Storia segreta/Capo XVIII

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Procopio di Cesarea - Storia Segreta (VI secolo)
Traduzione dal greco di Giuseppe Compagnoni (1828)
Capo XVIII
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CAPO XVIII.

Animo crudele di Teodora. Suo tenore di vita. Sua feroce superbia: sua protervia: sue violenze: sue insidie. Come atrocemente dileggia un patrizio ricorso a lei. Sue lunghe villeggiature. Assassinio di Amalasunta tramato da lei. Ruina Prisco. Fa sparire Areobindo. Come sa tenere occulte le sue vendette, ed essere informata degli altrui segreti. Casi deplorabili di altre persone.

Ma Teodora era sì inclinata e ferma nella crudeltà, che non ebbe mai bisogno di chi la persuadesse, o la incitasse a fare il male, con procace animo e con ardore infinito eseguendo essa da sè quanto le fosse venuto in pensiero. Nissuno ardì mai di domandarle in grazia un reo: chè nè lunghezza di tempo, nè per supplizii o crudeltà satollata, nè preci le più ferventi, nè il terrore stesso della imminente ira celeste, poterono arrestarne in verun caso il furore. Nissuno vide mai che alcuno fatto inviso a Teodora ritornasse nell’antica sua grazia, nemmeno dopo morto. I figliuoli di un padre estinto colla paterna eredità acquistavano l’odio della Imperadrice, e lo trasmettevano ai nipoti. Essa, come facilmente s’accendeva di furore in esizio delle persone, così non poneva mai fine all’ira.

Teodora fu diligente nella cura del corpo; e sebbene oltre quanto fosse necessario, non però a satollamento di libidine. Di buonissima ora entrata nel bagno, tardi assai ne usciva, e andava poscia a far colezione, indi riposava. A pranzo e a cena usò gran varietà e copia [p. 123 modifica]di cibi. Dormì sempre lunghissimamente, e spesso. Il suo sonno nella giornata durava sino all’ingresso della notte; il notturno sino alla levata del sole. Intemperantemente così vivendo, il pochissimo tempo che le rimaneva, pensava essa bastante a governare l’Imperio romano. Se l’Imperadore commetteva ad alcuno un affare senza avere prima consultata Teodora, ne seguiva tosto che con somma vergogna il magistrato, che iva con quella commissione, fosse turpissimamente messo a morte. Giustiniano nato a sbrigare in un attimo gli affari, non solo pel vegliar suo continuo, siccome dicemmo, ma anche per lo svelto ingegno, e per la facilità di ammettere all’udienza le persone, questa portò sì avanti, che riceveva anche ignoti uomini od oscurissimi, e non solo li udiva, ma ragionava a lungo con essi discutendo, e dava loro ogni più segreta libertà di dirgli ciò che volessero. Al contrario Teodora e ben tardi e difficilmente dava accesso agli stessi ottimati, che come un branco di schiavi ogni giorno stavansi in un angusto e caldissimo camerotto, onde non correre gravissimo pericolo, se chiamati improvvisamente non fossero stati pronti. Ivi dentro tenevansi ritti sulle punte de’ piedi, colla testa elevata, e la faccia prominente e scoperta, affine di rendersi cospicui agli eunuchi che uscissero. Non ne venivano chiamati alla udienza che certuni; e questi appena appena, e dopo molti giorni. Entrati poi pavidissimi tosto si ritiravano, non fatto altro che l’atto di venerarla, e baciatole a fior di labbra l’uno e l’altro piede. Imperciocchè parlarle, o domandarle cosa qualunque niuno ardiva, se non gli fosse [p. 124 modifica]ordinato. In questa servile adulazione avea degenerato anche il senato, maestra di tanto Teodora: e così l’Imperio romano veniva deformato, parte per la leggerezza del tiranno, per la quale nulla v’avea di stabile, parte per la difficile protervia di Teodora, per la quale metteasi remora a tutto.

Di tanto adunque erano per indole e per maniera di vivere differenti tra loro i due regnanti; ma tutti e due aveano avidità d’oro e di sangue; e tutti e due erano d’anima falsa, poichè furono entrambi artefici ingegnosissimi di menzogne. Se alcuno mal veduto da Teodora venisse accusato del più leggier fallo, su questo fabbricavasi una calunnia la meno presumibile contro di lui, ed amplificatone un delitto infiniti altri vi si accumolavano, e tosto s’istaurava un giudizio di spogliamento de’ sudditi; ed essa chiamava innanzi a sè i giudici, tutti per ambizione gareggianti in pronunciare una sentenza conveniente alla crudeltà dell’Augusta. Ed allora confiscatine i beni, essa il reo, comunque pur fosse chiaro per nobiltà de’ maggiori, crudelissimamente battuto colle verghe condannava o all’esiglio, o alla morte. Al contrario, se venissero arrestati uomini, pe’ quali ella avesse affezione, rei manifesti o di omicidio, o di altri infami delitti, le querele degli accusatori eludendo, ora con aspre, ora con ischerzose parole, questi spaventava a modo, che anche a loro dispetto doveano abbandonare la causa, e ritrarsi dal giudizio. Usava essa far soggetto di scherzo e di riso, secondo il suo capriccio, e per espresso fine, anche cose gravissime, come se fosse in teatro, e sulla scena. E siane prova il seguente fatto. [p. 125 modifica]

