisto della Mecca; e gl’idolatri, com’erano i più deboli, furono di leggieri convinti che fosse stata rotta la tregua. L’entusiasmo e la disciplina acceleravano i passi de’ suoi guerrieri, e assicuravano il segreto della sua impresa. Finalmente da diecimila fuochi venne l’annunzio a’ Koreishiti spaventati dell’intenzione, dell’avvicinamento e della forza irresistibile del nemico. Il fiero Abu-Sophian corse ad offrire le chiavi della città, ammirò quella sì varia moltitudine d’armi e di stendardi fatti passare alla sua presenza, osservò che il figlio d’Abdallah aveva acquistato un gran regno, e sotto la scimitarra d’Omar confessò essere Maometto l’appostolo del vero Dio. Macchiò il sangue romano il ritorno di Mario e Silla, e qui pure dal fanatismo della religione era stimolato il Profeta a trarre vendetta; e attizzati dalla [p. 104 modifica]memoria delle ingiurie sofferte avrebbero i suoi discepoli con grande ardore eseguito, o forse anticipato l’ordine della strage. Anzichè satisfare al risentimento proprio, e a quello delle sue soldatesche, Maometto proscritto e vittorioso156 perdonò a’ suoi concittadini, e conciliò le fazioni della Mecca. Entrarono nella città i suoi soldati in tre colonne; ventotto cittadini perirono sotto il ferro di Caled. Maometto proscrisse undici uomini e sei donne; ma biasimò la crudeltà del suo luogotenente, e la sua clemenza o il disprezzo risparmiarono parecchi di coloro ch’egli avea già notati per vittime. I Capi de’ Koreishiti si prostrarono a’ suoi piedi, ed egli disse loro: „che potete aspettare da un uomo che avete oltraggiato?„ — Noi confidiamo nella generosità del nostro concittadino. — Nè confiderete in vano; andate; la vostra vita è sicura, e voi siete liberi.„ Il popolo della Mecca meritò il suo perdono, dichiarandosi per l’Islamismo, e dopo un esiglio di sette anni, venne riconosciuto il missionario fuggiasco qual principe e Profeta del suo paese157; ma i trecento sessanta idoli della Caaba [p. 105 modifica]furono ignominiosamente abbruciati; fu purificato e abbellito il tempio di Dio, e per esempio alle generazioni future si sommise di nuovo l’appostolo a tutti i doveri di pellegrino; e con legge espressa fu vietato ad ogni miscredente il por piede sul territorio della santa città158.

[A. D. 629-632] La conquista della Mecca si trasse dietro la fede e la sommessione delle Arabe tribù159, che secondo le vicende della fortuna riverito avevano, o spregiato, l’eloquenza e l’armi del Profeta. Anche oggi l’indifferenza per le cerimonie e opinioni religiose fa il carattere de’ Beduini, ed è probabile che accettassero la dottrina del Corano in quella guisa con cui la professano, cioè senza pigliarsene gran briga. Taluni di loro peraltro, più ostinati degli altri, si mantennero fedeli alla religione, non che alla libertà de’ lor avi, e con ragione fu detta per soprannome la guerra di Honano guerra degl’idoli, poichè Maometto aveva fatto voto di distruggerli, e i confederati di Tayef [p. 106 modifica]giurato di difenderli160. Frettolosamente, e di soppiatto, corsero quattromila idolatri ad assalire d’improvviso il conquistatore; guardavano con occhio di compassione la stupida negligenza de’ Koreishiti; ma confidavano ne’ voti e forse ne’ soccorsi d’un popolo, che da sì poco tempo avea rinunciato a’ suoi Dei, e s’era piegato sotto il giogo del suo nemico. Dispiegò il Profeta le bandiera di Medina e della Mecca; gran numero di Beduini si pose sotto i suoi stendardi, e vedendosi i Musulmani in numero di dodicimila, s’abbandonarono in braccio ad una imprudente e colpevole presunzione. Senza cautela discesero nella vallata di Honano: gli arcieri e frombolieri degli alleati aveano prese le alture; fu oppresso l’esercito di Maometto, perdè la disciplina, si smarrì di coraggio, e giubilarono i Koreishiti vedendoli esposti al rischio di perire. Già accerchiano il Profeta salito su la bianca mula; volle egli slanciarsi contro le lor picche per ottenere almeno una morte gloriosa; ma dieci de’ suoi fedeli compagni gli fecero schermo coll’armi, e colla persona, e tre di loro furono uccisi a’ suoi piedi. „Fratelli miei, esclamò egli a più riprese con dolore e sdegno, io sono il figlio d’Abdallah; sono l’appostolo della verità! O uomini! siate fermi nella fede; o Dio, mandaci il tuo soccorso!„ Abbas suo zio, il quale simile agli eroi d’Omero aveva una forza ed un suono straordinario di voce, intronò la valle [p. 107 modifica]con un grido di promesse e di premii: i Musulmani fuggiaschi si ridussero da ogni banda al sacro stendardo, ed ebbe Maometto la consolazione di vedere riacceso in ogni cuore il fuoco guerriero: dal suo contegno ed esempio fu decisa in suo favore la battaglia, ed egli esortò le schiere vittoriose a lavare senza ritegno la propria vergogna nel sangue nemico. Dal campo di Honano corse alla volta di Tayef, città lontana sessanta miglia dalla Mecca al sud-est, il cui fertile territorio produce le frutta della Sorìa in mezzo al deserto dell’Arabia. Una tribù amica, esperta, non so come, nell’arte degli assedi, gli fornì arieti ed altre macchine, e un corpo di cinquecento operai; ma indarno offerse libertà agli schiavi di Tayef, invano infranse le proprie leggi schiantando le piante fruttifere, invano i minatori apersero le trincee, e le sue truppe salirono alla breccia. Dopo venti giorni d’assedio diede il segnale della ritratta, ma allontanandosi dalla piazza, cantò devotamente vittoria, e affettò di chiedere al cielo il pentimento e la salute di quella città incredula. L’impresa per altro fu fortunata, poichè il Profeta fece seimila prigionieri, prese ventiquattromila cammelli, quarantamila pecore, e quattromila once d’argento. Una tribù, che aveva combattuto a Honano, riscattò i prigioni col sagrificio de’ suoi idoli; ma il Profeta per indennizzare i soldati cedette loro il quinto del bottino, soggiugnendo che avrebbe voluto a pro loro possedere tanti capi di bestiame, quanti erano gli alberi nella provincia di Tehama. In vece di gastigare la mala volontà de’ Koreishiti, prese il partito, com’egli stesso diceva, di ridurli al silenzio procacciandosi l’affetto loro con grandi liberalità; Abu-Sophian ri[p. 108 modifica]cevette per sè solo trecento cammelli e venti once d’argento, e la Mecca sinceramente abbracciò la religion del Corano. Ne fecero doglianza i fuggitivi e gli ausiliari, dicendo che dopo avere portato il peso della guerra erano negletti nel tempo del trionfo. „Oh Dio! replicò lo scaltro condottiero, lasciatemi sagrificare pochi miserabili averi per affezionarmi persone che già erano nemici nostri, e per fortificare questi nuovi proseliti nella fede. Quanto a voi, io vi affido la mia vita e la mia fortuna: voi siete i compagni del mio esilio, del mio regno, del mio paradiso„. Egli fu accompagnato da’ deputati di Tayef che temevano un secondo assedio: „Appostolo di Dio, concedeteci, gli dissero, una tregua di tre anni, e tollerate l’antico nostro culto. — Non per un mese, non per un’ora. — Almeno dispensateci dall’obbligo dell’orazione. — La religione è vana senza la preghiera„. Si sottomisero allora chetamente: fu demolito il lor tempio, e questo decreto di proscrizione si estese a tutti gl’idoli dell’Arabia. Un popolo fido salutò i suoi luogotenenti su le coste del mar Rosso, dell’Oceano e del golfo Persico, e gli ambasciatori che vennero ad inginocchiarsi davanti al trono di Medina furono numerosi, dice un proverbio arabo, quanto i datteri maturi che cadono da una palma. La nazione assoggettossi al Dio e allo scettro di Maometto; si soppresse l’ignominioso nome di tributo; si spesero le elemosine o le decime, volontarie o forzate, in servigio della religione, e da cento quattordici Musulmani fu accompagnato nell’ultimo pellegrinaggio l’appostolo161. [p. 109 modifica]

[A.D. 629-630] Quando Eraclio tornò trionfante dalla guerra Persiana, ricevette in Emeso un inviato di Maometto, che invitava i potentati e le nazioni della terra a professare l’Islamismo. Gli Arabi fanatici in questo avvenimento han veduto una pruova della conversione secreta di quell’imperatore cristiano; e la vanità de’ Greci ha supposto per la sua parte che fosse venuto in persona il principe di Medina a visitare l’imperatore, e avesse dalla munificenza imperiale accettato un ricco demanio, e un asilo sicuro nella provincia di Siria162; ma fu di breve durata l’amistà d’Eraclio e di Maometto: aveva la nuova religione risvegliato anzichè indebolito lo spirito di rapina ne’ Saraceni, e dall’uccisione d’un inviato si colse un motivo onesto d’invadere con tremila soldati il territorio della Palestina che si stende all’oriente del Giordano. A Zeid fu affidata la santa bandiera, e tale fu il fanatismo, se non la disciplina, della Setta nascente, che i capitani più nobili militarono di buon grado sotto lo schiavo del Profeta. Morendo Zeid, dovea essergli successivamente surrogati Jaafar, ed Abdallah, e se venivano a perire tutti tre, aveano facoltà i soldati di eleggersi il generale. Questi tre di fatto rimasero uccisi alla [p. 110 modifica]battaglia di Muta163, cioè nella prima azione guerresca, in cui i Musulmani vennero a pruova di valore contro un nemico straniero. Zeid morì da soldato nella prima fila; eroica e memoranda fu la fine di Jaafar, il quale avendo perduta la man destra, impugnò lo stendardo colla sinistra, e troncatagli questa, strinse e tenne la bandiera co’ due moncherini sanguinenti, sinattantochè per cinquanta onorate ferite stramazzò al suolo: „Accorrete, esclamò Abdallah che andò a farne le veci, accorrete arditamente, la vittoria o il paradiso è nostro„. La lancia d’un Romano decise l’alternativa, ma Caled, il convertito della Mecca, afferrò il vessillo; nove spade si spezzarono in man sua, e la sua prodezza valse a reprimere e a respignere i cristiani di numero superiori. Nella notte seguente si tenne consiglio di guerra, ed egli fu eletto per generale nel conflitto della domane, ove colla sua abilità seppe assicurare a’ Saraceni la vittoria o almeno la ritratta, e quindi Caled ricevè da’ suoi compatriotti e da’ nemici il glorioso soprannome di Spada di Dio. Salì Maometto in pulpito, e dipinse con enfasi profetica la sorte de’ soldati che per la causa di Dio avevano data la vita; ma in privato lasciò vedere sentimenti di natura, e fu sorpreso in atto di piagnere per la figlia di Zeid. „Che veggo mai? gli disse maravigliato un suo discepolo. Tu vedi un amico, rispose l’appostolo, che piange la morte dell’amico più fedele„. Dopo conquistata la Mecca, volle il sovrano dell’Arabia far sembiante di preve[p. 111 modifica]nire le ostilità di Eraclio, e dichiarò guerra solennemente a’ Romani, senza cercare di nascondere le fatiche ed i rischi di tale impresa164. Erano scorati i Musulmani; osservarono che si difettava di danaro, di cavalli, di vittuaglie; opposero le faccende della messe, e l’ardor della state. „È ben più caldo l’inferno, disse loro incollerito il Profeta„. Non degnò poi obbligarli a servire, ma ritornato che fu, lanciò contro i più colpevoli una scomunica di cinquanta giorni. Giovò la diffalta di coloro a dare risalto maggiore al merito di Abubeker, di Othmano e de’ fidi servi che posero a rischio e vita e fortune. Diecimila cavalieri e ventimila fanti seguirono lo stendardo di Maometto. Il viaggio in fatti fu penosissimo; al tormento della sete e della fatica s’aggiunse il soffio ardente e pestilenziale de’ venti del deserto: dieci uomini montavano alternativamente uno stesso cammello, e furono stretti alla umiliante necessità di dissetarsi coll’urina di quell’utile quadrupede. A mezza strada, cioè lungi da Medina e da Damasco dieci giornate, posarono presso al bosco e alla fontana di Tabuc. Non volle Maometto procedere più innanzi; si dichiarò pago delle intenzioni pacifiche dell’imperatore d’oriente, che forse cogli apparecchi militari lo aveva già sbigottito; ma l’intrepido Caled sparse il terrore pel suo nome d’intorno a’ luoghi per cui passava; ed il Profeta riceveva gli omaggi di som[p. 112 modifica]messione delle tribù e città, dall’Eufrate sino ad Ailah, città che giace sulla punta del mar Rosso. Non ebbe Maometto difficoltà di concedere a’ suoi sudditi cristiani la franchigia delle persone, la libertà del commercio, la proprietà degli averi, e il permesso d’esercitare il lor culto165. Erano troppo deboli gli Arabi cristiani per far argine alla sua ambizione; i discepoli di Cristo erano accetti all’inimico degli Ebrei, ed importava all’interesse del conquistatore il proporre una capitolazione vantaggiosa alla religion più potente che fosse al Mondo.

[A. D. 632] Sino all’età di sessantatre anni conservò Maometto le forze necessarie alle fatiche temporali e spirituali della sua missione. Più che ad odio dovrebbero movere a compassione i suoi accessi d’epilepsia, calunnia inventata da’ Greci166; ma egli credette d’essere [p. 113 modifica]stato da una Ebrea avvelenato a Chaibar167. La sua salute per quattro anni andò di giorno in giorno languendo; s’aggravarono le sue infermità, e finalmente morì d’una febbre di quattordici giorni, che per intervalli gli tolse la ragione. Vedendosi al termine della sua carriera mortale, pensò ad edificare i suoi fratelli con singolare umiltà. „Se v’ha, diss’egli dall’alto della sua cattedra, se v’ha alcuno che io abbia ingiustamente percosso, mi sottometto alla sferza della rappresaglia. Se ho macchiata la riputazion d’un Musulmano, divulghi pur egli i miei falli davanti alla congregazione. Se ho spogliato delle sue sostanze un fedele, serva quel poco che possedo a pagare il capitale e il frutto del debito„. „Sì, gridò una voce di mezzo alla folla, ho ragion di pretendere tre dramme d’argento„. Maometto trovò giusta la domanda, pagò la somma richiesta, e rendè grazie [p. 114 modifica]al creditore che lo aveva accusato in questo Mondo piuttosto che nel giorno finale. Con una fermezza tranquilla vide accostarsi l’ultim’ora: diede la libertà a’ suoi schiavi (diciassett’uomini, per quanto si crede, e undici donne); dispose minutamente l’ordine che si doveva tenere ne’ suoi funerali, e moderò le lamentazioni de’ suoi amici cui benedisse con parole di pace. Sino a’ tre ultimi giorni fece in persona la pubblica preghiera; parve poscia che eleggendo Abubeker a supplire per lui in quell’ufficio, destinasse quel vecchio e fedele amico per successore nelle incumbenze sacerdotali e regie; ma non volle esporsi all’odio che gli avrebbe potuto suscitare un’elezione più spiegata. Nel punto che visibilmente andavano scemando le sue forze, domandò penna e inchiostro per iscrivere, o piuttosto per dettare, un libro divino, com’egli diceva, che fosse il compendio e il compimento di tutte le rivelazioni: nella stessa sua camera insorse disputa per sapere, se gli si permetterebbe di porre un’autorità superiore a quella del Corano; e la quistione si riscaldò tanto che dovè d’indecente veemenza riprendere i suoi discepoli. Se si può prestar fede in parte alle tradizioni delle sue mogli, o di coloro che vissero con lui, mantenne in seno alla famiglia, e sino all’ultimo istante di vita, tutta la dignità d’un appostolo, e tutta la franchezza d’un entusiasta; descrisse le visite dell’angelo Gabrielle venuto a dar l’ultimo addio alla terra, ed espresse una viva fiducia non solo nella bontà, ma nel favore dell’Essere supremo per lui. Un giorno, in un colloquio familiare, aveva annunciato che per un suo privilegio speciale non verrebbe l’angelo della morte a pigliar la sua anima se non se dopo aver[p. 115 modifica]gliene chiesta rispettosamente licenza. Conceduta che l’ebbe, cadde in agonia; la sua testa si posava sul petto di Ayesha, la prediletta delle sue mogli; svenne egli nell’angoscia, ma poi riavutosi alquanto, sollevò verso la soffitta un’occhiata ancora franca, sebbene già fosse languida la voce, e pronunciò queste parole interrotte: „O Dio!... perdona i miei peccati... sì... vado a rivedere i miei concittadini che sono nel cielo„. Poi sdraiato sur un tappeto disteso per terra esalò placidamente l’ultimo fiato. Questo tristo accidente impedì la straordinaria spedizione che dovea farsi per la conquista della Siria: l’esercito s’era fermato alle porte di Medina, e stavano i capitani raccolti attorno al loro padrone moribondo. Nella città, e specialmente poi in casa del Profeta, non s’udivano che grida di dolore quando cessava il silenzio della disperazione; dal solo fanatismo si ottenea qualche consolazione e speranza. „Il testimonio, l’intercessore, il mediator nostro presso Dio non può esser morto, gridavasi, ce ne appelliamo a Dio, non è morto: come Mosè e Gesù168, assorto in estasi, ben tosto ritornerà al suo fido popolo„. Non si volle stare alla testimonianza de’ sensi, e Omar, cavando la scimitarra dal fianco, minacciò di tagliare la testa di quell’infe[p. 116 modifica]dele che osasse asserire che più non viveva il Profeta. La moderazione d’Abubeker, da tutti rispettato, sedò lo scompiglio. „Adorate voi Maometto, disse egli ad Omar e alla moltitudine, ovveramente il Dio di Maometto? Il Dio di Maometto vive per sempre, ma è mortale l’appostolo siccome noi, e giusta la sua predizione ha soggiaciuto al destino comune de’ mortali„. I suoi più stretti parenti piamente lo sotterrarono colle proprie mani nel luogo stesso ove era spirato169. La sua morte e sepoltura hanno consacrato Medina; e gl’innumerevoli pellegrini della Mecca deviano sovente per onorare con devozione spontanea170 la modesta tomba del Profeta171. [p. 117 modifica]

Aspetterà forse il lettore che nel termine della vita di Maometto io mi faccia ad esaminare i suoi errori e le sue virtù, e a decidere se quest’uomo straordinario abbia meritato più il titolo d’entusiasta, o quello d’impostore. Quando avessi vissuto familiarmente col figlio d’Abdallah, difficile sarebbe l’impegno e incerto il successo; ma dopo dodici secoli, mi si presentano confusi i delineamenti di questo Profeta fra i religiosi nugoli di incenso; e se potessi pur un istante ravvisarli, questa incerta rassomiglianza non s’affarebbe ugualmente al solitario del monte Hera, al predicatore della Mecca e al vincitor dell’Arabia. Quest’uomo destinato a divenir l’autore di sì gran rivoluzione, era nato, per quanto pare, con un’inclinazione alla pietà e alla contemplazione: quando pel suo matrimonio fu immune dal bisogno, evitò la strada dell’ambizione e dell’avarizia; visse innocente sino all’età di quarant’anni, e se fosse morto allora non avrebbe avuto alcuna celebrità. L’unità di Dio è un’idea conformissima alla natura e alla ragione; dal solo conversare una volta co’ Giudei e co’ Cristiani potè apprendere a spregiare e a detestare l’idolatria della Mecca. Era ufficio di uomo e di cittadino pubblicar la dottrina della salute, e togliere dal peccato e dall’orrore la patria. È agevole cosa a concepirsi che uno spirito inteso [p. 118 modifica]costantemente e acremente a uno stesso oggetto, potesse convertire un obbligo generale in una mission particolare, e considerare per inspirazioni del cielo gli ardenti concetti della sua immaginazione; che l’ardor del pensiero abbia potuto condurlo ad una specie di estasi e di visione, e che abbia poi rappresentato le sue sensazioni interne, e la sua guida invisibile sotto la forma e gli attributi d’un angelo di Dio172. Pericoloso e lubrico è il passo dal fanatismo all’impostura. Il Demone di Socrate173 ci mo[p. 119 modifica]stra abbastanza sino a qual segno possa un saggio illudere sè medesimo, come illudere gli altri un uom virtuoso, in qual modo addormentarsi la coscienza fra l’illusion personale e la frode volontaria. La carità ci farebbe persuasi che dapprima fosse animato Maometto da’ motivi più puri d’una benevolenza naturale; ma l’appostolo che non è un Dio, è tale da non amare increduli ostinati nel ributtare le sue pretensioni, nel dispregiarne gli argomenti, nel perseguitare la sua vita. Se Maometto perdonò qualche volta a’ suoi avversari personali, credea senz’altro lecito a sè di detestare i nemici di Dio; allora passioni inflessibili d’orgoglio e di vendetta gli entrarono in cuore, e, simile al Profeta di Ninive174, fece voti per la distruzione de’ ribelli che avea condannati. Per l’ingiustizia usatagli dalla Mecca, e per l’elezione che fece Medina, il semplice cittadino fu trasformato in principe, e l’umile predicatore in generale d’esercito. Ma sacra era la sua spada per l’esempio de’ Santi, e quel Dio che punisce un Mondo peccatore colla peste e co’ tremuoti, poteva adoperare il valor de’ suoi servi per convertire e castigare alcuni uomini. Nell’esercitare il governo politico fu obbligato a mitigare l’inflessibile severità del fanatismo, a cedere in qualche parte a’ pregiudizi e alle passioni de’ Settari di quello, e di valersi degli stessi vizi del genere umano per la salute di es[p. 120 modifica]so. Soventi volte la menzogna e la perfidia, la crudeltà e l’ingiustizia servirono a propagare la fede, e Maometto ordinò o approvò l’assassinio de’ Giudei, e degl’idolatri fuggiti dal campo di battaglia. Cotali atti ripetuti dovettero depravarne l’indole a poco a poco, e la pratica di alcune virtù personali e sociali, necessarie a mantenere la riputazione di Profeta nella sua Setta, e fra i suoi amici, furono debole compenso agli effetti funesti di quelle abitudini perniciose. L’ambizione fu la passion dominante degli ultimi suoi anni, e potrebbe un politico sospettare che dopo le vittorie ridesse l’impostore nel suo secreto del fanatismo della sua gioventù, e della credulità de’ suoi proseliti175. In vece un filosofo osserverà che il buon esito, e l’altrui sciocchezza rafforzar dovevano in lui l’idea d’una mission divina, che i suoi interessi erano inseparabilmente collegati colla sua religione, e che potea liberarsi da’ rimproveri della coscienza, persuadendo a sè stesso, che la Divinità dispensava lui solo dalle leggi positive e morali. Solo che se gli supponga un resto di rettitudine naturale, ponno considerarsi i suoi delitti quasi una testimonianza della sua buona fede. Le arti della menzogna e della soperchieria parranno men colpevoli quando s’impiegano al trionfo della verità, e avrebbe avuto orrore a valersi di siffatti istrumenti, se non fosse stato certo che rilevanti e giusti erano i disegni pe’ quali ne usava. Si può per altro anche in un conquistatore e in un sacerdote trovare una parola, un’azio[p. 121 modifica]ne di vera umanità; e quel decreto, che nella vendita de’ prigionieri vietò il separare le madri da’ figli, può sospendere e raddolcire la censura dello storico176.

Maometto avea il buon senso di non curare la pompa e la dignità regia177: l’appostolo di Dio s’abbassava alle occupazioni più oscure della vita domestica: accendeva il foco, scopava la stanza, mugnea le pecore, rattoppava le scarpe, e le vestimenta. Se aveva a schifo le mortificazioni e le virtù di un romito, osservava senza sforzo, come senza vanità, la dieta frugale d’un Arabo e d’un soldato. Nelle grandi occasioni ammetteva i compagni al suo desco che allor s’imbandiva con un’abbondanza rustica ed ospitale; ma abitualmente lasciava passar più settimane senza accendere fuoco in cucina. Confermava coll’esempio la proibizione del vino: calmava la fame con un tozzo di pane d’orzo; gli piaceva assai il latte e il mele, ma per costume si nudriva di dat[p. 122 modifica]teri e d’acqua. Profumi e donne erano le due sensualità che il suo temperamento esigeva; non erano proibite dalla sua religione, ed egli asseriva che anzi da questi piaceri innocenti pigliava forza il fervore della sua devozione. Pel caldo del clima il sangue degli Arabi è acceso, e gli scrittori antichi notarono la inclinazione di quelli al libertinaggio178. Dalle leggi religiose e civili del Corano ne venne regolata l’incontinenza; furono biasimate le alleanze incestuose, ed una illimitata poligamia fu ristretta a quattro mogli, o concubine; furono statuiti con eque norme i dritti di letto e di stradotale delle mogli; fu disanimata la libertà del divorzio; divenne per esse l’adulterio un delitto capitale, e fu punita con cento vergate la fornicazione d’entrambi i sessi179. Furon questi i precetti dati dal legislatore nella calma della ragione; ma nella vita privata, si abbandonò Maometto senza ritegno alle inclinazioni dell’uomo, e fece abuso de’ dritti di Profeta. Una rivelazione speciale lo dispensò dalle leggi, ch’egli aveva al suo popolo imposte; tutte, senza riserva, le donne furono in preda a’ suoi desiderii: questa singolare prerogativa fu per altro soggetto d’invidia più che di scandolo, e di venerazione anzi che no pe’ Musulmani devoti. Richiamando alla memoria le settecento mogli e le trecento concubine del sapiente Salomone, [p. 123 modifica]loderemo la moderazione del Profeta arabo, che sposò soltanto quindici o diciassette donne; undici delle quali aveano ciascuna il proprio appartamento separato intorno alla casa dell’appostolo, e alternativamente otteneano il favore della sua compagnia coniugale. È cosa singolare che tutte fossero vedove, trattane Ayesha, la figlia di Abubeker. La quale era vergine quando la sposò; e tale è la forza del clima per anticipare il tempo della pubertà, ch’ella non avea che nove anni quando egli consumò il matrimonio. La giovinezza, l’avvenenza, la franchezza d’Ayesha le diedero ben presto la preminenza su le compagne; ebbe l’amore e la confidenza del Profeta, e dopo la morte del marito, la figlia d’Abubeker fu per lungo tempo riverita come la madre de’ fedeli. Equivoca per altro ed imprudente fu la sua condotta morale; in un viaggio di notte rimase per avventura indietro, e la mattina tornò al campo in compagnia d’un uomo. Maometto inclinava alla gelosia, ma da una rivelazione ebbe avviso che innocente era sua moglie; castigò gli accusatori, e pubblicò quella legge, così utile alla pace delle famiglie, che non sarebbe condannata alcuna donna se da quattro uomini non fosse stata veduta nell’atto d’adulterio180. L’amante Profeta dimenticò gl’interessi della propria fama nelle sue tresche con Zeineb, sposa di Zeid, e con Maria, schiava egiziana. Stando un giorno in casa di Zeid, scorse seminuda la bella Zei[p. 124 modifica]neb, e si lasciò fuggire un grido di cupidigia, e di devozione. Il servile o riconoscente liberto capì quel che bramava l’appostolo, e si prestò senza esitazione a compiacere gli amori del suo benefattore: ma avendo i legami figliali esistenti fra loro suscitato una specie di scandolo; discese dal cielo l’angelo Gabrielle a ratificare quanto era accaduto, annullò l’atto di adozione, e blandamente rimbrottò il Profeta che diffidasse della indulgenza di Dio. Hafna, figlia di Omar, una delle mogli di Maometto, lo sorprese sul letto proprio in braccio alla schiava egiziana; promise ella di perdonargli e di mantenere il secreto, ed egli giurò che rinuncierebbe a Maria. Ma entrambi posero in dimenticanza i patti, e l’angelo Gabrielle venne un’altra volta dal cielo con un capitolo del Corano che assolvea Maometto dal giuramento, e l’esortava a godersi liberamente le sue prigioniere e le concubine; senza badare a’ clamori delle sue mogli. In un ritiro di trenta giorni con Maria, adempiè il meglio che seppe fare agli ordini dell’inviato di Dio. Quando ebbe sbramato l’amore e la vendetta chiamò alla sua presenza le undici mogli, le rimproverò d’inobbedienza e d’indiscrezione, e le minacciò di divorzio in questo Mondo e nell’altro; minaccia terribile, poichè quelle che aveano diviso il letto col Profeta erano per sempre escluse dalla speranza d’un secondo matrimonio. Quel che si narra delle facoltà naturali, o soprannaturali, che avea in sorte il Profeta181, potrebbe scusare per avventura [p. 125 modifica]la sua incontinenza; è fama ch’egli vantasse il vigore di trenta figli d’Adamo, e che avrebbe potuto eguagliare la decimaterza fatica182 dell’Ercole greco. Potrebbe anche la sua fedeltà per Cadijah fornire un argomento difensivo più serio e decente: in ventiquattro anni di matrimonio, non fece mai uso, quantunque giovane, del suo diritto di poligamia, nè mai all’orgoglio o alla tenerezza della illustre matrona toccò di soffrire l’associazione d’una rivale. Morta che fu, la noverò tra le quattro donne perfette, tre delle quali erano la sorella di Mosè, la madre di Gesù, e Fatima, la prediletta tra le sue figlie. „Non era già vecchia? gli disse un dì Ayesha, coll’insolenza d’una bella e fresca giovane, e Dio non le ha sostituita un’altra migliore? — No, per Dio, rispose Maometto con un’effusione di virtuosa gratitudine, veruna donna può essere preposta a Cadijah: ella mi ha creduto quando mi sprezzavano gli uomini; ella ha provveduto alla mia necessità mentre io era povero e perseguitato dagli uomini183„.

Moltiplicando in tal guisa le mogli, avea forse in animo il fondatore d’una nuova religione, e di un nuovo impero, di moltiplicare le sorti di una [p. 126 modifica]rosa posterità, e d’una successione diretta. Ma le speranze di Maometto andarono deluse. Ayesha, sposata vergine, e le altre sue dieci mogli tutte vedove, in età matura e di provata fecondità, tra le possenti braccia di lui si rimasero sterili. Quattro figli avuti di Cadijah erano morti in infanzia. Maria, la sua concubina Egiziana, gli divenne più cara per aver partorito Ibrahim, ma non passarono quindici mesi che dovè il Profeta piangerne la perdita: sostenne egli con fermezza i motteggi de’ suoi nemici, e represse l’adulazione o la credulità de’ Musulmani, assicurandoli che un’ecclissi solare, avvenuta in quel tempo, non era stata conseguenza della morte d’Ibrahim. Avea pure avuto da Cadijah quattro figlie, le quali sposarono i più fedeli de’ suoi discepoli; morirono tre prima del padre loro; ma Fatima, l’ultima che godea tutta la sua confidenza e affezione, divenne consorte d’Alì suo cugino, e ceppo d’una stirpe illustre. Al merito e alle disgrazie d’Alì e de’ suoi discendenti, è d’uopo ch’io doni qui anticipatamente la esposizione della serie de’ Califfi saraceni, titolo che distingue i Commendatori de’ credenti in qualità di vicari e di successori dell’appostolo di Dio184. [p. 127 modifica]

La nascita d’Alì, il suo matrimonio e la sua riputazione, che lo innalzarono sopra tutti i suoi concittadini, poteano giustificarne le pretensioni al trono dell’Arabia. Figlio d’Abu-Taleb, era già per questo solo titolo il Capo della famiglia di Hashem, e principe ereditario, o custode della città e del tempio della Mecca. S’era dileguata la luce profetica, ma il marito di Fatima potea sperare l’eredità e la benedizione del padre della moglie; alcune volte avevano gli Arabi obbedito ad una donna, e il Profeta strignendo teneramente fra le braccia i suoi due nipoti, li avea dalla sua cattedra qualche volta mostrati al popolo come l’unica speranza della sua vecchiaia, e come Capi della gioventù del paradiso. Poteva il primario de’ veri credenti aver fiducia di camminare davanti a loro in questo e nell’altro Mondo, e se taluni pur comparivano più gravi ed austeri, almeno tra i nuovi convertiti, non potea veruno vincere Alì nello zelo e nella virtù. Accoppiava in sè i pregi di poeta, di soldato e di santo: vive ancora la sua sapienza in una Raccolta di sentenze morali e religiose185, e quando era tempo di disputare o di combattere, dalla sua eloquenza o dal suo valore erano soggiogati gli avversari. Dal primo giorno della sua missione sino all’estrema cerimonia de’ suoi funerali, non fu mai abbandonato l’appostolo da quell’amico generoso, ch’egli amava denominare suo fratello, suo vicegerente, e il fido Aronne d’un altro [p. 128 modifica]Mosè. Fu poi rimproverato il figlio d’Abu-Taleb di avere trascurato i propri interessi, omettendo di farsi dichiarare in guisa solenne successore al trono, il che avrebbe tolta di mezzo ogni concorrenza, e data ai suoi diritti la sanzione d’un decreto celeste; ma scevro da diffidenza l’eroe s’affidava in sè stesso. La gelosia per altro del potere, e forse la tema di qualche contrarietà valsero a tenere in sospeso le risoluzioni di Maometto, e nell’ultima infermità vide assediato il suo letto dalla scaltrita Ayesha figlia di Abubeker e nemico d’Alì.

[A. D. 632] Colla morte e pel silenzio di Maometto, la nazione ricuperò i suoi dritti, e convocò un’assemblea per deliberare su la scelta d’un successore. I titoli di nascita, e l’ardito e altero contegno d’Alì offendevano lo spirito aristocratico degli anziani che volevano poter sovente disporre dello scettro con libere e frequenti elezioni. Mal sofferivano i Koreishiti l’orgogliosa preminenza della linea di Hashem; si riaccese l’antica discordia delle tribù; i fuggiaschi della Mecca e gli ausiliari di Medina posero in campo i lor dritti speciali, e fu fatta l’imprudente proposta di eleggere due Califfi independenti, cosa che avrebbe soffocato pur nella cuna la religione e l’impero de’ Saraceni. Ogni trambusto cessò per la magnanima risoluzione di Omar, il quale rinunciando alle sue pretensioni, alzò subitamente la mano, e si dichiarò il primo suddito del placido e venerando Abubeker. L’occasione, che era urgente, e l’assenso popolare poterono rendere scusabile questa illegale e precipitata determinazione; ma Omar esso stesso annunciò dalla cattedra, che se da indi in poi osasse un Musulmano precedere il suffragio de’ suoi fratelli, [p. 129 modifica]sarebbero degni di morte e l’elettore e l’eletto186. Abubeker fu senza pompa installato; Medina, la Mecca, le province d’Arabia gli obbedirono. Soli gli Hashemiti negarongli il giuramento di fedeltà, e il pertinace lor Capo si tenne racchiuso per più di sei mesi in casa senza volerlo riconoscere, e senza por mente alle minacce d’Omar, il quale tentò di dar fuoco alla casa della figlia dell’appostolo. Colla morte di Fatima, e coll’indebolimento della fazione d’Alì si calmò in lui lo sdegno, e riconobbe egli finalmente il generale de’ fedeli; approvò la scusa da quello addotta della necessità di prevenire i nemici comuni, e saviamente ricusò la proposta, che Abubeker gli faceva, d’abdicare il governo degli Arabi. Dopo un regno di due anni, il vecchio Califfo intese la voce dell’angelo della morte. Nel suo testamento, coll’assenso tacito de’ suoi compagni, commise lo scettro alla ferma ed intrepida virtù di Omar. „Non ho mestieri di questa dignità,„ disse il modesto Musulmano. „Ma la dignità ha bisogno di te,„ gli rispose Abubeker, il quale si morì pregando fervorosamente il Dio di Maometto, perchè volesse ratificare quella scelta, ed inspirare a’ Musulmani sommessione e concordia.  [A. D. 634] Fu esaudita la sua orazione, poichè Alì si diede tutto alla solitudine e alla pre[p. 130 modifica]ghiera, e protestò di voler rispettare il merito e la dignità del suo rivale, che lo consolò della perdita dell’impero co’ più cortesi uffici di amicizia e di stima. Omar fu assassinato nell’anno duodecimo del suo regno. Temendo di gravare la propria coscienza co’ peccati del successore, non volle nominare al trono nè suo figlio, nè Alì; ma lasciò a sei de’ suoi rispettabili socii la difficil cura di scegliere il comandante de’ credenti. Fu pure Alì biasmato dagli amici187 d’aver permesso che venissero assoggettati i suoi dritti al giudizio degli uomini, e d’averne riconosciuta la giurisdizione accettando un posto fra i sei elettori. Avrebbe potuto ottenerne il suffragio se avesse degnato promettere di conformarsi, in guisa rigorosa e servile, non solo al Corano e alla tradizione, ma alle decisioni de’ due anziani188.  [A. D. 644] Othmano, già secretario di Maometto, accettò a quelle condizioni il governo, e soltanto dopo il terzo Califfo, cioè passati ventiquattro anni dopo la morte del Profeta, Alì, per voto del popolo, fu investito della dignità di re e di gran sacerdote. I costumi degli Arabi non aveano perduta poco nè punto la primi [p. 131 modifica]tiva semplicità, e il figlio d’Abu-Taleb non si curò della pompa e delle vanità del Mondo. Nell’ora della orazione si trasferì alla moschea di Medina, vestito d’una leggera stoffa di bambagia, coperto il capo di un turbante grossolano, colle pantofole in una mano, e coll’altra posata sopra il suo arco che gli serviva di bastone. Da’ compagni del Profeta e da’ Capi delle tribù venne salutato il nuovo sovrano, e gli fu presentata la destra in segno di fedeltà.

Avviene per lo più, che i mali prodotti dalle contese dell’ambizione si restringano a’ tempi e a’ luoghi ove insorsero le contese medesime; ma la discordia religiosa degli amici e nemici d’Alì, riaccesa in tutti i secoli dell’Egira, nutre pur oggi l’odio perenne de’ Turchi e de’ Persiani189. Questi ultimi avviliti col nome di shiiti, o settari, hanno aggiunto al simbolo Musulmano l’articolo seguente di fede: che se Maometto è l’appostolo di Dio, il suo compagno Alì n’è il Vicario. Nel commercio abituale della vita, e nel culto pubblico, scagliano imprecazioni contro i tre usurpatori la cui esaltazion successiva lo ha per sì lungo tempo, ad onta de’ suoi dritti, rimosso dalla dignità d’Imano e di Califfo; e nell’idioma loro il nome d’Omar esprime il colmo della scelle[p. 132 modifica]raggine e dell’empietà190. I Sonniti, la dottrina dei quali è accettata generalmente e si fonda sulla tradizione ortodossa de’ Musulmani, seguono una opinione più imparziale, o per lo meno più decente. Rispettano la memoria d’Abubeker, d’Omar, d’Othmano e d’Alì, tutti santi e successori legittimi del Profeta; ma credendo che il grado di santità abbia determinato l’ordine di successione191, danno l’ultimo luogo allo sposo di Fatima. Quello storico, che con una mano ritrosa a’ monumenti della superstizione bilancerà il merito de’ quattro Califfi, pronuncierà sentenza che i lor costumi furono egualmente puri ed esemplari, che ardente ne fu lo zelo, e giusta tutte le apparenze sincero, e che in mezzo all’opulenza e potenza loro consacrarono la vita alla pratica dei doveri della morale e della religione; ma le virtù pubbliche d’Abubeker e d’Omar, ma la sapienza del primo, e la severità del secondo mantennero in pace e nella prosperità lo Stato. Per debolezza di naturale e per la vecchiaia Othmano fu inetto a dilatare l’Impero colle conquiste, o a reggere il peso del governo. Egli delegava ad altrui l’autorità, ed [p. 133 modifica]era ingannato; ammetteva altri alla sua confidenza, ed era tradito. I più saggi tra i fedeli gli furono inutili, o si cangiarono in nemici, e le sue prodigalità gli suscitarono ingrati e malcontenti. Per le province si sparse il mal seme della discordia: s’adunarono i deputati di quelle a Medina, e co’ Charegiti, disperati fanatici, i quali recalcitravano alla subordinazione e alla ragione, si confusero gli Arabi, che, nati liberi, chiedeano riforma degli abusi di cui dolevansi, e punizione degli oppressori. Cufa, Bassora, l’Egitto e le tribù del deserto armarono i lor guerrieri, vennero ad accamparsi ad una lega circa da Medina, e imperiosamente al sovrano intimarono di fare ad essi giustizia, o di scendere dal trono. Di già il suo pentimento disarmava e disperdeva i rivoltosi; ma l’artificio de’ suoi nemici li accese di nuovo furore, e per una falsità, a cui si lasciò indurre un perfido secretario, perdette Othmano la riputazione, e più presta ne fu la caduta. Non aveva più il Califfo la stima e la fiducia de’ Musulmani, unico presidio de’ suoi antecessori: un assedio di sei settimane lo ridusse a mancar d’acqua e di viveri, nè le deboli porte del suo palagio ebbero altra difesa che gli scrupoli di pochi ribelli più timorati che gli altri. Abbandonato da coloro che aveano abusato della sua bontà, al venerando Califfo, rimasto senza difensori, non restò che attendere la morte: si presentò condottiero degli assassini il fratello d’Ayesha: fu trovato Othmano che teneva il Corano sul petto, e fu da mille colpi trafitto.  [A. D. 655] Dopo cinque giorni d’anarchia, cessò il tumulto colla inaugurazione d’Alì; il rifiutar la corona sarebbe stato cagione d’una strage generale. In questa critica [p. 134 modifica]situazione, mantenne egli la fierezza che s’addiceva al Capo degli Hashemiti, e dichiarò che preferito avrebbe il servire al regnare; gridò contro la presunzione de’ soldati esteri, e volle l’assenso se non volontario, almeno espresso de’ Capi della nazione. Non fu mai accusato d’essere stato complice dell’assassinio di Omar, quantunque si celebri in Persia senza riguardo la festa dell’uccisore di quel Califfo. S’era dapprima interposto Alì ad accomodare la lite fra Othmano e i suoi sudditi, ed Hassan, il primogenito de’ suoi figli, mentre difendeva il Califfo, fu insultato e ferito. Rimane dubbio peraltro se Alì sia rimasto ben saldo e fosse sincero nell’opporsi a’ ribelli, ed è poi certo che si giovò del loro delitto. Un’esca simile potea ben sedurre e corrompere la più specchiata virtù. Non solo su la sterile Arabia si stendeva lo scettro de’ successori di Maometto, ma i Saraceni erano stati vincitori in oriente e in occidente, e le doviziose contrade della Persia, della Siria, dell’Egitto erano il patrimonio del comandante de’ fedeli.