Un uomo dell’ordine patrizio, grave per la senile età, e per magistrature lungo tempo sostenute, il cui noto nome tacerommi, onde tanta sua contumelia non passi alla posterità, non potendo riscuotere un grosso credito che avea verso uno de’ famigliari di Teodora, prese il partito di andare a lei, di esporle il caso, e di pregarla onde gli facesse fare ragione. Teodora volendo sostenere il famigliar suo, impose agli eunuchi, che tutti si mettessero intorno al patrizio nell’atto che veniva, e che mentre parlasse gli facessero coraggio, e andassero cantando a coro un certo carme loro additato. Il patrizio adunque entrato in camera, secondo l’uso, si gettò a’ piedi di lei, e quasi colle lagrime agli occhi disse: Ah! signora: è dura assai la condizione di un patrizio, il quale si trovi in angustia di denaro. Ciò che in tale situazione agli altri concilia commiserazione e indulgenza, per quest’ordine diventa una indegnissima calamità. Qualunque altro, che sia in sommo bisogno, se le sue circostanze palesa al debitore, troverà sollievo; ma un patrizio che non possa pagare quanto deve, ha vergogna, se lo confessa; e confessandolo, chi gli presterà fede, essendo tutti persuasissimi che povertà non può trovarsi nell’ordine nostro? E se gli si presta fede, è ita la sua buona fama, e tutta la dignità sua. Sono io, o signora, debitore ad altri, ed altri sono debitori miei. A me uomo patrizio non conviene mancare a’ miei creditori che gravemente mi assediano; e quelli intanto che sono miei debitori, non essendo punto patrizii, cercano ingiuste ragioni di sottrarsi. Prego dunque, e supplico che in sì onesta causa [p. 126 modifica]mi vogliate assistere, e liberare da sì trista situazione. Così diss’egli: e Teodora a lui cantando rispose: Patrizio! e allora il coro degli eunuchi gridava: hai l’ernia gonfia. Ed insistendo egli supplichevole, e alcun’altra cosa in proposito aggiungendo, Teodora ripetè il primo canto, e l’altro il coro. Di che quel miser’uomo punto, venerata Teodora secondo l’uso, ricovrossi a casa.

Essa per la più parte dell’anno ritiravasi ne’ suburbani marittimi, e spezialmente nell’Ereo, con incomodo gravissimo della gente di servizio, la quale in grosso numero la seguiva, e soggetta ora alla mancanza delle cose necessarie, ora agl’insulti del mare, e alle improvvise tempeste, od anche al pericolo della balena che apparisse. Ma per nulla ogni più grave pericolo riputavasi, purchè si godessero le delizie del luogo.

Come poi essa si conducesse verso quelli, che dispiacevanle, dirò in poche parole non volendomi caricare di un discorso che non avrebbe mai fine. Dopo che Amalasunta, siccome narrammo ne’ libri antecedenti, abbandonate le cose de’ Goti cercò altro tenore di vita, e pensò di poter soggiornare in Costantinopoli sotto la protezione delle leggi, come ogni altro cittadino, Teodora tosto prese a considerare e la nobile stirpe di quella donna, e la reale dignità, e la singolare bellezza, e l’acuto e svelto ingegno della medesima; e facilmente le si presentò alla mente quanto potesse temere e dalla maestà del virile animo di quella, e dalla leggerezza del marito. Nè trattò essa lievemente questa rivalità; ma pensato ad insidiare quella regina, e a prepararle la morte, immantinente indusse Giustiniano a spedire a lei [p. 127 modifica]Pietro in Italia. A costui adunque Giustiniano diede le istruzioni, che a debito luogo noi accennammo: ma l’Augusta, per paura della quale non si poterono allora narrar le cose come furono veramente, questa sola commissione gli diede di preparare ed affrettare ad Amalasunta la morte, datagli speranza di grandi beni, se facesse quanto gli comandava. Pietro, sperando o elevazione, o ricchezza, presto passò in Italia, giacchè la mente umana non sa procedere moderatamente negli empii assassini; e con ragioni che io non conosco, indusse Teodato ad uccidere Amalasunta. Poscia Pietro fu promosso alla dignità di maestro degli officii, colmo, sivvero, così di grande potenza, ma colmo ancora dell’odio di tutti. E tale fu il fine delle avventure di Amalasunta.