[A. D. 655-660] Una vita passata in orazione e in contemplazione non avea raffreddato l’ardor guerriero ed operoso di Alì: giunto all’età matura, con una lunga esperienza del Mondo, lasciava vedere nel suo contegno una temerità e imprudenza giovanile. Ne’ primi giorni della sua amministrazione non pensò ad assicurarsi con benefici, o con catene, della mal certa fedeltà di Telha e di Zobeir, due Capi arabi i più poderosi. Si ricoverarono essi alla Mecca, indi a Bassora, inalberarono il vessillo della ribellione, e s’insignorirono della provincia d’Irak e dell’Assiria, che invano domandate aveano per guiderdone de’ servigi prestati: la maschera del patriottismo giova a coprire le più ma[p. 135 modifica]nifeste contraddizioni; e i nemici d’Othmano, che forse ne furono gli assassini, chiesero allora che fosse vendicata la sua morte. Furono nella fuga accompagnati da Ayesha, la vedova di Maometto, che sino all’ultimo istante di vita serbò implacabil odio al marito e alla posterità di Fatima. I più ragionevoli tra i Musulmani si scandolezzarono al vedere, che la madre de’ fedeli cimentasse e persona e dignità in un campo, ma la moltitudine superstiziosa credè che dalla sua presenza fosse consacrata la giustizia, e accertato il trionfo dalla causa da lei abbracciata. Il Califfo seguìto da ventimila de’ suoi fidi Arabi, e da novemila prodi ausiliari di Cufa, diede battaglia sotto le mura di Bassora a’ ribelli superiori di numero, e riportò la vittoria. Telha e Zobeir, Capi dell’esercito nemico, caddero in quel conflitto, il primo ove l’armi de’ Musulmani si tinsero del sangue de’ concittadini. Ayesha, dopo aver corse le file per incoraggiare i soldati, s’era posta in mezzo al pericolo. Settanta uomini, che teneano le redini del suo cammello, furono uccisi o feriti, e la seggiola o lettiga in cui era chiusa si trovò, finita l’azione, tutta traforata e carica di chiaverine e di dardi. Sostenne la augusta prigioniera con volto intrepido i rimbrotti del vincitore, il quale, con quei riguardi e quell’affezione che doveva sempre alla vedova dell’appostolo, la rimandò subito al luogo ove solamente poteva essere confinata in modo decoroso, cioè alla tomba di Maometto. Dopo questa vittoria, che si denominò la giornata del cammello, Alì si volse contro un avversario più formidabile, contro Moawiyah, figlio d’Abu-Sophian, che aveva preso il titolo di Califfo, ed era francheggiato dalle forze della Siria, e dalla riputa[p. 136 modifica]della casa d’Ommiyah. Dopo il passaggio del Thapsaco, la pianura di Siffin192 s’allunga su la riva occidentale dell’Eufrate. In questo terreno vasto e piano fecero i due competitori per centodieci giorni una guerra d’avvisaglie. La perdita d’Alì in novanta scaramucce, succedute in que’ giorni, fu valutata di venticinquemila uomini, e quella di Moawiyah di quarantacinquemila; si trovarono fra i morti venticinque veterani di quelli che aveano combattuto a Beder, sotto lo stendardo di Maometto. In sì sanguinosa tenzone, il Califfo legittimo si dimostrò superiore al rivale per valore e per umanità. Ordinò alle sue milizie, sotto pene severe, d’aspettare il primo assalto del nemico, di perdonare a’ fuggiaschi, di rispettare i cadaveri degli uccisi, e l’onore delle prigioniere. Propose da generoso di risparmiare il sangue de’ Musulmani con un duello; ma intimorito il rivale, ricusò una disfida che gli pareva una sentenza di morte. Montato Alì sopra un cavallo baio investì, precedendo i suoi soldati, e ruppe le file dei Siri, sbigottiti dalla forza invincibile della sua grave spada a due tagli. Ogni volta che atterrava un ribelle, gridava, Allah Acbar; „Dio è vincitore„; e nel forte d’una battaglia notturna, s’intese quattrocento volte ripetere questa terribile esclamazione. Già il principe di Damasco meditava la fuga; ma per l’inobbedienza e il fanatismo delle sue soldatesche perdette Alì la vittoria che sembrava per lui sicura. Moawiyah ne agitò la coscienza col dichiarare solennemente, che si appellava al Corano cui mostrava espo[p. 137 modifica]sto su le picche della prima fila di soldati, e dovette Alì soscrivere una tregua obbrobriosa, e un compromesso insidioso. Si ritrasse egli a Cufa, pieno di dolore e di rabbia; scorata era la sua fazione; lo scaltro rivale soggiogò, o sedusse, la Persia, l’Yemen, l’Egitto; e il pugnale del fanatismo, rivolto contro i tre Capi della nazione, non colse che il compagno di Maometto. Tre Charegiti, o entusiasti, discorrendo un giorno nel tempio della Mecca intorno ai disordini della Chiesa e dello Stato, decisero che colla morte d’Alì, di Moawiyah e d’Amrou, amico di quest’ultimo e vice-re dell’Egitto, sarebbe rimessa la pace e l’unità della religione. Ognuno degli assassini elesse la sua vittima, avvelenò il ferro, si consacrò alla morte, e secretamente si trasferirono al luogo destinato per commettere il delitto. Erano tutti tre del pari fermi e risoluti; ma il primo, per isbaglio, trafisse in vece di Amrou il deputato che sedeva al suo posto: dal secondo fu pericolosamente ferito il principe di Damasco, e il terzo nella moschea di Cufa colpì mortalmente il Califfo legittimo, che, nel sessantesimoterzo anno dell’età sua morì, raccomandando generosamente ai figli di terminare con un sol colpo il supplizio dell’assassino. S’ebbe cura di celare il suo sepolcro193 a’ tiranni della casa d’Ommiyah194; ma nel quarto [p. 138 modifica]secolo dell’Egira fu innalzato, presso le ruine di Cufa, un monumento, un tempio, e una città195. Migliaia di Shiiti riposano in quella terra sacra a’ piedi del Vicario di Dio, e il deserto è avvivato dal concorso de’ Persiani, de’ quali ogn’anno è grande la frequenza colà, nell’opinione che sia meritorio quel pellegrinaggio al pari di quel della Mecca.

[A. D. 661-668] I persecutori di Maometto usurparono l’eredità de’ suoi figli, e i difensori della idolatria si fecero Capi supremi della sua religione e del suo impero. Violenta ed ostinata fu l’opposizione d’Abu-Sophian, tarda e forzata la conversione; ma dall’ambizione e dall’interesse fu rassodato nella fede che aveva abbracciata; servì, combattè, e forse credette veramente, e da’ nuovi meriti della famiglia d’Ommiyah fu cancellata la memoria de’ torti della sua prisca ignoranza. Moawiyah, figlio d’Abu-Sophian e della crudele Henda, sin dalla prima gioventù era stato fregiato dell’incarico, o del titolo di segretario del Profeta. Essendogli stato conferito dal saggio Omar il governo della Siria, amministrò per più di quarant’anni quella rilevante provincia, sia come agente subordinato, o come Capo supremo, senza rinunciare alla fama di prode e di liberale, e soprattutto amò quella di umano e di moderato. Dalla gratitudine il popolo fu vincolato al suo [p. 139 modifica]benefattore, e i Musulmani vittoriosi s’arricchirono delle spoglie di Cipro e di Rodi: dal sacro dovere di perseguitare i sicari d’Othmano pigliò pretesto la sua ambizione per operare. Espose nella moschea di Damasco la camicia sanguinente del martire: l’Emir deplorò la disgrazia del suo alleato, e sessantamila Siri giurarono di rimanergli fedeli, e di vendicare Othmano. Amrou vincitore dell’Egitto, che valeva esso solo per un esercito, fu primo a salutare il novello monarca, e divolgò quel pericoloso segreto, potersi creare i Califfi arabi anche fuori della città del Profeta196. Lo scaltrito Moawiyah deluse la prodezza del rivale, e, morto Alì, negoziò l’abdicazione del figlio Hassan, che aveva un animo superiore, o forse inferiore, ad un impero mondano, e a cui non increbbe posporre il palagio di Cufa ad un’umile celletta presso la tomba dell’avo. Finalmente il cangiamento d’un impero elettivo in monarchia ereditaria satisfece gli ambiziosi desiderii del Califfo. Qualche mormorìo di libertà o di fanatismo indicò la ripugnanza degli Arabi, e da quattro cittadini di Medina fu negato il giuramento di fedeltà: ma seppe Moawiyah dirigere i suoi disegni con vigore e destrezza, e il suo figlio Yezid, quantunque d’indole debole e di costumi dissoluti, fu gridato comandante de’ fedeli, e successore dell’appostolo di Dio.

[A. D. 680] Si narra della beneficenza d’un figlio d’Alì il fatto seguente. Uno schiavo servendo la tavola lasciò cadere sopra il padrone una scodella piena di brodo [p. 140 modifica]bollente: allora si gettò a’ suoi piedi, e per sottrarsi al gastigo ripetè quel passo del Corano, che dice: „il paradiso è per coloro che san dominare la propria collera. — Io non sono in collera. — E per quelli che perdonano le offese. — Io perdono l’offesa che m’hai fatto. — E per quelli che rendono bene per male. — Io ti dono la libertà e quattrocento pezze d’argento„. Hosein, fratel minore di Hassan, con tutta la pietà di questo avea pure ereditato in parte il coraggio del padre; militò decorosamente contro i cristiani nell’assedio di Costantinopoli. Aggiugneva la primogenitura della stirpe di Hashem al sacro carattere di nipote dell’appostolo: potea sostenere le sue pretensioni contro Yezid, tiranno di Damasco, di cui spregiava i vizi, e non degnava riconoscere i titoli. Fu trasmessa in secreto da Cufa a Medina una lista di cenquarantamila Musulmani, che si dichiaravano parteggiatori della sua causa, e prometteano di pigliar l’armi come tosto ei comparisse su le sponde dell’Eufrate. Senza badare a’ consigli degli amici più saggi, deliberò d’affidare la propria persona e la famiglia in balìa d’un popolo perfido. Attraversò il deserto dell’Arabia con numeroso seguito di donne e di fanciulli sbigottiti; ma quando fu presso alle frontiere dell’Irak, la solitudine del paese, e le apparenze che vide d’inimicizia gl’inspirarono molta diffidenza, e gli diedero motivo di temere o la diffalta, o la ruina de’ suoi partigiani. Fondati erano i timori; Obeidollah, governatore di Cufa, avea soffocate le prime scintille d’insurrezione, e Hosein fu accerchiato, nella pianura di Kerbela, da cinquemila cavalli, che precisero la sua comunicazione colla città e col fiume. Poteva ancora riparare in una Fortezza del deserto, che [p. 141 modifica]aveva affrontato le forze di Cesare e di Cosroe, e sperare nella fedeltà della tribù di Tai, che armato avrebbe diecimila guerrieri in sua difesa. In una conferenza che egli ebbe col Capo della soldatesca nemica, domandò che gli fosse permesso di ritornare a Medina, o d’essere collocato in una delle guarnigioni di frontiera che si tenevano contro i Turchi, o finalmente d’essere condotto sano e salvo davanti Yezid; ma gli ordini del Califfo, o del suo Luogotenente, erano rigorosi, e assoluti, onde fu risposto ad Hosein che dovea sottomettersi, come prigioniero e colpevole, al comandante de’ fedeli, ovveramente aspettarsi la pena della ribellione. „Pensate forse di sgomentarmi, replicò egli, minacciandomi la morte?„ Passò dunque la notte seguente nell’apparecchiarsi, con una rassegnazione tranquilla e solenne, alla sua sorte. Consolò sua sorella Fatima che piangea la rovina della sua famiglia. „Non dobbiamo porre fiducia in altro che in Dio, le disse: in cielo e in terra tutto dee perire e ritornare al suo Creatore: mio fratello, mio padre, mia madre erano meglio di me, e la morte del Profeta dee servire d’esempio a tutti„. Sollecitò gli amici a porsi in salvo con pronta fuga, i quali con voce unanime ricusarono d’abbandonare l’amato padrone, o di sopravvivergli; ed egli ne rafforzò il coraggio con fervida orazione, e colla promessa del paradiso. Nella mattina di quel giorno funesto, Hosein salì a cavallo, prese in una mano la spada, il Corano nell’altra: i generosi martiri della sua causa erano solo in numero di trentadue cavalieri, e di quaranta fanti; ma fortificato avevano i fianchi e il tergo colle corde delle lor tende, e s’erano muniti con una fossa profonda [p. 142 modifica]piena di fascine accese all’usanza degli Arabi. Si avanzarono mal volentieri i nemici, e un de’ loro Capi, che disertò con trenta soldati, venne a dividere con Hosein le angosce d’una morte inevitabile. Nelle mischie corpo a corpo, o ne’ singolari conflitti, la disperazione rendette invincibili i Fatimiti; ma la moltitudine che gli accerchiava li coperse d’un nembo di dardi: cavalli ed uomini caddero successivamente uccisi: le due parti assentirono una tregua d’un istante per l’ora della preghiera, e in fine terminò la battaglia colla morte dell’ultimo compagno di Hosein. Solo egli allora, rifinito dalla fatica, e piagato, si assise all’ingresso della sua tenda. Mentre stava bevendo poche stille d’acqua per rinfrescarsi, fu colto da un dardo in bocca: e rimasero uccisi fra le sue braccia il figlio e il nipote, giovanetti di rara avvenenza. Sollevò al cielo le mani coperte di sangue, e orò pe’ viventi e pe’ morti. Escì sua sorella della tenda in un accesso di disperazione, scongiurando il generale de’ Cufiani perchè non lasciasse svenare Hosein in sua presenza: e i più arditi fra i suoi guerrieri retrocessero da ogni lato all’arrivo dell’eroe moribondo, che offriva il collo al lor ferro. Lo spietato Shamer, nome abbominato da’ fedeli, li rimbrottò di viltà, e il nepote di Maometto cadde trafitto da trentatre colpi di lancia e di sciabola. Ne calpestarono i Barbari il corpo, e portarono la testa al castello di Cufa, ove l’inumano Obeidollah gli percosse colla canna la bocca. „Ahi! esclamò un vecchio Musulmano, su quelle labbra ho veduto le labbra dell’appostolo di Dio„. Dopo tanti secoli, e in un clima sì diverso, una scena sì tragica dee movere a pietà [p. 143 modifica]il più freddo lettore197. Quanto a’ Persiani, ricorrendo la festa di questo martire, celebrata ogni anno quando visitar sogliono in pellegrinaggio la sua tomba, s’abbandonano a tutta la frenesia del dolore e dello sdegno198.

Allora che le sorelle e i figli d’Alì carichi di catene furono tratti appiè del trono di Damasco, era stimolato il Califfo a estirpare una razza amata dal popolo, da lui offesa talmente da non isperare riconciliazione giammai; ma piacque a Yezid l’attenersi a più miti consigli, e quella sventurata famiglia fu rimandata in modo onorevole a Medina, perchè mescesse le sue lagrime a quello de’ parenti. La gloria del martirio vinse il diritto di primogenitura; laonde i dodici Imani199, o pontefici, della religione persiana sono Alì, Hassan, Hosein e i discendenti di questo sino alla nona generazione. Senz’armi, senza tesori, senza sudditi, ottennero successivamente la venerazione del popolo, e suscitarono la gelosia dei Califfi. I devoti della lor Setta continuano a visitar[p. 144 modifica]ne le tombe sia alla Mecca o a Medina, su le rive dell’Eufrate o nella provincia del Khorasan. Soventi volte il nome loro ha dato pretesto di sedizione o di guerra civile; ma quegli augusti santi ebbero in dispregio le vanità del Mondo, si sottomisero al volere di Dio e all’ingiustizia degli uomini, e consacrarono l’innocente vita allo studio e alla pratica della religione. Il duodecimo ed ultimo degl’Imani, distinto dal soprannome di Mahadi, o Guida, visse più solitario, e fu ancora più religioso de’ predecessori. Celossi in una spelonca presso Bagdad, nè si sa l’epoca e il luogo della sua morte: dicesi da’ devoti alla sua memoria che non morì, e che comparirà prima del giorno del Giudizio a distruggere la tirannide di Dejal o Anticristo200. Nello spazio di due o tre secoli era cresciuta la posterità di Abbas, zio di Maometto, sino a trentatremila persone201: può nella proporzione stessa essersi moltiplicata la razza d’Alì: superiore al primario e al più gran principe era l’ultimo individuo di quella famiglia, e i più insigni di loro avevansi per più perfetti degli angeli; ma la disgrazia della lor situazione, e la vastità dell’impero Musulmano aprivano una larga strada agli astuti o audaci impostori, che cercavano di acquistarsi un diritto con qualche preteso vincolo di parentela con quel santo legnaggio. Questo titolo vago ed e[p. 145 modifica]quivoco ha consacrato lo scettro degli Almohadi in Ispagna, in Affrica, de’ Fatimiti in Egitto ed in Siria202, de’ Soldani dell’Yemen e de’ Soffì della Persia203. Era pericoloso consiglio sotto il lor regno il contestarne la nascita; Moez, uno de’ Califfi fatimiti, a cui si faceva una dimanda imprudente, rispose cavando la scimitarra: „Questa è la mia genealogia:„ e gettando una manciata di monete d’oro a’ soldati: „questa è la mia famiglia e i miei figli„. I veri o supposti discendenti di Maometto e d’Alì, tanto principi che dottori, nobili, mercadanti, mendichi, sono onorati co’ titoli di Sheiks, di Sheriffi o d’Emiri. Nell’impero Ottomano si distinguono dagli altri per un turbante verde: hanno pensione dall’erario imperiale, non sono giudicati che dal loro Capo, e per quanto esser possano umiliati dalla for[p. 146 modifica]tuna, o dall’indole loro, sostengono sempre con fasto il titolo de’ lor natali. Una famiglia di trecento persone, posterità pura e ortodossa del Califfo Hassan, s’è mantenuta senza macchia, e senza sospetto, nelle sante città della Mecca e di Medina, e con tutte le rivoluzioni di dodici secoli ha sempre avuta la custodia del tempio, e la sovranità nella patria degli avi suoi. Basterebbe la gloria o il merito di Maometto a nobilitare una razza di plebei, e il sangue sì antico de’ Coreishiti vince la maestà d’assai più recente degli altri re della Terra204.

I talenti di Maometto son degni certamente dei nostri elogi, ma troppo si sono ammirati per avventura i trionfi che ottennero. È cosa da stupir tanto, se una folla di proseliti abbiano abbracciato la dottrina, e partecipato alle passioni d’un eloquente fanatico? Dal tempo degli appostoli sino a quello della riforma, tutti gli eresiarchi impiegarono le stesse arti di seduzione con pari successo. È dunque incredibile che un privato afferrasse la spada e lo scettro, soggiogasse i suoi concittadini, e colle sue armi vittoriose fondasse una monarchia? Nelle rivoluzioni delle dinastie dell’oriente, cento usurpatori da una bassa condizione si elevarono in alto, han vinto maggiori ostacoli, fatto più vasti conquisti, posseduto più ampli imperi. Sapea Maometto predicare del pari e combattere, e queste in apparenza opposte qualità, in[p. 147 modifica]sieme accoppiate, ne accrescevano la gloria, e contribuivano al suo trionfo. Le varie armi della forza e della persuasione, del fanatismo e del timore, continuamente operando l’une coll’altre, ruppero infine tutte le barriere davanti alla invincibile loro potenza. La sua voce chiamava gli Arabi alla libertà e alla vittoria, alla guerra e alle rapine, al godimento, in questo Mondo e nell’altro, de’ piaceri più gradevoli ad essi: le privazioni che impose erano necessarie a stabilire la riputazione del Profeta, e ad esercitare l’obbedienza del popolo; e la sua dottrina troppo ragionevole205 della unità e delle perfezioni di Dio, era la sola cosa che opporsi potesse a’ suoi progressi. Non conviene fare le maraviglie che abbia introdotta, ma bensì che abbia renduta stabile la sua religione. Volsero dodici secoli, e i popoli d’una parte dell’India e dell’Affrica, e tutti i sudditi Turchi dell’impero Ottomano hanno conservata la purezza della dottrina da lui predicata a Medina e alla Mecca. Se tornassero nel Vaticano i santi appostoli Pietro e Paolo206 forse domanderebbero il nome della Divinità [p. 148 modifica]che si adora in quel tempio magnifico con tante cerimonie misteriose: meno sarebbero sorpresi dal culto d’Oxford o di Ginevra, ma sarebbero sempre astretti ad imparare il catechismo della Chiesa, e a studiare i lunghi commenti pubblicati sugli scritti loro e sulle parole del lor Maestro; ma la moschea di Santa Sofia rappresenta, peraltro con più magnificenza e maggiori proporzioni, l’umile tabernacolo innalzato a Medina per mano di Maometto. Tutti i Musulmani hanno resistito ad ogni tentativo d’avvilire gli oggetti della fede e divozion loro adattandoli a’ sensi e all’immaginazione dell’uomo. „Credo in un solo Dio, e Maometto è il suo appostolo:„ questa è la [p. 149 modifica]loro semplicissima e immutabile profession di fede. Non mai degradarono207 con alcun simulacro l’immagine intellettiva della Divinità; non mai gli onori tributati al Profeta eccedettero quelli meritati dalle umane virtù; e i precetti sempre vivi nel cuore dei suoi discepoli, hanno tenuta la gratitudine fra i confini della ragione e della religione. È bensì vero, che i Settari d’Alì hanno consacrata la memoria del loro campione, di sua moglie e de’ figli: e pretendono taluni de’ dottori persiani che l’Essenza divina siasi incarnata nella persona degl’Imani: ma da tutti i Sonniti si condanna come empietà questa superstizione, che finì di premunire il popolo dal culto de’ Santi e de’ Martiri. Le quistioni metafisiche su gli attributi di Dio, e su la libertà dell’uomo, furono dibattute nelle scuole de’ Musulmani come in quelle de’ Cristiani; ma presso i primi non accesero giammai le passioni della moltitudine, nè mai turbarono la quiete dello Stato. Forse nella separazione, o nell’unione, degli uffici sacerdotali e de’ regii conviene cercare la cagione di questa notabile differenza. Era interesse de’ Califfi, successori del Profeta e comandanti de’ fedeli, reprimere e disanimare ogni novità religiosa: l’Ordine del clero, e la sua ambizione temporale o spirituale, son cose affatto sconosciute pe’ Musulmani, e i sapienti della legge sono le guide della lor coscienza e gli oracoli della fede. Dal mare Atlantico al Gange, il Corano è tenuto pel codice fondamentale, non solo di teologia, ma di giurisprudenza civile e criminale, e l’infallibile ed [p. 150 modifica]immutabile sanzione della volontà di Dio mantiene le leggi regolatrici delle azioni e della proprietà degli uomini. Questa servitù religiosa ha qualche svantaggio in pratica: bene spesso l’ignorante legislatore de’ Musulmani fu traviato da’ pregiudizi propri e da quelli del suo paese, e le istituzioni fatte pel deserto dell’Arabia, ponno mal convenire, in molti casi, alla ricchezza e alla popolazione d’Ispahan e di Costantinopoli. Allora il Cadì si pone rispettosamente il libro sacro sul capo, e lo interpreta nella maniera più conforme alle massime dell’equità, ed ai costumi o alla politica del tempo.

Quando per fine si tratta d’esaminare quanto abbia fatto la dottrina di Maometto a danno, o a pro della sua patria, e i Cristiani e gli Ebrei più violenti, o più superstiziosi, concederanno sicuramente, che se quel Profeta attribuissi una falsa missione, nol fece che per introdurre una dottrina salutare; e solamente meno perfetta della loro. Piamente pose per cardine della sua religione la verità e la santità delle rivelazioni di Mosè e di Gesù Cristo, le virtù loro, i lor miracoli. Disparvero gl’idoli dell’Arabia in faccia al trono di Dio; fu espiato il sangue delle vittime umane coll’orazione, col digiuno, colla elemosina, lodevoli o per lo meno innocenti artificii della divozione, e Maometto dipinse i premii e le pene dell’altra vita sotto le immagini più adatte all’intelligenza d’un popolo ignorante e carnale. Era forse inetto a dettare un sistema sminuzzato di morale e di politica che acconcio fosse pe’ suoi compatriotti; ma insinuava ne’ fedeli uno spirito di carità e d’amore; raccomandava la pratica delle virtù sociali, e colle leggi, come co’ precetti, reprimeva l’ardore della [p. 151 modifica]vendetta, e ostava alla oppressione degli orfani e delle vedove. La fede e l’obbedienza ricongiunsero le tribù disunite, e il valore, vanamente gittato sino a quel tempo in litigi domestici, energicamente si volse contro un estero nemico. Se meno forte fosse stato l’impulso, libera nell’interno l’Arabia, e formidabile al di fuori avrebbe potuto fiorire sotto una lunga serie di sovrani nativi del suo paese. Colla dilatazione e colla rapidità de’ conquisti venne a perdere la sua sovranità; disperse furono in oriente e in occidente le sue colonie, e si mischiò il sangue degli Arabi con quello de’ loro proseliti o de’ prigionieri. Dopo il regno de’ tre primi Califfi, fu trasportato il trono da Medina alla valle di Damasco e su le sponde del Tigri: da un’empia guerra violate furono le due città sante; si curvò l’Arabia sotto il giogo d’un suddito, forse d’uno straniero; e i Beduini del deserto, rinvenuti dalle speranze chimeriche da cui erano affascinati di dominare al di fuori, si restrinsero all’antica e solitaria loro independenza208.