Era segretario di Giustiniano per le lettere un certo Prisco, paflagone di nascita, e mirabilmente perverso, tutto fatto per conciliarsi co’ suoi costumi un tal padrone, ch’egli unicamente amava, e da cui credeva d’essere scambievolmente amato: e di fatti in breve tempo contro ogni principio di ragione e di giustizia era diventato ricchissimo. Del sopracciglio e della contumacia di costui irritata Teodora, presso il marito con delazioni cercò di ruinarlo, e per allora in vano. Ma non molto dopo essa cacciò Prisco entro una nave, e fattogli scegliere ove preferisse di essere confinato, lo tosò, e a dispetto suo lo forzò al sacerdozio. Giustiniano frattanto non si diede inteso dell’accaduto, nè curò di sapere in che paese Prisco si fosse; nè di poi, come uomo preso dal vino bevuto il dì innanzi, pensò più a lui: solo che mise [p. 128 modifica]le mani sopra pochi denari che di Prisco erano rimasti.

A Teodora era caduto in sospetto Areobindo, famiglio barbaro di nascita, ma giovane di bellissima indole ch’essa teneva per ispettore della sua suppellettile. A punirlo senza che ne avesse alcun motivo, e mentre pur dicevasi che ne fosse innamorata, da prima lo fece frustare: indi cosa poi seguisse di lui, nè io, nè altri sino al dì presente abbiamo potuto saperlo. Imperocchè quello che Teodora voleva che stesse nascosto, vi rimaneva: chè a toglierlo dalla bocca, e dalla memoria di tutti, sapeva incutere tal terrore a quelli che del fatto fossero consapevoli, che nissun tiranno per l’addietro era giunto mai a tanto; nè v’era pericolo, che dicessero parola o ai loro più intimi, o a chi mossi da curiosità ne li avessero domandati. All’opposto nulla era a lei nascosto di quanto concerneva alle persone, alle quali era avversa, tenendo essa spie da per tutto, per le strade, per le piazze, nelle case stesse: con che sapeva e gli affari e i discorsi di ognuno. Quando essa voleva che s’ignorasse il gastigo che avesse dato ad alcuno, se questi fosse stato patrizio, lo chiamava di nascosto, e sola, senza alcuno che vedesse, lo consegnava ad uno de’ suoi satelliti, onde lo deportasse alla estremità dell’Imperio romano; e il satellite di notte tempo, velatogli il capo, e ben legato, lo imbarcava, e lo conduceva al luogo dell’esiglio, che gli si era comandato. Là lo consegnava ad un altro ministro non inesperto di tanta crudeltà, onde sotto fidatissimi custodi e segretissimi, occultamente lo tenesse chiuso, finchè o l’ [p. 129 modifica]Augusta rimanesse tocca della miseria di lui, oppure finchè quell’infelice in mezzo allo squallore di una vita ognora moribonda marcisse, e cadesse a brani.

Basiano, giovinetto della fazione Prasina, e di nascita illustre, aveasi permesso uno scherzo sopra Teodora; saputo poi com’era montata in collera contro di lui, andò a rifugiarsi nella chiesa dell’Arcangelo Michele. Essa mandò colà subito il pretore della plebe, ordinandogli di costituire Basiano reo, non dello scherzo, di cui si è detto, ma dell’infame amor de’ ragazzi. Per lo che strappato dalla chiesa fu dal magistrato sottoposto ad acerbissimo supplizio. La moltitudine del popolo, vedendo sì ingenuo e splendente corpo, uso ad ogni delicata delizia, a tormento crudelissimo dato, e la morte di lui commiserando, con clamore alzato sino al cielo, piagnendo, domandava quel giovinetto salvo. Ma con maggiore pertinacia la donna insistette ne’ supplizii, e fattogli tagliare le pudenda, lo ammazzò senza forme di processo, e senza sentenza; e i beni ne aggiudicò al fisco.

Quando Teodora montava in furore, non poteva dalle mani sue liberare chi essa volesse perduto nè asilo di chiesa, nè forza di leggi, nè il pianto di tutta la città, nè alcuna altra cosa.

Diogene, uomo d’ogni civiltà pieno, e caro a tutti, caro allo stesso Imperadore, venne a lei in odio come partigiano de’ Prasini. Lui pure volendo perdere incolpandolo di amor de’ ragazzi, cercò due servi del medesimo, e gl’introdusse calunniatori insieme e testimoni. Ma come il giudizio che se ne aprì, non era di [p. 130 modifica]que’ suoi soliti clandestini; ma per riguardo alla dignità dell’incolpato molti ed insigni uomini sedeano nel Foro giudici, e questi rigettarono come invalido per la causa il testimonio dei due servi, i quali erano anche minori di età; essa fece mettere nelle solite sue carceri un certo Teodoro famigliare di Diogene, e lo circonvenne sì con lusinghe, che con tormenti. Imperciocchè veggendo di non potergli trarre di bocca quanto cercava, con un nervo di bue legatogli dalla fronte alle orecchie lo fece stringere a modo, che gli avessero da uscire gli occhi dalle loro sedi. Ma egli soffrì tutto per non mentire. I giudici adunque rigettarono la querela, di cui non si era allegata prova bastante; e grande allegrezza ne fecero pubblicamente i cittadini. E di queste cose basti il detto fin qui, avendo già da principio narrato quanto questa donna fece contro di Belisario, contro di Fozio, contro di Buze.