Note

  1. Poichè in questo capitolo e nel seguente io mostrerò molta erudizione araba, debbo dichiarare la mia perfetta ignoranza delle lingue orientali, e la gratitudine mia pei dotti interpreti, che mi han fatto copia del lor sapere su questa materia in latino, in francese e in inglese. Indicherò a tempo e luogo le raccolte, le versioni e le storie che ho consultate.
  2. In tre classi ponno dividersi i Geografi dell’Arabia: 1. i Greci e i Latini, le cognizioni progressive de’ quali si possono esaminare in Agatarcide (De mari Rubro in Hudson, geographi minores, t. I.), in Diodoro di Sicilia (t. I. l. II, p. 159-167, l. III, p. 211-216, edit. Wesseling), in Strabone (l. XVI, p. 1112-1114), dietro Eratostene, (p. 1122-1132, dietro Artemidoro), in Dionigi (Periegesis, 927-969), in Plinio (Hist. natur., V, 12; VI, 32) e in Tolomeo (Descript. et Tabulae urbium in Hudson, t. III.) 2. Gli scrittori arabi che han trattato quest’argomento collo zelo del patriottismo o della divozione. Gli estratti dati da Pocock (Specimen Hist. Arabum, p. 125-128) della Geografia del Seriffo al-Edrissi, accrescono il disgusto che si prova nella versione, o nel sommario, (p. 24, 27, 44, 56, 108, etc.) pubblicata dai Maroniti coll’assurdo titolo della Geographia nubiensis (Paris 1619); ma i traduttori latini e francesi, Graves (in Hudson, t. III) e Galland (Voyage de la Palestine, del La Roque, p. 265-346), ci han dato a conoscer l’Arabia d’Abulfeda, descrizione la più minuta ed esatta che si abbia di quella penisola, e se le può aggiugnere per altro la Biblioteca Orientale del d’Herbelot, p. 120, et alibi passim. 3. I viaggiatori Europei, tra i quali Shaw (p. 438-455) e Niebuhr (Description, 1773; Voyages, tom. I, 1776) vogliono essere menzionati con onore: Busching (Géographie par Berenger, t. VIII. p. 416-510) ha fatto una compilazione giudiziosa; e il lettore debbe aver sotto gli occhi le carte del d’Anville (Orbis veteribus notus, e la prima parte dell’Asia) e la sua Geografia antica (t. I, p. 208-231).
  3. Abulfeda, Descriptio Arabiae, p. 1; d’Anville, l’Eufrate e il Tigri, p. 19, 20. In questo luogo, ove si trova il paradiso, o sia giardino d’un satrapo, passò Senofonte coi Greci l’Eufrate per la prima volta (Ritirata dei diecimila l. 1. c. 10, p. 29. edit. Wells).
  4. Il Reland ha provato con molta erudizione superflua 1. che il nostro mar Rosso (il Golfo d’Arabia) non è che l’una parte del mare Rubrum, Ερυθρα θαλασση degli antichi, che si allungava fino allo spazio indefinito dell’Oceano indiano; 2. Che i vocaboli sinonimi ερυθρος αιθιοψς, sono allusivi al color dei Neri o Negri. (Dissert. miscell., t. I. p. 59-117).
  5. Fra le trenta giornate o stazioni, che si contano fra il Cairo e la Mecca, quindici mancano d’acqua dolce. V. la strada degli Hadjees, nei Viaggi di Shaw, p. 477.
  6. Plinio, nel duodicesimo libro della sua Storia naturale, (l. XII, c. 42) tratta degli aromi, e soprattutto del thus o incenso dell’Arabia: Milton in una similitudine rammenta gli odori aromatici che il vento del Nord-est trasporta sulla costa di Saba (Paradiso Perduto lib. 4).
  7. Agatarcide afferma che vi si trovavano pezzi d’oro vergine, la cui grossezza variava da quella d’una oliva a quella d’una noce; che il ferro valea due volte e l’argento dieci volte più dell’oro (De mari Rubro, p. 60.). Questi tesori, veri o immaginarii, si son dileguati, e non si conosce al presente nell’Arabia una sola miniera d’oro. (Niebuhr, Description, p. 124).
  8. Si consulti, si legga per intero e si studii lo Specimen Historiae Arabum di Pocock (Oxford, 1650, in 4). Le trenta pagine del testo e della versione sono un estratto delle dinastie di Gregorio Abulfaragio, tradotte poi dal Pocock (Oxford 1663, in 4.) Le trecencinquantotto note sono una Opera classica ed originale sulle antichità dell’Arabia.
  9. Arriano indica gl’Icthyofagi della costa d’Hejaz (Periplus maris Erythraei, p. 12), e li pone ancora al di là di Aden (p. 15.). Pare probabile che le coste del mar Rosso (prese nel senso più largo) fossero abitate da quei Selvaggi anche ai tempi di Ciro; ma stento a credere che vi fossero tuttavia dei cannibali fra loro sotto il regno di Giustiniano (Procopio, De bello Persico l. I. c. 19).
  10. V. lo Specimen Historiae Arabum, di Pocock, p. 2, 5, 86, ec. Il viaggio del Signor d’Arvieux fatto nel 1664 al campo dell’Emir del Monte Carmelo (Voyage de la Palestine, Amsterdam, 1718) presenta un quadro piacevole ed originale della vita de’ Beduini, rischiarato ancora da Niebuhr, (Description de l’Arabie, p. 327-344), e dal Signor di Volney (t. I. p. 343-385), l’ultimo e il più giudizioso di quanti han pubblicati viaggi nella Siria.
  11. Leggansi (nè sarà noiosa la briga) gli articoli impareggiabili sul Cavallo e sul Cammello dell’Istoria naturale del Signor di Buffon.
  12. V. sui cavalli arabi il d’Arvieux (p. 159-173), e Niebuhr (p. 142-144). Sulla fin del tredicesimo secolo erano stimati i cavalli di Neged per la sicurezza del piede; quelli dell’Yemen per la forza e per l’utilità dei servigi; quelli di Hejaz per la più bella apparenza. I cavalli europei, che si poneano nella decima ed ultima classe, erano generalmente spregiati per aver troppo corpo e poco ardimento (d’Herbelot Bibl. Orient. p. 339); avean bisogno di adoperare tutto il vigore per portare il cavaliere e la sua armatura.
  13. Qui carnibus camelorum vesci solent odii tenaces sunt diceva un medico Arabo. (Pocock Specimen p. 88.). Maometto stesso, che amava molto il latte della femmina di questo quadrupede, preferiva la vacca, e non ha fatto menzion del cammello; ma il vitto alla Mecca e a Medina era già meno frugale (Gagnier, Vie de Mahomet, t. III. p. 404).
  14. Marciano d’Eraclea (in Perip., p. 16, in t. I; de Hudson, minor Geograph.) noverava cento sessantaquattro città nell’Arabia Felice. Poca per altro poteva esserne l’estensione, e forse grande la credulità dello scrittore.
  15. Albufeda (in Hudson, t. III, p. 54) paragona Saana a Damasco: anche oggi è la residenza dell’Iman dell’Yemen (Voyages de Niebuhr, t. I. p. 331-342). Saana è distante ventiquattro parasanghe da Dafar (Abulfeda, p. 51), e sessantotto da Aden (p. 53).
  16. Pocock, Specimen, p. 57; Geograph. Nubiensis, p. 52. Meriaba, o Merab, che avea sei miglia di circonferenza fu distrutta dalle legioni d’Augusto (Plinio Hist. nat. VI, 32); e non era per anche risorta nel secolo sedicesimo (Albufeda Descript. Arab., p. 58).
  17. Il nome di Medina fu dato κατ’ εξοχην, per eccellenza, a Yatreb (la Iatrippa de’ Greci), ove risiedeva il Profeta. Albufeda fa il computo (p. 15) delle distanze da Medina per istazioni, o giornate d’una caravana; ne conta quindici sino a Bahrein, diciotto a Bassora, venti a Cufah, venti a Damasco o alla Palestina, venticinque al Cairo, dieci alla Mecca, trenta dalla Mecca a Saana, o Aden, e trentun giorni, o quattrocento dodici ore, sino al Cairo (Voyages de Shaw, p. 477); e secondo il calcolo del d’Anville (Mesures itinéraires, p. 99), una giornata di cammino era di circa 25 miglia inglesi. Plinio (Hist. nat. XII, 32) contava sessanta cinque stazioni di cammelli dal paese dell’incenso (Hadramaüt, nell’Yemen, fra Aden, e il capo Fartasch) sino a Gaza nella Siria. Queste misure possono aiutare la fantasia e dar lume a’ fatti.
  18. Fa d’uopo ricorrere agli Arabi per sapere quel che si può della Mecca (d’Herbelot, Bibl. orient. p. 368-371; Pocock, Specimen, p. 125-128; Abulfeda, p. 11-40). Non essendo permesso a’ miscredenti l’entrarvi, i nostri viaggiatori non ne parlano: il poco che ne dice Thevenot (Voyage du Levant, part. I, p. 490) è tolto dalla bocca sospetta d’un rinnegato affricano. Alcuni Persiani vi noveravano seimila case (Chardin, t. IV, p. 167).
  19. Strabone, l. XVI, p. 1110. D’Herbelot (Bibl. orient., p. 6.) accenna una di queste case di sale presso Bassora.
  20. Mirum dictu ex innumeris populis pars aequa in commerciis aut latrociniis degit (Plinio, Hist. nat., VI, 32). Vedi il Koran di Sale, Sura 106, p. 503; Pocock, Spec., p. 2; d’Herbelot, Bibl. orient., p. 361; Prideaux, Vie de Mahomet, p. 5; Gagnier, Vie de Mahomet, t. 1, p. 72-120, 126. etc.
  21. La Genesi, al capo 16, v. 12, dice: hic erit ferus homo: manus ejus contra omnes, et manus omnium contra eum, et e regione universorum fratrum suorum figet tabernacula. Qui nel dato carattere d’Ismaele possono considerarsi descritti profeticamente i suoi discendenti, gli Arabi, dati a regolare ladroneccio, e dimoranti poco lungi della Palestina; non sono artificiosamente contorti i sensi della Genesi; non si potrebbe per altro spiegare il manus omnium contra eum che col riferirlo all’essere stata l’Arabia alcune volte invasa da armate tartare, e persiane; ma ciò potrebbe pur dirsi di tanti altri Stati. (Nota di N. N.)
  22. Un dottor anonimo (Univers. History, vol. XX, edit. in-8) ha ricavato dall’independenza degli Arabi una dimostrazione formale della verità del cristianesimo. Può un critico primieramente negare i fatti, e poi disputare sul senso del passo che si allega della Bibbia (Genes. XVI, 12), su l’ampiezza della applicazione, e sul fondamento della genealogia.
  23. Fu soggiogato (A. D. 1173) da un fratello del gran Saladino che fondò una dinastia de’ Curdi o degli Ayoubiti (Guignes, Hist. des Huns, t. 1, p. 425; d’Herbelot, p. 477).
  24. Dal luogotenente di Solimano I (A. D. 1538), e da Selim II (1568). V. Cantemir (Hist. de l’empire Ottoman, p. 201-221.) Il Bascià che risedeva in Saana comandava a ventun Bey, ma non mandò mai tributi alla Porta (Marsigli, Stato Militare dell’impero Ottomano, p. 124), e i Turchi ne furono cacciati verso l’anno 1630. (Niebuhr, p. 167, 168.)
  25. Le principali città della provincia romana che chiamavasi Arabia e terza Palestina, erano Bostra e Petra che datavano dall’anno 105, epoca in cui furono soggiogate da Palma, luogotenente di Traiano. (Dion Cassio, l. LXVIII). Petra era la capitale de’ Nabatei, che traevano il nome dal primogenito dei figli d’Ismaele (Genes. XXV, 12, etc., co’ Commenti di San Girolamo, del Le Clerc, e del Calmet). Giustiniano abbandonò un paese palmifero di dieci giornate di viaggio al mezzodì di Aelah (Procopio, De bell. persico, l. I, c. 19); e i Romani avevano un centurione e una dogana (Arriano in Periplo maris Erythroei, p. 11, in Hudson, t. 1) in un luogo (λευκη κωμη, Pagus Albus Hawarra) del territorio di Medina (d’Anville, Mémoire sur l’Egypte, p. 243). Su questi possedimenti reali, e su qualche nuova scorreria di Traiano (Peripl. p. 14, 15) fondarono gli storici e le medaglie la supposizione che i Romani conquistassero l’Arabia.
  26. Niebuhr (Descript. de l’Arabie, p. 302, 303, 329-331) ci dà le notizie più recenti ed autentiche sul grado d’autorità che possedono i Turchi nell’Arabia.
  27. Diodoro di Sicilia (t. II, l. XIX, p. 390-393, ediz. del Wesseling) ha data a conoscere chiaramente l’independenza degli Arabi nabatei, che fecero resistenza alle armi d’Antigono e di suo figlio.
  28. Strabone, l. XVI, p. 1127-1129; Plinio, Hist. nat., VI, 32. Elio Gallo sbarcò presso Medina, e fece quasi trecento leghe nella parte dell’Yemen che giace fra Mareb e l’Oceano. Il non ante devictis Sabeae regibus (Od. I, 29), e gl’intacti Arabum thesauri (Od. III, 24) d’Orazio, attestano l’indipendenza ancora inviolata degli Arabi.
  29. Lo stendardo di Maometto non è sacro pel lettore cristiano: questo aggettivo è male applicato ad uno stendardo di un fortunato Capo d’entusiasti, che coll’armi diffusero la lor religione rapidamente in molte, e vaste regioni dell’Asia, e dell’Affrica. (Nota di N. N.)
  30. V. in Pocock una Storia imperfetta dell’Yemen, Specimen, p. 55-66; di Hira, p. 66-74; di Gassan p. 75-78, su tutte le cose che si poterono sapere, o di cui si potè in un tempo d’ignoranza serbare memoria.
  31. Le Σαρακηνικα φυλα, μυριαδες ταυτα, και το πλειστον αυτων ερημονομοι, και αδεσποτοι, tribù Saracene, a decine di migliaia, e per lo più abitatrici di deserti, e independenti, descritte da Menandro (Excerpt. legat., p. 149), da Procopio (De bell. Pers. l. I. c. 17-19; l. II, c. 10) e, coi più forti colori, da Ammiano Marcellino, (l. XIV, c. 4) che ne parla sin dal tempo di Marc’Aurelio.
  32. Questo nome usato da Tolomeo e da Plinio in un senso più ristretto, e da Ammiano e da Procopio in significato più largo, fu ridicolamente derivato da Sarah, moglie d’Abramo; e in un modo assai oscuro dal villaggio di Saraka μετα Ναβαταιους fra i Nabatei (Stephan., De urbibus), ma più plausibilmente da vocaboli arabici, che significano un naturale disposto al ladroneccio, o che denotano la loro situazione all’Oriente (Hottinger, Hist. orient., lib. I, c. I. p. 7, 8; Pocock, Specimen, p. 33-35; Assemani, Bibl. orient. t. IV, p. 567). Ma l’ultima e la più ammessa di tali etimologie è confutata da Tolomeo (Arabia, p. 2, p. 18, in Hudson, t. IV), che segna espressamente la situazione occidentale e meridionale de’ Saraceni, che allora erano una tribù oscura stanziata su le frontiere dell’Egitto. Questa denominazione adunque non può riferirsi al carattere nazionale; e poichè fu data da forestieri, convien cercarne l’origine non già nella lingua araba, ma in una straniera.
  33. Saraceni .... mulieres aiunt in eos regnare. ( Expositio totius Mundi, p. 3, in Hudson, t. III). Il regno di Mavia è famoso nella Storia ecclesiastica (Pocock, Specim., p. 69-83).
  34. Μη εξειναι εκ των Βασιλειων, non uscire della reggia, dicono Agatarcide (De mari Rubro, p. 63, 64, in Hudson, t. I), Diodoro di Sicilia (t. I, l. III, c. 47, p. 215), e Strabone (l. XVI, p. 1124); ma sono tentato a credere che sia una di quelle fole popolari, o di quegli strani accidenti che dalla credulità degli scrittori si spacciano sovente per un atto costante, per un costume, o per una legge.
  35. Non gloriabantur antiquitus Arabes, nisi gladio, hospite, et eloquentia (Sephadius, apud Pocock, Specimen, p. 161, 162.) Solo co’ Persiani avevano comune il dono della parola; e gli Arabi sentenziosi avrebbero probabilmente sdegnato la schietta e sublime dialettica di Demostene.
  36. Debbo rammentare al lettore che d’Arvieux, d’ Herbelot, e Niebuhr dipingono co’ più vivi colori i costumi e il governo degli Arabi, e che da diversi passi della vita di Maometto pigliano luce queste materie.
  37. V. Il primo capitolo di Giobbe, e si rammenti la lunga muraglia di mille e cinquecento stadi eretta da Sesostri cominciando da Pelusio sino ad Eliopoli (Diodoro di Sicilia, t. 1, l. I, p. 67). A quel tempo i re pastori aveano soggiogato l’Egitto sotto nome di Hycsos (Marsham, Canon. chron., p. 98-163, ec.)
  38. Ovvero, secondo altro calcolo, mille e dugento (d’Herbelot, Bibl. orient., p. 75). I due storici che hanno scritto su le Ayam-al-Arab, le battaglie degli Arabi, viveano nei secoli nono e decimo. Due cavalli furono il motivo della famosa guerra di Dahes e di Gabrah, che durò quarant’anni, e passò in proverbio (Pocock, Specimen, p. 48).
  39. Niebuhr (Description, p. 26-31) espone la teorica e la pratica moderna degli Arabi nel vendicare l’assassinio. Si può riscontrare nel Coran (c. 2, p. 20; c. 17, p. 230), colle osservazioni di Sale, l’indole più rozza dell’antichità.
  40. Procopio (De bell. Pers. l. I, c. 16) assegna i due mesi di pace verso il solstizio estivo; ma gli Arabi ne contan quattro, il primo mese dell’anno, il settimo, l’undecimo, e il duodecimo, e pretendono che in una lunga serie di secoli non sia mancata questa tregua che quattro o sei volte (Sale, Disc. prélim., p. 147-150, e Note sul nono Capitolo del Corano, p. 154, etc.; Casiri, Bibl. hispano-arabica, t. II, p. 20, 21).
  41. Arriano, che vivea nel secondo secolo, accenna (in Periplo maris Erithraei, p. 12) la differenza parziale o totale de’ dialetti Arabi. Pocock (Specimen, p. 150-154), Casiri (Bibl. hispano-arabica, t. I, p. 1, 83, 292; tom. II, p. 25, ec.) e Niebuhr (Descript. de l’Arabie, p. 72-86) hanno minutamente trattato di ciò che risguarda l’alfabeto e la lingua degli Arabi; ma io trascorro leggermente su questa materia, non prendendo io diletto a ripetere da pappagallo parole che non intendo.
  42. Il Voltaire ha inserito nel suo Zadig una Novella familiare (il Cane ed il Cavallo) per provare l’accortezza naturale degli Arabi (d’Herbelot, Bibl. orient. p. 120, 121; Gagnier, Vie de Mahomet, t. I, p. 37-46); ma d’Arvieux, o piuttosto La Roque (Voyage de la Palestine, p. 92), ha negata la superiorità di che si dan vanto i Beduini. Le cento sessantanove sentenze di Alì (tradotte in inglese da Ockley, a Londra, 1718) sono un saggio dello spirito de’ frizzi in cui son singolari gli Arabi.
  43. Pocock (Specimen, p. 158-161) e Casiri (Bibl. Hisp. Arab., t. I, p. 48-84, ec., 119; t. II, p. 17, ec.) parlano de’ poeti Arabi anteriori a Maometto. I sette poemi della Caaba furono stampati in inglese da Sir William Jones; ma l’onorevole missione che gli fu commessa nell’India ci ha privato delle sue note molto più interessanti che non quel testo vieto ed oscuro.
  44. Sale, Discours prélim., p. 29, 30.
  45. D’Herbelot, Bibl. orient., p. 458; Gagnier, Vie de Mahomet, t. III, p. 118. Caab, e Hesno (Pocock, Specim. p. 43, 46, 48) si segnalaron anch’essi nella liberalità, ed un poeta arabo dice elegantemente di quest’ultimo: Videbis eum cum accesseris exultantem, ac si dares illi quod ab illo petis.
  46. Tutto quello che ora può sapersi dell’idolatria degli Arabi antichi si trova in Pocock, (Specim., p. 89, 136, 163, 164). La sua profonda erudizione è stata interpretata in modo ben chiaro e conciso dal Sale (Discours prélim., p. 14-24); e l’Assemani (Bibl. orient., t. IV, p. 580-590) ha aggiunto annotazioni preziose.
  47. Ιερον αγιωτατον ιδρυται τιμωμενον υπο παντων Αραβων περιττοτερον „si vede un Tempio famoso venerato per santissimo da tutti gli Arabi„ (Diod. di Sicilia, t. I, l. III, p. 211); la qualità e il sito concordano tanto che mi fa maraviglia come siasi letto questo passo curioso senza avvertirlo e senza badare all’applicazione. Pure Agatarcide (De mari Rubro, p. 58, in Hudson, t. I.), copiato da Diodoro nel resto di quella descrizione, non fa motto di quel celebre Tempio. Forse che il Siciliano ne sapea più che l’Egizio? O fu costrutta la Caaba tra l’anno di Roma 650 e il 746, tempo in cui componevano i loro libri? (Dodwell, in Dissertat. ad. t. I, Hudson, p. 72; Fabricio, Bibl. graec., t. II. p. 770).
  48. Pocock, Specimen, p. 60, 61. Dalla morte di Maometto retrocediamo a sessantott’anni, e dalla sua nascita a cento ventinove anni avanti l’Era cristiana. Il velo, o la tela, che oggi è di seta e d’oro, non fu anticamente che una stoffa di lino d’Egitto. (Abulfeda, Vit. Mohammed, c. 6, p. 14).
  49. La pianta originale della Caaba, servilmente copiata dal Sale, dagli autori della Storia universale, ec. è un abbozzo fatto da un Turco, che Reland (De religione Mohammed, p. 113-123) ha corretta e spiegata colla scorta di buone autorità. Si consulti su la Leggenda e la Descrizione della Caaba il Pocock (Specimen, p. 115-122), la Bibliothèque orientale del di Herbelot (Caaba, Hagier, Zemzem, etc.), e il Sale (Disc. prélimin. p. 114-122).
  50. Sembra che Cosa, quinto antenato di Maometto, usurpasse la Caaba (A. D. 440); ma Iannabi (Gagnier, Vie de Mahomet, t. I, p. 65-69) e Abulfeda (Vit. Mohammed, c. 6, p. 13) raccontano il fatto diversamente.
  51. Massimo Tirio, che vivea nel secondo secolo, attribuisce agli Arabi il culto d’una pietra. Template:Greek„Αραβιοι σεβουσι μεν, εντινα κα δε ηιδα, το δε αγαλμα ειδον; λοθος ην τετθαγωνος„? gli Arabi adorano un simulacro di tal fatta, che per altro non ho veduto; la pietra, era quadrangolare (Dissert. 8, t. I, p. 142, ediz. Reiske); e i cristiani hanno ripetuto con gran veemenza questo rimprovero (Clemente Alessandrino, in Protreptico, p. 40; Arnobio, Contra gentes, lib. VI, p. 246). Ma pure quelle pietre altro non erano che i Βαιτυλα della Siria e della Grecia, tanto rinomati nell’antichità sacra e profana (Euseb. Praep. Evangel., l. I, p. 37; Marsham, Canon. chron. p. 54-56).
  52. Il dotto Sir John Marsham (Canon. chron., p. 76-78, 301-304) discute esattamente i due orridi punti dell’Ανδροθυσια, sagrifici umani, e della παιδοθυσια, sagrifici di fanciulli. Sanconiatone dall’esempio di Crono trae l’origine de’ sagrifici della Fenicia; ma non sappiamo se Crono vivesse prima o dopo Abramo, od anzi se mai sia stato al Mondo.
  53. „Κατ’ ετος εκαστον παιδα εθυον„ „ogn’anno sagrificavano un fanciullo„; tal’è il rimprovero di Porfirio; ma egli accusa di questo crudel costume anche i Romani, costume già abolito del tutto, A. V. C. 657. Tolomeo (Tabul, p. 37, Arabia, p. 9-29), ed Abulfeda (p. 57) fan menzione di Dumaetha, Daumat-al-Gendal; e le carte di d’Anville pongono questo luogo nel cuor del deserto, tra Chaibar e Tadmor.
  54. Procopio (De bell. pers., l. I, c. 28), Evagrio (l. VI, c. 21) e Pocock (Specimen, p. 72-86) attestano i sagrifici umani degli Arabi del sesto secolo. Il pericolo e la liberazione d’Abdalah son piuttosto una traduzione che un fatto (Gagnier, Vie da Mahomet, l. I, p. 82-84).
  55. Non può dirsi, che gli Ebrei s’astenessero dal mangiare le carni del porco per ignoranza, per sanità o per qualunque altro motivo; essi ciò facevano per comando di Dio, venuto loro per mezzo di Mosè, fondatore di lor religione; non bisogna unire insieme gli usi religiosi delle altre nazioni con quelli degli Ebrei; potevano essi essere i medesimi, anzi, parlando dell’astinenza dal mangiare il porco, lo erano; ma i motivi di cotale astinenza erano diversi; presso gli Ebrei, il solo motivo che Mosè ne addusse fu il commando assoluto di Dio. Lo stesso dicasi della circoncisione della quale viene l’Autore subito a parlare. (Nota di N. N.)
  56. Suillis carnibus abstinent, scrive Solino (Polyhist., c. 33), il quale copia da Plinio (l. VIII, c. 68); strana supposizione che i maiali non possano vivere nell’Arabia. Aveano gli Egizi un’avversione naturale e superstiziosa per questo animale immondo (Marsham, Canon, p. 206). Gli Arabi antichi praticavano altresì, post coitum, la ceremonia dell’abluzione (Erodoto, l. I, c. 80), consacrata dalla legge de’ Musulmani (Reland, p. 57, etc.; Chardin, o piuttosto il Mollah di Shah Abbas, t. IV, p. 71, etc.).
  57. I dottori Musulmani non han piacere di trattare questa materia; pure credono necessaria la circoncisione per la salute, e pretendono ancora che per una specie di miracolo, nascesse Maometto senza prepuzio (Pocock, Spec., p. 319, 320; Sale, Disc. prélim., p. 106, 107).
  58. Diodoro Siculo (t. I, l. II, p. 142-145) ha data alla lor religione un’occhiata curiosa ma superficiale da Greco. Si dee apprezzare la loro astronomia, avvegnachè aveano finalmente fatto uso della lor ragione, se dubitavano che il sole fosse nel numero de’ pianeti e delle stelle fisse.
  59. Semplicio (che cita Porfirio), De coelo, l. II, com. 46, p. 123; l. XVIII, ap. Marsham, Canon chron., p. 474, che dubita del fatto perchè contrario a’ suoi sistemi. La più vecchia data delle osservazioni de’ Caldei è dell’anno 2234 avanti Gesù Cristo. Dopo il conquisto di Babilonia fatto da Alessandro, quelle osservazioni, per le preghiere d’Aristotele, furono comunicate all’astronomo Ipparco. Che bel monumento nella storia delle Scienze!
  60. Pocock (Specim., p. 138-146), Hottinger (Hist. orient., p. 162-203), Hide (De relig. vet. Persar., p. 124-128, ec.), d’Herbelot (Sabi, p. 725, 726) e Sale (Discours prélim.) destano in noi curiosità senza soddisfarla, e l’ultimo scrittore confonde il Sabeismo colla religion primitiva degli Arabi.
  61. Essendo stato Abramo un pastore Caldeo, essendo stati gli Ebrei schiavi in Babilonia, città della Caldea, ed essendo stati istruiti della creazione, e del diluvio da Mosè, è naturale che le idee dei Caldei, o Sabei, intorno a queste cose, fossero conformi a quelle degli Ebrei: del resto sono stati attribuiti alcuni libri ad Adamo, a Seth, e ad Enoch. (Nota di N. N.)
  62. D’Anville (l’Eufrate e il Tigri, p. 130-147) determina il sito di que’ cristiani equivoci. L’Assemani (Bibl. orient., t. IV, p. 607-614) avrà forse esposto i lor veri Domma, ma è fatica arrischiata il voler fissare la credenza d’un popolo ignorante che teme e arrossisce di svelare le sue arcane tradizioni.
  63. Abitavano i Magi nella provincia di Bahrein (Gagnier, Vie de Mahomet, t. III, p. 114) frammisti agli Arabi antichi (Pocock, Specimen, p. 146-150).
  64. Cioè i Cattolici hanno procurato di spargere il più che hanno potuto la loro credenza, ma non già d’avere l’Impero temporale. (Nota di N. N.)
  65. Pocock, aderendo a Sharestani, ec. (Specimen, p. 60-134, ec.), Hottinger (Hist. orient., p. 212-238), d’Herbelot, (Bibl. orient., p. 474-476), Basnagio (Hist. des Juifs, t. VII, pag. 185, t. VIII, pag. 280) e Sale (Disc. prélim., p. 22, ec. 33, ec.) descrivono la situazione de’ Giudei e dei Cristiani nell’Arabia.
  66. Nelle obblazioni avean per massima d’ingannar Dio a pro dell’idolo, ch’era meno possente, ma più irritabile (Pocock, Specimen, p. 108-109).
  67. Le versioni ebraiche o cristiane che abbiamo della Bibbia sembrano più moderne del Corano, ma dee credersi che s’avessero traduzioni anteriori, 1. per l’uso perpetuo della sinagoga, che spiegava la lezione ebraica con una parafrasi in lingua volgare del paese; 2. per l’analogia delle versioni armena, persiana ed etiopica, espressamente citate da’ Padri del quinto secolo, i quali asseriscono che le scritture erano state tradotte in tutte le lingue de’ Barbari. (Walton, Prolegomena ad Biblia Polyglotta, p. 34, 93, 97; Simon, Hist. crit. du vieux et du nouveau Testament, t. I, p. 180, 181, 282, 286, 293, 305, 306; t. IV, p. 206.)
  68. La credenza che prestarono gli Arabi, prima che Maometto fondasse la sua nuova religione, ai miracoli narrati nella Bibbia, era fondata sopra i motivi di credibilità che avevano i miracoli stessi; non può dunque dirsi credulità. L’Autore poi ha torto dicendo, per le parole di Hottinger, „est une calomnie maladroite des chrétiens„, poichè vi sono anche alcuni altri scrittori cristiani che confessano esser nato Maometto di stirpe nobile. (Nota di N. N.)
  69. In eo conveniunt omnes, ut plebejo vilique genere ortum, etc. (Hottinger, Hist. orient., p. 136). Ma Teofane, il più antico degli storici Greci, e padre di più menzogne, confessa che Maometto era della razza d’Ismaele, εκ μιας γενικωτατης φυλης (Chron. p. 277.) di una famiglia nobilissima.
  70. Abulfeda (in Vit. Mohammed, c. 1, 2) e Gagnier (Vie de Mahomet, p. 25-97) espongono la genealogia del Profeta quale è ammessa da’ suoi nazionali. Se fossi alla Mecca, mi guarderei ben del contrastarne l’autenticità, ma a Losanna mi farò lecito d’osservare, 1. che da Ismaele a Maometto lo spazio è di duemila e cinquecento anni, e che i Musulmani non contano che trenta generazioni in vece di settantacinque; 2. che i Beduini moderni sono ignari della storia propria, e non si curano della lor genealogia (Voyage de Darvieux, p. 100-103).
  71. I primi semi di questa o favola o storia si trovano nel centesimoquinto capitolo del Corano, e Gagnier (Préface de la Vie de Mahomet, p. 18, etc.) ha tradotto il racconto d’Abulfeda sul quale si può cercare qualche schiarimento nel d’Herbelot (Bibl. orient., p. 12) e Pocock (Specimen, p. 64). Prideaux (Vie de Mahomet) scrive essere una novella inventata dal profeta; ma il Sale (Koran, p. 501-503), mezzo Musulmano, punge l’incoerenza di questo scrittore che credeva ai miracoli dell’Apollo di Delfo. Il Maracci (Alcoran, t. I, parte II, p. 14; t. II, p. 823) attribuisce il prodigio al diavolo, e forza i Musulmani a confessare che Dio non avrebbe protetto contro i cristiani gli idoli della Caaba.
  72. Le epoche più sicure, quelle d’Abulfeda (in Vit., c. 1, p. 2) d’Alessandro o de’ Greci 882, di Bocht Naser o Nabonassar 1316, ci danno l’anno 569 per quella della nascita di Maometto. A’ Benedettini è sembrato troppo oscuro ed incerto il vecchio calendario degli Arabi per prestargli fede (Art de vérifier les dates, p. 15); stando al giorno del mese o della settimana, fanno un nuovo computo, e ritirano indietro la nascita di Maometto sino al 10 novembre 570. Concorderebbe questa data coll’anno 882 de’ Greci, stabilita da Elmacin (Hist. Saracen. p. 5) e da Abulfaragio (Dynast. p. 101, e l’Errata della versione di Pocock). Si pone oggi molta cura a conoscere l’epoca precisa della nascita di Maometto, che forse non era nota a quest’ignorante profeta.a
    1. Alcuni letterati più moderni pongono la nascita di Maometto nell’anno 571 dell’Era cristiana. Mohammeds religion, etc. von Cludius, p. 21) (Nota dell’Editore francese).
  73. Secondo altri, Abu-Talebar-Latn s’impadronì del retaggio paterno di Maometto, e cercò ancora di far perire quell’ orfano, il quale dovè ricorrere alla protezione degli altri parenti, di fuggire e d’andare dietro le carovane. (Mohammeds religion aus dem Koran dargelegt etc. von Cludius, p. 21.) (Nota dell’Editore francese).
  74. Ecco la testimonianza onorevole che Abu-Taleb rendette alla sua famiglia e al nipote. Laus Dei, qui nos a stirpe Abrahami et semine Ismaelis constituit, et nobis regionem sacram dedit, et nos judices hominibus statuit. Porro Mohammed filius Abdollahi nepotis mei (nepos meus) quo cum ex aequo librabitur e Koraishidis quispiam cui non praeponderaturus est, bonitate et excellentia, et intellectu et gloria et acumine etsi opum inops fuerit (et certe opes umbra transiens sunt et depositum quod reddi debet), desiderio Chadijae filiae Chowailedi tenetur, et illa vicissim ipsius, quidquid autem dotis vice petieritis, ego in me suscipiam. (Pocock, Specimen, a septima parte libri Ebu Hamduni.)
  75. L’istoria della vita privata di Maometto, dalla sua nascita sino alla sua missione, si legge in Abulfeda (in Vit., c. 3-7) e negli scrittori Arabi, autentici o supposti, citati dall’Hottinger (Hist. orient., p. 204-211), nel Maracci (t. I, p. 10-14) e nel Gagnier (Vie de Mahomet, t. I, p. 97-134).
  76. Abulfeda (in Vit. c. 65, 66), Gagnier (Vie de Mahomet, t. III, p. 272-289). Le tradizioni più verosimili sulla persona e i discorsi del Profeta vengono da Ayesha, da Alì e da Abu Horaira, soprannomato il padre d’un gatto (Gagnier, t. II, p. 267; Ockley, Hist. of the Saracens, t. II, p. 149), e che morì l’anno dell’egira 59.
  77. Que’ che credono che Maometto sapesse leggere e scrivere, non hanno adunque esaminato ciò ch’è scritto d’altra mano che la sua ne’ suras, o cap. del Corano 7, 29 e 96. Abulfeda (in vit., c. 7), Gagnier (Not. ad Abulfeda, p. 15), Pocock (Specimen, p. 151), Reland (De Religione Mohammed., p. 236) e Sale (Disc. prélim., p. 43) ammettono senza contrasto que’ testi e la tradizione della Sonna. Il Sig. White è presso che il solo che neghi l’ignoranza del profeta, per accusarne l’impostura. Ma le sue ragioni sono tutt’altro che soddisfacenti. Due viaggi non lunghi alle fiere di Siria non bastavano certamente ad acquistare cognizioni sì rare fra i cittadini della Mecca; nè mai alla sottoscrizione d’un trattato, che si fa con animo quieto, avrebbe Maometto lasciata cadere la maschera. Niuna conseguenza può dedursi da ciò che si narra della sua malattia e del suo delirio. Prima che s’avvisasse di spacciarsi profeta, avrebbe dovuto nella vita privata mostrar di sovente che sapeva leggere e scrivere; e i suoi primi proseliti, i membri della sua famiglia, sarebbero stati i più pronti a riconoscere ed accusare la sua scandalosa ipocrisia. (White, Sermons, p. 203, 204; Notes, p. 36-38.)
  78. Il conte di Boulainvilliers (Vie de Mahomet, p. 201-228) fa viaggiare Maometto come il Telemaco del Fénelon e il Ciro di Ramsay. La sua andata alla Corte di Persia è probabilmente una fola, nè posso capire io stesso donde venga quella esclamazione: „I Greci peraltro son uomini!„ Quasi tutti gli scrittori Arabi, Musulmani e Cristiani parlano dei due viaggi nella Siria (Gagnier, ad Abulfeda, p. 10.)
  79. Mi manca il tempo d’esaminare le favole e le congetture poste in mezzo sul nome di que’ forestieri accusati, o presunti dagl’Infedeli della Mecca. (Corano, c. 16, p. 223; c. 35, p. 297, colle note del Sale; Prideaux, Vie de Mahomet, p. 22-27; Gagnier, Not. ad Abulfeda, p. 11-74; Maracci, t. II, p. 400). Il Prideaux medesimo ha osservato che queste intelligenze saranno state secrete, e che la scena succedette nel cuor dell’Arabia.
  80. Abulfeda (in vit., c. 7, p. 15; Gagnier, t. I, p. 133-135.) Abulfeda (Geogr. arab., p. 4) indica il sito del monte Hera. Eppure Maometto non aveva mai udito parlare della grotta della ninfa Egeria, ubi nocturnae Numa constituebat amicae; non del monte Ida, ove Minosse conversava con Giove, ec.
  81. Basta leggere il Decalogo, che contiene le volontà di Jehovah, vale a dire di Dio, considerato nella sua essenza, siccome intendevano, ed intendono con quel vocabolo di esprimere gli Ebrei, per conoscere la concordanza dei di lui attributi morali colle virtù sociali; se poi si trovano nella Scrittura sacra alcune espressioni, ed alcuni epiteti, che sembrano sulle prime non potersi concordare coll’idea dell’Essere supremo, siccome sarebbero quelli di iracondo, di furioso, di geloso, determinanti passioni umane, essi, siccome dicono i teologi, devono considerarsi siccome modi figurati di dire de’ sacri scrittori, i quali si servivano di cotali espressioni per usare un linguaggio inteso dagli uomini. Se la Scrittura per esempio ci dice, che Dio si riposò dopo l’opera della creazione, chi penserà che l’Essere supremo abbia avuto bisogno di riposarsi, egli ch’è un’attività immensa ed eterna? (Nota di N. N.)
  82. Corano, c. 9, p. 153. Al-Beidawi e gli altri commentatori citati dal Sale, ammettono questa accusa; io non so vedere come possa acquistare verosimiglianza dalle tradizioni oscure od assurde de' Talmudisti.
  83. Leggasi la nostra annotazione (p. 248) fatta al T. IX, e vedrassi distesamente, che non era nel settimo secolo, nè è presentemente, un’idolatria il culto che i Cristiani, o per meglio dire i Cattolici, prestano alle immagini, ed alle reliquie. Se poi i cristiani detti Collidiani, e ch’erano eretici, prestavano a Maria un culto che a ragione era un’idolatria, ciò nulla offende il cattolicismo. (Nota di N. N.)
  84. Hottinger, Hist. orient., p. 225-228. L’eresia de’ Colliridii fu recata di Tracia in Arabia da varie donne, e il nome procede dal vocabolo Κολλυρις, ossia focaccia, ch’esse offerivano alla Dea. Questo esempio, non che quello di Berillo, vescovo di Bostra (Eusebio, Hist. eccles., l. VI, c. 33) e di parecchi altri, ponno scusare quel rimbrotto, Arabia haereseon ferax.
  85. Quando il Corano parla di tre Dei (c. 4, p. 81, c. 5, p. 92), è chiaro che alludea Maometto al nostro mistero della Trinità; ma i commentatori Arabi non vedono in que’ passi che il Padre, il Figlio e la Vergine Maria, Trinità ereticale, sostenuta, dicesi, da alcuni Barbari nel Concilio niceno (Eutych. Annal., t. I, p. 440). Ma l’esistenza de’ Marianiti è contestata dal sincero Beausobre (Hist. du Manichéisme, t. I, p. 532); e per dare spiegazione allo sbaglio, dice che viene dalla parola rouah (Spirito Santo), che è del genere femminino in vari idiomi dell’Oriente, e che è in senso figurato la madre di Gesù Cristo nell’Evangelo de’ Nazareni.
  86. La spiegazione soddisfa anche sufficientemente la ragione, e non porge l’idea di pluralità di Dei, ossia di politeismo, ch’era la religione di quasi tutti i popoli antichi, eccettuato specialmente l’Ebreo, e lo è di moltissimi anche oggidì, ed al quale la religione cristiana si opponeva, e si oppone. E poi finalmente cotal mistero non è contrario alla ragione, ma solamente è superiore alla ragione, siccome con buoni ragionamenti sostengono i teologi: la natura è piena di misterj superiori alla ragione, siccome sanno i fisici, ed i metafisici; vorressimo noi negarli perchè non li intendiamo, perchè superano le facoltà della nostra ragione, mentre sono in fatto? perchè non ne ammetteremo noi dunque parlando teologicamente del di lei Autore? Il Gibbon si dichiarò già Teista, cioè pensa rettamente contro gli atei, se pur veramente ve ne furono, e ve ne sono, esservi un Esser supremo, dicendo p. 51, e che così comprende una verità eterna, confermando ciò da filosofo Teista anche in altri luoghi, e specialmente p. 56, il Dio della natura ha posto in tutte le sue opere la pruova della sua esistenza, e ha scolpito la sua legge nel cuore dell’uomo. Perchè mai sembra egli qui opporsi all’idea della Trinità di quest’Essere supremo, siccome fece Maometto, il quale nell’atto che predicava e sosteneva con grande entusiasmo, ed anche coll’armi, contro il politeismo degli Arabi del suo tempo, esservi un Essere supremo, un Dio solo, non ammetteva la Trinità delle Persone, e quindi veniva a negare la divinità di Cristo, ed a riguardarlo soltanto come un uomo ottimo e sapiente, la quale divinità coi motivi della di lei credibilità è il fondamento della credenza dei cristiani? (Nota di N. N.)
  87. Questo sistema d’idee filosoficamente si svolge nell’esempio d’Abramo, che nella Caldea si oppose alla prima introduzione della idolatria (Corano, c. 6, p. 106; d’Herbelot, Bibl. orient., p. 13.)
  88. V. il Corano, e soprattutto i capitoli 3 (p. 30), 57 (p. 437), 58 (p. 441) che annunciano l’onnipotenza del Creatore.
  89. Pocock (Specimen, p. 274, 284-292), Ockley (Hist. of the Saracens, v. 2, p. 82-95), Reland (De relig. Mohamm., l. I, p. 7-13) e Chardin (Voyages en Perse, t. IV, p. 4-28) hanno tradotto i simboli più ortodossi dell’Islamismo. A questa grandissima verità, che niente v’ha di simile a Dio, Maracci (Alcoran., t. I, part. III, p. 87-94) oppone goffamente, che Dio fece l’uomo ad immagine sua.
  90. V. Reland (De relig. Moham., l. I, p. 17-47). Sale Discours prélim., p. 73-86, Voyage de Chardin, t. IV, p. 28, 37, 39, 47), su questa aggiunta de’ Persiani, Alì è il vicario di Dio. Ma il numero preciso de’ profeti non è articolo di fede.
  91. V. intorno a’ libri apocrifi d’Adamo, il Fabricio, Codex pseudepigraphus. V. T., p. 27-29; intorno a que’ di Seth, p. 154-157; a que’ d’Enoch, p. 160-219; ma il libro d’Enoch è per alcuni rispetti consecrato dalla citazione che ne fa l’appostolo San Giuda. Sincello e Scaligero allegano in suo favore un lungo brano d’una leggenda.
  92. I sette precetti di Noè sono spiegati dal Marsham (Canon. chronicus, p. 154-180), che in questa occasione aderisce al sapere e alla credulità dello Selden.
  93. D’Herbelot ha seminato con amenità, ne’ suoi articoli Adamo, Noè, Abramo, Mosè, ec., le leggende inventate dalla fantasia de’ Musulmani, che hanno piantato il loro edificio su le fondamenta della Sacra Scrittura e del Talmud.
  94. Corano, c. 7, p. 128, ec.; c. 10, p. 173, ec.; d’Herbelot, p. 647, ec.
  95. Corano, c. 3, p. 40; c. 4, p. 80; d’Herbelot, p. 390, ec.
  96. V. l’Evangelo di San Tommaso, o dell’Infanzia, nel Codex apocryphus N. T. del Fabricio, che rauna le varie testimonianze su quello scritto (p. 128-158). Fu pubblicato in greco dal Cotelier, e in arabo dal Sike, che crede posteriore a Maometto la copia che ne abbiamo; ma pure le citazioni s’accordano coll’originale sul discorso di Gesù Cristo nella culla, su gli uccelli d’argilla dotati di vita, ec. (Sike, c. I, p. 168, 169; c. 36, p. 198, 199; c. 46, p. 206; Cotelier, c. 2, p. 160, 161.)
  97. La Chiesa latina crede, come fu rivelato, che Maria concepì per opera dello Spirito Santo; crede inoltre ch’essa sia stata immacolata nella sua Concezione, e non ha bisogno di prendere quest’ultima credenza dal libro di Maometto, nomato il Koran; se poi la Concezione immacolata v’è indicata, ciò non può che formare un favore già superfluo a cotale credenza. (Nota di N. N.)
  98. L’immacolata Concezione della Vergine Maria è in modo oscuro indicata nel Corano (c. 3, p. 39), e più apertamente dalla tradizione de’ Sonniti (Sale, Nota, e Maracci, t. II, p. 212). San Bernardo riprovò, nel secolo duodecimo, l’immacolata Concezione, come una novità presuntuosa (Fra Paolo, Istoria del Concilio di Trento, l. II.).
  99. La morte e la resurrezione di Gesù Cristo sono narrate chiaramente negli evangelj, e furono sempre credute. Anche Giuseppe Flavio storico, benchè Ebreo, a vantaggio di tale credenza, accenna la resurrezione, nè vale che alcuni critici indiscreti abbiano sostenuto essere stato artifiziosamente inserito il passo nell’Opera di Giuseppe Flavio, per accreditare la resurrezione narrata nell’evangelio coll’affermazione d’uno scrittore Ebreo vicino alla morte di Cristo: l’autenticità di questo passo fu con buone ragioni difesa. (Nota di N. N.)
  100. V. il Corano, c. 3, v. 53, e c. 4, v. 156 dell’edizione del Maracci. „Deus est praestantissimus dolose agentium„ (bizzaro elogio) „.... nec crucifixerunt eum, sed objecta est eis similitudo„: espressione che potrebbe accordarsi coll’opinione de’ Doceti; ma credono i comentatori (Maracci t. II, p. 113; 115, 173; Sale, p. 42, 43, 79) che un altro uomo, amico o nemico, fosse crocifisso in vece di Gesù Cristo. Uno favola è questa, che avean letta nel vangelo di San Barnaba, pubblicata sin dal tempo di Sant’Ireneo, da vari Ebioniti (Beausobre, Hist. du Manichéisme, t. II, p. 25; Mosheim, De reb. cristian., p. 353).
  101. Quest’accusa si trova oscuramente espressa nel Corano (c. 3, p. 45); ma nè Maometto nè i suoi settari erano abbastanza versati nella lingua o nell’arte critica, per dare a’ lor sospetti qualche valore o apparenza di verità. Gli Ariani peraltro e i Nestoriani han potuto spacciare qualche istoria in questo proposito, e l’ignorante Profeta porge orecchio alle asserzioni ardite de’ Manichei. V. Beausobre, t. I, p. 291-306.
  102. I discepoli di Gesù Cristo ricevettero il Paracleto, ossia lo Spirito Santo, che da lui era stato loro promesso, siccome leggiamo nel secondo capo del Libro degli atti degli appostoli; è inutile poi rispondere alle vane pretensioni di Maometto. (Nota di N. N.)
  103. Tra le profezie dell’antico e del nuovo Testamento, pervertite di senso per la frode o l’ignoranza de’ Musulmani, venne applicata al loro Profeta la promessa del Paracleto, o del Consolatore, che i Montanisti ed i Manichei s’erano già appropiata (Beausobre, Hist. crit. du Manich. t. I, p. 263 etc.); e cambiando la parola περικλυτος in παρακλητος, ciò ch’è facile, fanno risultare l’etimologia del nome di Maometto (Maracci, t. I, part. I, p. 15-28).
  104. V. sul Corano, d’Herbelot, p. 85-88; Maracci t. I. in vit. Mohammed, p. 32-45; Sale, Discours prélim., p. 56-70.
  105. L’Alcorano contiene una farragine di moltissime cose, alcune delle quali sono oscure, altre paraboliche, ed enigmatiche; alcune altre si contraddicono. È vero, che i Maomettani dottori pretendono aver avuto L’Alcorano una derivazione divina, cioè esser venuto da Dio fino all’orbita della luna, dalla quale sia stato ogni versetto rivelato a Maometto dall’angelo Gabriele; ma secondo i migliori critici, il libro fu scritto per la massima parte da Maometto; altri pensano che un certo monaco Sergio, o Bhaira, cristiano nestoriano, sia concorso a scriverlo, tanto più che vi si nega la divinità di Cristo, siccome facevano i Nestoriani, e ne venne un miscuglio delle religioni ebraica, cristiana, ed antica arabica; la morale, nell’amore del prossimo, è simile alla cristiana; potrebbe Maometto averla presa anche dai libri di Confucio, legislator de’ Chinesi; ma non sembra averne avuto contezza. (Nota di N. N.)
  106. Corano c. 17, v. 89; Sale, p. 235, 236; Maracci, p. 410.
  107. Credeva una Setta d’Arabi che la penna d’un mortale eguagliar potesse o sorpassare il Corano (Pocock, Specimen p. 221, etc.); e il Maracci (polemico troppo duro per un traduttore) mette in ridicolo l’affettazione di rime che si scontra nel passo più applaudito (tom. I, part. II, p. 69-75).
  108. „Colloquia„ (siano reali o favolosi) „in media Arabia atque ab Arabibus habita„, (Lowth, De poesi Hebraeorum praelect. 32, 33, 34, col Michaelis suo editore tedesco Epimetron IV). Il Michaelis per altro (p. 671, 673) ha notate molte immagini che vengono dall’Egitto, come l’elefantiasi, il papiro, il Nilo, il coccodrillo, ec. Ha caratterizzato l’idioma in cui è scritto il libro di Giobbe, colla denominazione equivoca di Arabico-Hebraea. La rassomiglianza de’ dialetti procedenti dalla stessa fonte era assai più sensibile nella loro infanzia che nella maturità (Michaelis, p. 682; Schutens, in praefat Job).
  109. Al-Bochari morì, A. H. 224. V. d’Herbelot, p. 208, 416, 827; Gagnier, Nota ad Abulfeda, c. 19, p. 33.
  110. V. soprattutto i capitoli 2, 6, 12, 13, 17, del Corano. Prideaux (Vie de Mahomet, p. 18, 19) ha confuso quell’impostore. Il Maracci, che fa maggiore sfarzo di dottrina, ha dimostrato che i passi del Corano in cui si negano i miracoli di Maometto sono chiari e positivi (Alcoran t. I, part. II, p. 7-12), e che sono ambigui e inconcludenti gli altri che sembrano affermativi (p. 12-22).
  111. V. lo Specimen Hist. Arabum, il testo d’Abulfaragio (p. 17), le note di Pocock (p. 187-190), d’Herbelot (Bibl. orient., p. 76, 77 ), i viaggi del Chardin (t. IV, p. 200-203). Il Maracci (Alcoran, t. I, p. 22-64) s’è affaticato a raccogliere o a confutare i miracoli, e le profezie di Maometto, che, secondo vari scrittori, ascendono a tremila.
  112. Abulfeda (in vit. Mohammed, c. 19, p. 33) narra assai minutamente questo viaggio notturno, ch’ei tratta da visione. Prideaux, che pure ne parla (p. 31-40), aggrava gli assurdi; e Gagnier (t. I, p. 252-343) dichiara, seguendo lo zelante Al-Jannabi, che negare quel viaggio è lo stesso che non credere al Corano. Il Corano peraltro non nomina in quel proposito nè il cielo, nè Gerusalemme, nè la Mecca; non lascia sfuggire che queste mistiche parole; Laus illi qui transtulit servum suum ab oratorio Haram ad oratorium remotissimum (Koran, c. 17, v. I; nel Maracci, t. II, p. 407, poichè il Sale si fa lecita più libertà nella sua versione). Fondamento ben misero per l’aereo edificio della tradizione.
  113. Maometto, nello stile profetico che adopera il presente o il passato in vece del futuro, avea detto: Appropinquavit hora et scissa est luna (Koran, c. 54, v. I; nel Maracci, t. II, p. 688). Questa figura rettorica fu presa per un fatto che dicesi confermato da testimoni oculari i più degni di fede (Maracci, t. II, p. 990). I Persiani sogliono sempre celebrare la festa di questo avvenimento (Chardin, t. IV, p. 201); e Gagnier (Vie de Mahomet, t. I, p. 183-234) noiosamente svolge tutta questa leggenda su la fede, per quel che pare, del credulo Al-Jannabi. Nondimeno un dottor Musulmano ha combattuto il testimonio principale (apud Pocock, Specimen, p. 187). I migliori interpreti spiegano il passo del Corano nel modo più semplice (Al-Beidawi, apud Hottinger, Hist. orient., l. II, p. 302); e Abulfeda serba il silenzio che a un principe e ad un filosofo si conveniva.
  114. Abulfaragio (in Specimen, Hist. Arab., p. 17); e le autorità più rispettabili citate nelle note del Pocock (p. 190-194) vengono giustificando quello scetticismo.
  115. Il buon credente troverà che non era da farsi cotal paragone. (Nota di N. N.)
  116. Maracci (Prodromus, part. IV, p. 9-24). Reland (nel suo egregio Trattato De religione mohammedica, Utrecht, 1717, p. 67-123), e Chardin (Voyage en Perse, t. IV, p. 47-195) seguendo i teologi Persiani ed Arabi, danno una relazione autenticissima di que’ precetti sul pellegrinaggio, su l’orazione, il digiuno, le limosine e le abluzioni. Il Maracci è un accusator parziale; ma il gioielliere Chardin avea l’occhio d’un filosofo, e il Reland, erudito giudizioso, avea corso l’oriente senza uscire di Utrecht. Il Tournefort narra nella lettera quattordicesima (Voyage du Levant, t. II, p. 325-360, in-8) quel che avea veduto della religione de’ Turchi.
  117. Maometto (Koran del Sale, c. 9, p. 153) rimprovera i cristiani perchè si sottomettono a’ preti e a’ monaci, ed abbiano così altri padroni fuorchè Dio. Il Maracci (Prodromus, part. III, p. 69, 70) scusa questo culto, specialmente pel Papa, e cita, collo stesso Corano, il caso d’Eblis o Satano, che fu precipitato dal cielo per non aver voluto adorare Adamo.
  118. Koran, c. 5, p. 94, e la nota del Sale, che cita in proposito Jallalodino e Al-Beidawi. D’Herbelot dice che Maometto condannò la vita religiosa, e che i primi sciami di Fakiri, di Dervissi, ec. non comparvero che dopo l’anno 300 dell’Egira (Bibl. orient., p. 292-718).
  119. V. le due difese in proposito (Koran, c. 2, p. 25; c. 5, p. 94); l’una nello stile d’un Legislatore, l’altra in quello d’un fanatico. Il Prideaux (Vie de Mahomet, p. 62-64) e il Sale (Discours préliminaire, p. 124) svolgono i motivi particolari e pubblici che indussero Maometto a così ordinare.
  120. La gelosia del Maracci (Prodromus, part. IV, p. 33) fa l’enumerazione delle limosine più liberali ancora che si usano da’ Cattolici di Roma. Dice che quindici grandi spedali accolgono migliaia di pellegrini e d’infermi; che annualmente sono dotate mille e cinquecento fanciulle; che vi son cinquantasei scuole di carità pe’ due sessi, e che centoventi Confraternite recano sollievo a’ lor Membri bisognosi, ec. Le carità di Londra sono anche più estese, ma temo non convenga attribuirle più all’umanità che alla religione del popolo inglese.
  121. V. Erodoto (l. II. c. 123) e il nostro dotto concittadino Sir John Marsham (Canon. chron., p. 46). L’ Αδης di quello scrittore (p. 254-274) è uno schizzo elaborato delle regioni infernali quali erano immaginate e descritte dagli Egizii e da’ Greci, da’ poeti e da filosofi dell’antichità.
  122. Il Coran (c. 2, p. 259; etc.) del Sale (p. 32) e del Maracci (p. 97) riferiscono un miracolo ingegnoso che satisfece alla curiosità d’Abramo, e ne rassodò la credenza.
  123. Reland, guidato sempre da lealtà, dimostra che Maometto ha riprovato tutti gl’increduli (De religione Mohammed, p. 128-142), che per li diavoli mai non vi sarà salute (pag. 196-199), che non sarà limitato il paradiso a’ piaceri sensuali (p. 199-205) e che l’anima delle donne è immortale (p. 205-209).
  124. Al-Beidawi, apud Sale, Coran, c. 9, p. 164. Il non pregare per un parente incredulo è giustificato, secondo Maometto, da’ doveri di un Profeta e dall’esempio d’Abramo, il quale riprovò il proprio padre come nemico di Dio. E pure Abramo (soggiugne egli, c. 9, v. 116, Maracci, t. II, p. 317) fuit sane pius, mitis.
  125. Questa è una scurrilità poco conveniente ad un grave Scrittore; ogni lettore sensato disapproverà questo scherzo. (Nota di N. N.)
  126. V. sul giorno del Giudizio, sull’inferno, sul paradiso, ec., il Corano (c. 2, v. 25, c. 56, 78 ec.), colla confutazione virulenta bensì, ma dotta, del Maracci (nelle sue Note, e nel Prodromo, part. IV, p. 78, 120, 122, ec.), d’Herbelot (Bibl. orient., p. 368-375), Reland (p. 47-61) e il Sale (p. 76-103). Le idee de’ Magi sono esposte in guisa oscura ed ambigua del dottore Hyde, loro apologista (Hist. relig. Pers., c. 33, p. 402-412, Oxford, 1760). Il Bayle ha provato nell’articolo Maometto, che lo spirito e la filosofia mal suppliscono al difetto di cognizioni esatte.
  127. Prima di delineare l’istoria delle operazioni di Maometto verrò indicando gli autori, o i documenti da me prescelti. Le versioni latina, francese e inglese del Corano sono precedute da discorsi storici, e i tre traduttori, il Maracci (t. I, p. 10-32), il Savary (tom. I, p. 1-248) e il Sale (Preliminary Discourse, p. 33-56) aveano accuratamente studiato la lingua e il carattere del loro autore. Furono pubblicate due vite particolari di Maometto, l’una dal dottore Prideaux (Life of Mahomet, settima edizione, Londra, 1718, in 8.) e l’altra dal conte di Boulainvilliers (Vie de Mahomet, Londres, 1730, in 8.). Ma l’opposta brama di trovare un impostore o un eroe, troppo frequentemente ha fatto torto al sapere del primo, e alla sincerità del secondo. L’articolo della Biblioteca orientale del d’Herbelot (p. 598-603) è ricavato precipuamente da Novairi e da Mircond; ma il Sig. Gagnier, nativo di Francia, e professore di lingue orientali in Oxford, è in questa parte la guida migliore e più certa. Ha pubblicato due opere ben lavorate (Ismael Abulfeda, De vita et rebus gestis Mohammedis, etc., latine vertit, praefatione et notis illustravit Joannes Gagnier. Oxford, 1723, in fol. - La vita di Maometto, tradotta e compilata dall’Alcorano dalle tradizioni autentiche della Sonna, e de’ migliori Autori arabi, Amsterdam, 1748, 3 vol. in 12): egli ha interpretato, illustrato, supplito il testo arabo d’Abulfeda e Al-Jannabi; il primo principe istruito che regnò in Hamah nella Siria, A. D. 1310-1332 (V. Gagnier, Praefat. ad Abulfeda): il secondo dottor credulo che visitò la Mecca, A. D. 1556 (d’Herbelot, p. 397; Gagnier, t. III, p. 209, 210). Questi sono gli Autori da me seguìti: e dopo questa mia dichiarazione il lettore curioso potrà più minutamente esaminare l’ordine de’ tempi e de’ capitoli. Debbo osservare per altro che Abulfeda e Al-Jannabi sono storici moderni, e che non si può ricorrere a veruno scrittore del primo secolo dell’Egira.
  128. Prideaux (p. 8) dietro ai Greci rivela i dubbii segreti della moglie di Maometto. Boulainvilliers (p. 272) espone le mire sublimi e patriottiche di Cadijah, e dei primi discepoli del Profeta, quasi fosse stato il consigliere privato di Maometto.
  129. Vezirus, portitor, bajulus, onus ferens; e con giusta metafora questo nome plebeo fu applicato alle colonne dello Stato (Gagnier, Not. ad Abulfeda, p. 19). Io m’ingegno di conservare il carattere dell’idioma arabo per quanto mi vien fatto di scorgerlo in una traduzione latina e francese.
  130. Energici sono e molti i passi del Corano in favore della tolleranza. V. c. 2, v. 257; c. 16, v. 129; c. 17, v. 64; c. 45, v. 15; c. 50, v. 39; c. 88, v. 21, ec. colle note del Maracci e del Sale. In generale possono giudicar gli eruditi questo carattere di tolleranza secondo che loro sembrerà, e se tal capitolo fu rivelato alla Mecca o a Medina.
  131. V. il Corano (passim, e particolarmente c. 7, p. 123, 124, ec.) e la tradizione degli Arabi (Pocock, Specimen, p. 35-37). Si mostravano a mezza strada, fra Medina e Damasco, certe caverne della tribù di Thamud, adatte ad uomini d’una statura ordinaria (Abulfeda, Arabiae Descript., p. 43-44); e si ponno con qualche probabilità attribuirle ai Trogloditi del Mondo primitivo (Michaelis, ad Lowth, De poesi Hebraeor., p. 131-134; Recherches sur les Egyptiens, t. II, p. 48 ec.).
  132. Al tempo di Giobbe, i magistrati Arabi punivano realmente il delitto d’empietà (cap. 31, v. 26, 27, 28), ed io arrossisco per un illustre Prelato (De poesi Hebraeorum, p. 650, 651, ediz. Michaelis, e Lettera d’un professore dell’Università d’Oxford, p. 15-53), vedendo che ha giustificato e decantato questa inquisizione de’ Patriarchi.
  133. D’Herbelot, Bibl. Orient., p. 445. Cita egli una storia particolare della fuga di Maometto.
  134. L’Egira fu istituita da Omar, secondo califfo, a imitazione dell’Era de’ Martiri de’ Cristiani (d’Herbelot. p. 444), e, parlando esattamente, cominciò sessantotto giorni prima della fuga di Maometto, avanti il primo di Moharren, o sia il primo giorno di quell’anno arabo, che fu il venerdì 16 luglio, A. D. 622. ( Abulfeda, Vita Mohammed, c. 22, 23, p. 45-59, e l’edizione datane da Greaves, delle Epochae Arabum d’Ullug Beig, etc., c. 1, p. 8-10 ec.).
  135. Le circostanze della vita di Maometto, dopo la sua missione sino all’Egira, si trovano in Abulfeda (p. 14-45), e Gagnier (t. I, p. 134-251, 342-383). La leggenda che sta a pag. 187-234, è assicurata da Al-Iannabi, e rifiutata da Abulfeda.
  136. Abulfeda (30, 33, 40, 86) e Gagnier, (t. I, p. 343, ec.; 349 ec., t. II, pag. 223, ec.), descrivono la triplice inaugurazione di Maometto.
  137. Il Prideaux (Vie de Mahomet, p. 44) prorompe in rimproveri contro la scelleragine dell’impostore che spogliò due orfani, figli d’un carpentiere; rimproveri tratti dalla Disputatio contra Saracenos, scritta in Arabo prima dell’anno 1130; ma l’onesto Gagnier (ad Abulfeda, p. 53) ha dimostrato che mal colsero que’ due autori il senso della parola al nagiar, che in questo luogo significa non un abietto mestiere, ma una tribù nobile d’Arabi. Abulfeda descrive il cattivo stato di quel terreno; il suo valente interprete ha pensato, seguendo Al-Bochari, che se ne offerse il prezzo; seguendo Al-Iannabi, che la compera fu fatta in tutte le regole, e che, seguendo Ahmed Ben-Giuseppe, il generoso Abubeker ne pagò la somma. Così viene giustificato in questa parte il Profeta.
  138. Al-Iannabi (apud Gagnier, t. II, pag. 246, 324) descrive il suggello e la cattedra di Maometto come due reliquie preziose; e la dipintura che fa della Corte del Profeta è tolta da Abulfeda (c. 44, p. 85).
  139. L’ottavo e il nono capitolo del Corano sono i più veementi e feroci; e il Marucci (Prodromus, parte IV, p. 59, 64) ha mostrato più giustizia che discrezione nell’inveire contro le espressioni ambigue adoperate dall’impostore.
  140. Se Mosè diede esempj di grande severità, egli ci dice, che gli diede per ordine di Dio, e questo basta: quanto poi a’ Giudici re d’Israele, sanno i dotti, e ce lo dice anche lo stesso storico ebreo Giuseppe Flavio, che il governo degli Ebrei era teocratico il quale per sè stesso è soggetto a grandi e terribili abusi per parte degli uomini. (Nota di N. N.)
  141. I devoti cristiani del nostro secolo leggono con rispetto, ma non con pari soddisfazione, il decimo e il ventesimo capitolo del Deuteronomio, corredati da’ commenti in pratica di Giosuè, di Davidde, ec.; ma vari vescovi,a e i rabbini dei primi tempi han battuto con piacere e con buon effetto il tamburo della guerra sacra. (Sale, Discours prélimin., p. 142, 143).
    1. Se i vescovi de’ tempi andati fecero guerra, e diedero battaglie, non fecero ciò secondo lo spirito vero dell’Evangelo, il quale rimane lo stesso qualunque sieno state le loro azioni. (Nota di N. N.)
  142. Abulfeda, in Vit. Mohamm., p. 156. L’arsenal particolare di Maometto consisteva in nove sciabole, tre lancie, sette picche, o semipicche, un turcasso e tre archi, sette corazze, tre scudi, e due elmetti (Gagn. t. III, p. 328, 334); eravi inoltre uno stendardo bianco e una bandiera nera (p. 335), venti cavalli (p. 322), ec. La tradizione ha conservato due de’ suoi discorsi guerreschi. (Gagnier, t. II, p. 88-337).
  143. Il dotto Reland (Dissertationes miscellaneae, t. III, Dissert., 10, p. 3-53) ha trattato compiutamente questo soggetto in una dissertazione particolare, De jure belli Mohammedanorum.
  144. Il Corano (c. 3, p. 52, 53; c. 4, p. 70, ec. colle note del Sale, e, c. 17, p. 413, colle note del Maracci) espone in tuono serio questa dottrina della predestinazione assoluta, su la quale poche religioni hanno da rimproverare sè stesse. Reland (De Religione Mohammed., p. 61-64) e il Sale (Discours prélimin. p. 103) vengono sviluppando le opinioni dei dottori; e i nostri viaggiatori moderni van disaminando quanta sia la fidanza che inspirano a’ Turchi, fiducia che già comincia a scemare.
  145. Al-Iannabi (apud Gagnier, t. II, p. 9) gli dà settanta od ottanta cavalli; e in due altre occasioni, anteriori alla battaglia d’Ohud, dice (p. 10) che Maometto aveva una milizia di trenta, e a pagina 66, un corpo di cinquecento cavalieri. Abulfeda, che pare più esatto, asserisce (in Vit. Mohammed, part. XXXI, p. 65) che i Musulmani non aveano alla battaglia d’Ohud che due cavalli. Erano numerosi i cammelli nell’Arabia Petrea, ma i cavalli, per quanto pare, non vi erano comuni come nell’Arabia Felice o nell’Arabia Deserta.
  146. Beder-Huneena, lungi venti miglia da Medina, quaranta dalla Mecca, giace su la strada maestra della caravana d’Egitto; i pellegrini fanno un’annua festa per la vittoria del Profeta con illuminazioni, razzi ec. (Viaggi di Shaw, p. 477).
  147. Il luogo ove si ritirò Maometto durante il combattimento è chiamato dal Gagnier (in Abulfeda, c. 27, p. 58, Vie de Mahomet, t. II, p. 30-33) umbraculum, un palchetto di legno con una porta. Reiske (Annales Moslemici Abulfedae, p. 23) traduce la stessa parola Araba in quelle di Solium, Suggestus editior; differenza che molto importa per l’onore dell’interprete e dell’eroe. Duolmi vedere come il Reiske rimproveri il suo collaboratore. Saepe sic vertit, ut integrae paginae nequeant nisi una litura corrigi: Arabiae non satis callebat et carebat judicio critico (J.-J. Reiske, Prodidagmata ad Hagji Chalifae Tabulae, p. 228, ad calcem Abulfedae Syriae Tabulae, Leipzig, 1766, in 4).
  148. Le vaghe espressioni del Corano (c. 3, pag. 124, 125; c. 8, p. 9) permettono a’ commentatori di supporre il numero di mille, tremila o novemila angeli: il più piccolo senza altro bastava a trucidare settanta Koreishiti (Maracci, Alcoran, t. II, p. 131). Gli scoliasti però confessano che niun occhio mortale vide questa squadra angelica (Maracci, p. 297). Fanno commenti arguti su quelle parole: „non tu, ma Dio ec.„ (c. 8, 16); d’Herbelot, Bibl. orient., p. 600, 601.
  149. Geograph. nubiensis, p. 47.
  150. Nel terzo capitolo del Corano (p. 50-53, colle note del Sale) arreca il Profeta qualche misera scusa sulla sconfitta di Ohud.
  151. V. su i particolari delle tre guerre di Beder, d’Ohud e della fossa, fatte dai Koreishiti contro Maometto, Abulfeda (p. 56-61, 64-69, 73-77), Gagnier (t. II, p. 23-45, 70-96, 120-139), cogli articoli del d’Herbelot, e i compendi d’Elmacin (Hist. Saracen., p. 6,7) e Abulfaragio (Dynast. p. 102).
  152. Abulfeda (p. 61, 71, 77, 87, ec.) e Gagnier (t. II, p. 61-65, 107-112, 139-148, 268-294) raccontano le guerre di Maometto contro le tribù Giudaiche di Kainoka, de’ Nadhiriti, di Koraidha, e di Chaibar.
  153. Abu Rafe, servo di Maometto, affermò, si dice, che tutta la sua forza unita a quella d’altre sette persone non bastò a rialzare quella porta da terra (Abulfeda, p. 90). Abu Rafe era un testimonio oculare; ma chi farà testimonianza per lui?
  154. Elmacin (Hist. Saracen. p. 9), e il grande Al-Zabari (Gagnier, t. II, p. 285) attestano che i Giudei furono sbanditi. Nondimeno il Niebuhr (Descript. de l’Arabie, p. 324) crede che la tribù di Chaibar professi tuttavia la religione Giudaica e la Setta de’ Kareiti, e che nel saccheggio delle caravane i discepoli di Mosè sieno soci di quelli di Maometto.
  155. Abulfeda (p. 84-87, 97-100, 102-111), Gagnier (t. II, p. 209-245, 309-322; t. III, p. 1-58), Elmacin (Hist. Saracen., p. 8, 9, 10), Abulfaragio (Dynast., p. 103), narrano i progressi della impresa per assoggettare la Mecca.
  156. Solo dopo il conquisto della Mecca il Maometto di Voltaire immagina e compie i più orrendi misfatti. Confessa il Poeta che non ha fondamento storico, e si contenta a dire per sua giustificazione, „che chi fa la guerra alla patria in nome di Dio, è capace di tutto„. (Oeuvr. de Voltaire, t. XV, p. 282). Questa massima non è nè caritatevole nè filosofica, e si dee poi certamente portare un po’ di rispetto alla gloria degli eroi, e alla religione de’ popoli. So poi che la rappresentazione di quella tragedia scandolezzò forte un ambasciatore Turco che allora stava a Parigi.
  157. Si disputa tuttavia da’ dottori Musulmani su la quistione se la Mecca fosse soggiogata dalla forza, o se ella si sottomettesse di buon grado (Abulf. p. 107, e Gagnier, ad loc.); e questa contesa di parole è tanto importante quanto quella che si agita in Inghilterra sopra Guglielmo il Conquistatore.
  158. Il Chardin (Voyage en Perse, t. IV, p. 166) e il Reland (Disser. miscell., t. III, p. 51) escludendo i cristiani dalla penisola d’Arabia, dalla provincia di Heyas o dalla navigazione del mar Rosso, sono più severi de’ Musulmani medesimi. Sono ammessi i cristiani senza ostacolo nel porto di Moka, e in quello altresì di Gedda, e solo s’è interdetto ai profani l’ingresso nella città e nel precinto della Mecca. (Niebuhr, Description de l’Arabie, p. 308, 309; Voyage en Arabie, t. I, p. 205-248, ec.).
  159. Abulfeda, pag. 112-115, Gagnier, t. III, pag. 67-88, d’Herbelot, art. Mohammed.
  160. Abulfeda (p. 117-123) e Gagnier (t. III, p. 88-111) narrano l’assedio di Tayef, la division del bottino, ec. Al-Iannabi fa menzione delle macchine, e degl’ingegneri della tribù di Daws. Credevasi che l’ubertoso terreno di Tayef fosse una porzione della Siria, e trasportato l’avesse colà il diluvio universale.
  161. Abulfeda (p. 121-133), Gagnier (t. III. p. 119-219), Elmacin (pag. 10, 11) ed Abulfaragio (p. 103) raccontano gli ultimi conquisti, e il pellegrinaggio ultimo di Maometto. Il nono anno dell' Egira fu denominato l'anno delle ambasciate. (Gagnier, Not. ad Abulfed., p. 121).
  162. Si confronti il superstizioso Al-Iannabi (ap. Gagnier, t. II, p. 232-255) con Teofane (p. 276-278), con Zonara (t. II, l. XIV, p. 86) e con Cedreno (p. 421), Greci non meno di lui superstiziosi.
  163. V. su la battaglia di Muta, e le conseguenze, Abulfeda (p. 100-102) e Gagnier (t. II, p. 327-343). Καλεδος, scrive Teofane, ον λεγουσι μαχαιραν του Θιου Caled, denominato Spada di Dio.
  164. I nostri soliti storici, Abulfeda (Vit. Moham. p. 123-127) e Gagnier (Vie de Mahomet, t. III, pag. 147-163) espongono l’impresa di Tabuc; ma per fortuna possiamo per questa ricorrere al Corano (c. 9, p. 154-165), e alle note erudite e sagaci del Sale.
  165. Il Diploma securitatis Ailensibus è attestato da Ahmed-Ben-Giuseppe e dall’autore Libri splendorum (Gagnier, Not. ad Abulfeda p. 125). Ma lo stesso Abulfeda, come Elmacin (Hist. Saracen. p. 11), quantunque convengano su i riguardi che Maometto ebbe ai cristiani (p. 13), non fan menzione che della pace che con essi conchiuse, e del tributo che loro impose. Nel 1630, Sionita pubblicò a Parigi il testo e la versione della patente di Maometto in favor de’ cristiani: fu ammessa dal Salmasio, rigettata dal Grozio (Bayle, MAHOMET, Rem. A. A.). Hottinger dubita se sia autentica (Hist. orien. p. 237). Renaudot la sostiene, perchè riconosciuta da’ Musulmani (Hist. patriarch. Alexand. pag. 169); ma il Mosemio (Hist. eccles., p. 224) dimostra quanto futile sia quest’opinione, e inclina a quella che crede apocrifa la patente. Pure Abulfaragio cita il trattato dell’impostore col patriarca Nestoriano (Assemani, Bibl. orient. t. II, p. 418); ma Abulfaragio era patriarca de’ Giacobiti.
  166. Teofane, Zonara e gli altri Greci asseriscono che Maometto pativa accessi epilettici, e questa asserzione è con trasporto ammessa dal goffo bigottismo dell’Hottinger (Hist. orient. p. 10, 11), del Prideaux (Vie de Mahomet, p. 12) e del Maracci (t. II), Alcoran. (pag. 762, 763). I titoli dei due capitoli del Corano (73, 74), denominati l’avviluppato ed il coperto, citati in pruova di questo fatto, s’adattano male a questa interpretazione. È più decisivo il silenzio o l’ignoranza de’ commentatori Musulmani che una negativa perentoria; ed Ockley (Hist. of the Saracen., t. I, pag. 301), il Gagnier (ad Abulfeda, p. 9, Vie de Mahomet, t. I. p. 118) e il Sale (Koran, p. 469-474) si attengono alla parte più caritatevole.
  167. Abulfeda (p. 92) ed Al-Jannabi (apud Gagnier, t. II, p. 286-288), suoi partigiani zelanti, francamente confessano il fatto del veleno, il cui effetto era tanto più obbrobrioso, poichè la donna, che glielo diede, aveva avuta intenzione di smascherare così l’impostura del Profeta.
  168. Non deve maravigliare, che nel caldo del fanatismo i discepoli di Maometto si sieno ingannati a grado di non crederlo morto, ed abbianlo paragonato a Mosè, ed a Gesù Cristo. Saggio e bello è poi il discorso di Abubeker, e conforme al puro Deismo, ed alla religione dello stesso Maometto, che non ha mai nè detto, nè preteso d’essere adorato, ma soltanto obbedito come un preteso inviato da Dio per manifestare la sua legge agli uomini. (Nota di N. N.)
  169. I Greci e i Latini hanno inventato e divolgato la ridicola fola che da forti calamite sia tenuto sospeso in aria il deposito di Maometto nella volta del tempio della Mecca σημα μετεωριζομενον. (Laonico Calcondile, De rebus turcicis, l. III. p. 66). V. il Dizionario di Bayle, art. Mahomet. Rem. EE. FF. Anche senza l’aiuto della filosofia, basta osservare, 1. che il Profeta non è stato sepolto alla Mecca; 2. che la sua tomba, che sta a Medina, fu veduta da milioni di pellegrini, ed è in terra (Reland, De religione Moammed, l. II, c. 19, p. 209-211; Gagnier, Vie de Mahomet, t. III, p. 263-268).
  170. Al-Jannabi enumera (Vie de Mahomet, t. III, p. 372-391) i vari doveri del pellegrino che va a visitare il sepolcro del Profeta e de’ suoi compagni; e quel dotto casuista decide che questo è un atto rigoroso di devozione come l’adempimento d’un precetto divino, e quasi meritorio ugualmente. Contendono fra loro i dottori per sapere quale delle due città, della Mecca o di Medina, debba ottenere la preminenza, (p. 392-394).
  171. Abulfeda (Vit. Moham., p. 133-142) e Gagnier (Vie de Mahomet, t. III, p. 220-271) descrivono l’ultima malattia, la morte e la sepoltura di Maometto. I particolari più secreti e rilevanti furono descritti nel principio da Ayesha, da Alì, da’ figli d’Abbas, ec.; e abitando essi in Medina, e avendo sopravvissuto al Profeta molt’anni, poterono ripetere que’ pii racconti ad una seconda e terza generazione di pellegrini.
  172. Con molta imprudenza s’avvisarono i cristiani di dare a Maometto una colomba domestica, la quale parea che scendesse dal cielo, e gli parlasse all’orecchio: siccome Grozio si fonda su questa supposizione di miracolo (De veritate religionis christianae), il suo traduttore Arabo, il dotto Pocock, gli ha chiesto il nome de’ suoi autori; Grozio ha confessato essere ignota la cosa a’ Musulmani. Si soppresse nella versione Araba questa pia menzogna, per timore non movesse a riso e a sdegno i Settari di Maometto; ma s’è conservata, per edificare i fedeli, nelle tante edizioni del testo latino. (Pocock, Specimen Hist. Arabum, pag. 186, 187); Reland, De religione moham. l. II, c. 39, p. 259-262).
  173. Εμοι δε τουτο εσιν εκ παιδος αρξαμενον φωνη τις γιγνομενη η οταν γενηται ασι αποτρεπει με τουτου ό αν μελλπραττειν, προτρεπει δε ουποτου: sin da fanciullo ho provato una certa voce interna, la quale ogni volta mi distoglieva da quel ch’io fossi per fare, ma non mai mi volgeva a fare. (Platon., in Apolog. Socrat., c. 19, p. 121, 122, ediz. Fisher.). Gli esempli familiari che Socrate vanta nel suo dialogo con Teage (Platonis opera, t. I, 128, 129, ediz. Enr. Stefano) sorpassano la previdenza umana, e l’inspirazione divina (il Δαιμονιον) del filosofo si vede chiaramente indicata ne’ Memorabilia di Senofonte. Cicerone, (De divinat., t. LIV), e le quattordicesima e quindicesima dissertazione di Massimo Tirio (1. 153-172, ediz. Davis) espongono le idee che ne aveano i platonici più ragionevoli.
  174. Anche qui è indebito il paragone fra Maometto ed il Profeta di Ninive; noi dobbiamo credere, che questi fosse inspirato da Dio quando parlava; e sappiamo, che Maometto non fu che un fortunato ed abile fondatore della sua religione. (Nota di N. N.)
  175. Voltaire, in uno de’ tanti suoi scritti, paragona Maometto vecchio ad un Fakir „che si stacca la catena dal collo per darla su le orecchie a’ suoi confratelli„.
  176. Gagnier con uguale imparzialità espone questa legge umanissima di Maometto, e gli assassinii di Caab e di Sophian dal Profeta incoraggiati ed approvati.
  177. Si consulti, su la vita privata di Maometto, il Gagnier e i capitoli correlativi di Abulfeda; su la sua dieta (t. III, p. 285-288); su i suoi figli (p. 189-289); su le sue mogli (p. 290-303); sul suo matrimonio con Zeineb (t. II, p. 152-160); su i suoi amori con Maria (p. 303-309); su la falsa accusa d’Ayesha (pag. 186-199). Per questi ultimi fatti, la pruova men rifiutabile scontrasi nel ventiquattresimo, trentesimoterzo, e sessantesimosesto capitolo del Corano, col commentario del Sale. Il Prideaux (Vie de Mahomet, p. 80-90), e il Maracci (Prodrom. Alcoran., part. IV, p. 49-59) malignamente hanno esagerato i difetti di Maometto.
  178. Incredibile est quo ardore apud eos in Venerem uterque solvitur sexus. Ammiano Marcellino, l. XIV, c. 4.
  179. Il Sale (Discours préliminaire, p. 133-137) fa la ricapitolazione delle leggi sul matrimonio, sul divorzio, ec.; e chi avrà letto l’Uxor hebraica del Salden vi ravviserà molte ordinanze degli Ebrei.
  180. Decise il Califfo Omar in un caso memorabile, che non varrebbero tutte le testimonianze di presunzione, e che i quattro testimoni dovrebbero avere veduto stylum in pixide. (Abulfedae, Annales Moslemici, p. 71, vers. Reiske).
  181. „Sibi robur ad generationem, quantum triginta viri habent, inesse iactaret„; (Maracci, Prodr. Alcoran. part. IV, p. 55. V. pure le observ. del Belon, l. III, c. 10, fol. 179 recto). Al-Iannabi (Gagnier, t. III, p. 287) cita Maometto stesso che millantava di superare tutti gli uomini in valor coniugale.
  182. Uso qui lo stile d’un Padre della chiesa, εναθέυωι Ηρακλης τρισκαιδεκατον αθλον (San Gregorio Nazianzeno, Orat. 3, p. 108).
  183. Abulfeda, in vit. Moham. p. 12, 13, 16, 17, cum notis Gagnier.
  184. Questo schizzo dell’Istoria araba è tolto dalla Biblioteca orientale del d’Herbelot (articoli Abubeker, Omar, Othman, Alì, etc.), dagli Annali di Abulfeda, d’Abulfaragio e d’Elmacin, e soprattutto dalla Storia de’ Saraceni di d’Ockley (vol. I, pag. 1-10, 115-122, 229-249, 363-372, 378-391, e secondo volume quasi totalmente). Devonsi ammettere però con cautela le tradizioni delle Sette nemiche; son quelle una riviera che diviene più limacciosa quanto più si allontana dalla fonte. Chardin copiò troppo fedelmente le fole e gli errori de’ Persiani moderni (Voyages, t. II, p. 235-250, ec.).
  185. Ockley, sul finire del suo volume secondo, ci ha data una versione inglese di censessantanove massime ch’egli dubbiosamente attribuisce ad Alì, figlio di Abu-Taleb. Spira nella sua traduzione l’entusiasmo d’un traduttore. Quelle massime però dipingono al naturale, ma con tinte assai tetre, la vita umana.
  186. Ockley (Hist. of the Saracens, vol. I, p. 5, 6) suppone, aderendo ad un manoscritto Arabo, che non piacesse ad Ayesha veder suo padre per successore all’appostolo. Questo fatto, già sì poco verosimile in sè, non si legge nè in Abulfeda, nè in Al-Iannabi, nè in Al-Bochari: ma quest’ultimo cita una tradizione intorno ad Ayesha, provenuta da lei medesima (in vit. Mohammed, pag. 136; Vie de Mahomet, t. III, p. 236).
  187. Particolarmente dal suo amico e cugino Abdallah, figlio d’Abbas, che morì (A. D. 687) col titolo di gran dottore de’ Musulmani. Secondo Abulfeda, egli novera le occasioni rilevanti in cui aveva negletti Alì i suoi buoni consigli (p. 76. vers. Reiske), e conchiude così (p. 85): O princeps fidelium, absque controversia, tu quidem vere fortis es, at inops boni concilii, et rerum gerendarum parum callens.
  188. Suppongo che i due anziani di cui fan cenno Abulfaragio (p. 115) e Ockley (t. I, p. 371) non sieno già due consiglieri in carica, ma Abubeker ed Omar, i due predecessori d’Othmano.
  189. Lo Scisma de’ Persiani viene esposto da tutti i viaggiatori dell’ultimo secolo, e soprattutto nel secondo e quarto volume del Chardin loro maestro. Il Niebuhr, inferiore al Chardin, ha il vantaggio peraltro d’avere scritto nel 1764, epoca più recente d’assai (Voyages en Arabie, etc., t. II, p. 208-233), e posteriore al vano tentativo che ha fatto Nadir-Shah per cangiare la religione del suo popolo (V. la sua Storia della Persia, tradotta da Sir William Jones, t. II, p. 5, 6, 47, 48, 144-155).
  190. Omar presso loro significa il diavolo. Il suo assassino è un santo. Quando i Persiani scagliano una freccia, sogliono gridare: „Possa questa freccia trafiggere il cuore d’Omar„. (Voyages de Chardin, t. II, p. 239, 240, 259, ec.).
  191. Questa graduazione di merito è notata distintamente nel simbolo spiegato dal Reland (De relig. Moham., l. I, p. 37), e da un argomento de’ Sonniti riferito dall’Ockey (Hist. of the Sarac., t. II; p. 230). L’usanza di maledire la memoria d’Alì fu abolita, quarant’anni dopo, dagli stessi Ommiadi (d’Herbelot, p. 690); e son pochi i Turchi che osino insultarlo come infedele (Voyages de Chardin, t. IV, p. 46).
  192. D’Anville (l’Euphrate et le Tigre, p. 29) dimostra che il piano di Siffin è il campus barbaricus di Procopio.
  193. Abulfeda, Sonnita moderato, espone le varie opinioni sul seppellimento d’Alì, ma s’attiene al sepolcro di Cufa, fama numeroque religiose frequentantium celebratum. Niebuhr fa il conto che si seppelliscono ne’ contorni duemila persone all’anno, e che cinquemila sono i pellegrini che vanno a visitarlo (t. II, p. 208, 209).
  194. Tutti i tiranni di Persia da Adhad-el-Dowlat (A. D. 977; d’Herbelot, pag. 58, 59, 95), sino a Nadir-Shah (A. D. 1743, Hist. de Nadir-Shah, t. II, p. 155), hanno ornato colle spoglie del popolo la tomba d’Alì. La cupola è di rame magnificamente dorato, che brilla a’ raggi del Sole in distanza di molte miglia.
  195. La città di Meshed-Alì, lontana cinque o sei miglia dalle ruine di Cufa, e centoventi al mezzodì di Bagdad, ha l’estensione e la forma dell’odierna Gerusalemme. Meshed-Hosein, più vasta e più popolosa, è lungi trenta miglia.
  196. Seguo l’energico concetto e la frase di Tacito (Hist. l. I, c. 4): Evulgato imperii arcano posse imperatorem alibi quam Romae fieri.
  197. Ho abbreviato la bella narrazione d’Ockley (t. II, p. 170-231), assai lunga e piena di minuti particolari, dai quali bene spesso emerge appunto il patetico.
  198. Il danese Niebuhr (Voyages en Arabiae, etc., t. II, p. 208 ec.) è forse quel solo de’ viaggiatori Europei che abbia osato andare a Meshed-Alì, e a Meshed-Hosein. Que’ due sepolcri sono in mano de’ Turchi, i quali soffrono la devozione degli eretici Persiani, ma l’assoggettano ad un tributo. Il Chardin, che tante volte ho lodato, descrive partitamente la festa della morte di Hosein.
  199. Il d’Herbelot nota la successione all’articolo generale Iman; e negli articoli speciali per ognuno de’ dodici pontefici dà un ristretto della lor vita.
  200. Parrà ridicolo il nome d’Anticristo, ma i Musulmani hanno attinto da tutte le religioni (Sale, Discours prélimin. p. 80-82). Nella regia scuderia d’Ispahan stanno sempre due cavalli sellati, l’uno per Mahadi, e l’altro pel suo luogotenente, Gesù, figlio di Maria.
  201. L’anno dugento dell’Egira (A. D. 815). V. d’Herbelot, p. 546.
  202. D’Herbelot, pag. 342. Cercavano gli avversari de’ Fatimiti ogni modo per avvilirli col dar loro un’origine giudaica; ma quelli provavano benissimo d’essere discendenti di Iaafar, sesto Imano; e l’imparziale Abulfeda conviene in questo (Annal. moslem. pag. 238) ch’erano riconosciuti da parecchi, qui absque controversia genuini sunt Alidarum, homines propaginum suae gentis exacte callentes. Cita alcune linee del celebre Seriffo Or-Rahdi, ego ne humilitatem induam, in terris hostium? (Sospetto ch’ei fosse un Edrissita della Sicilia) cum in Egypto fit chalifa de gente Alii, quocum ego communem habeo patrem et vindicem.
  203. I re di Persia dell’ultima dinastia discendono dallo Sheik Sefi, santo del quattordicesimo secolo, e per lui da Moussa Cassem, figlio di Hosein, figlio d’Alì (Olear. p. 957; Chardin, t. III, p. 288): ma non posso assegnare i gradi intermedii di veruna di queste o vere o favolose genealogie. Se erano Fatimiti, provenivano forse da’ principi di Mazanderan che regnavano nel secolo nono (d’Herbelot, p. 96).
  204. Demetrio Cantemiro (Hist. de l’Empire ottom. p. 94) e Niebuhr (Descript. de l’Arabie: p. 9-16, 317, ec.) descrivono esattamente lo stato odierno della famiglia di Maometto e d’Alì. Peccato che il viaggiator Danese non abbia potuto possedere le cronache dell’Arabia.
  205. Considerando la religione di Maometto dal solo aspetto dell’unità e delle perfezioni di Dio, vi si trova anzi ogni motivo di propagazione; ed è far troppo torto al genere umano, e specialmente agli Arabi che al momento della predicazione di Maometto erano idolatri, il pensare che per quanta prevenzione cieca avessero a favor dell’idolatria, ossia del politeismo, la loro ragione dovesse a lungo opporsi all’idea, sostenuta da Maometto, e tanto naturale, di un’Esser supremo e delle sue perfezioni. (Nota di N. N.)
  206. Se gli Appostoli S. Pietro e S. Paolo andassero ora nella magnifica, e famosa Basilica del Vaticano, vi vedrebbero professati i medesimi dogmi, ch’essi credettero e publicarono; li troverebbero spiegati dai Concilj generali, ed espressi in formule, od Atti di Fede, secondo lo spirito ond’essi medesimi li sparsero. Vi troverebbero a dir vero nuovi metodi, nuove discipline, nuove cerimonie. Ma S. Pietro stesso nel Concilio da lui tenuto in Gerusalemme pose, di consenso cogli altri seguaci di Cristo ch’era già morto, alcune regole, e prese risoluzioni convenienti, e vantaggiose alle circostanze de’ cristiani di quell’epoca, come pure fece S. Paolo nella Grecia; e perciò vedrebbero con piacere i buoni ed utili ordinamenti, e discipline, che secondo le circostanze, e per l’utilità e propagazione del cristianesimo, e l’edificazione de’ credenti, furono fatti in Roma, e diffusi nelle province a norma delle decisioni dei Concilj, e delle Decretali e Costituzioni de’ Papi; e vedrebbero poi a decoro della religione, e quindi con grande compiacenza, un tempio magnifico eretto dalle idee principesche, e dai tesori di Giulio II, e di Leone X; vedrebbero poi in un colla semplicità del culto protestante di Ginevra l’allontanamento dalla buona dottrina, cui per altro diedero origine le grandi spese, e le publicate Indulgenze di Leone X per la costruzione del Vaticano. (Nota di N. N.)
  207. Non hanno forse anche i Cristiani nel loro intelletto l’immagine pura della Divinità? (Nota di N. N.)
  208. Gli autori della Storia universale e moderna hanno compilato (volume 1 e 2) in ottocentocinquanta pagine in folio la vita di Maometto e gli annali de’ Califfi. Ebbero la ventura di leggere e talora correggere i testi Arabi. Ma ad onta delle loro millanterie, io non m’accorgo nella fine di questo passo sull’Islamismo che m’abbiano dato cognizione d’un gran numero di particolarità, se pure me n’han data una sola. Questa pesante massa di cose non è mai ravvivata da una scintilla di filosofia e di buon gusto, e i compilatori si sono nella loro critica abbandonati a tutto l’astio del bigottismo contro il Boulainvilliers, il Sale, il Gagnier, e quanti han palesato qualche parzialità, o qualche sentimento di giustizia per Maometto.