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Sulla lingua italiana. Discorsi sei/Discorso secondo

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Discorso secondo
Epoca seconda
dall'anno 1230 al 1280

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Discorso secondo
Epoca seconda
dall'anno 1230 al 1280
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I poeti siciliani furono contemporanei, o non molto posteriori, e più celebri dei trovatori lombardi; e la lingua letteraria, benchè presentita ne’ differenti romanzi provenzali usati dagli antichissimi rimatori in Italia, non cominciò a risuonare se non nel dialetto romanzo de’ Siciliani; nè fu nobilitata da grandi scrittori, se non dopo che il dialetto Siciliano fu innestato nel dialetto romanzo de’ Toscani. I trovatori in Italia furono sempre pochissimi, e taluno d’essi era nato a Genova, tal altro in Torino, altri in Milano, in Mantova e in Ferrara e in Venezia; ma nessuno era siciliano nè fiorentino. L’unica allusione a un Toscano che sapesse di provenzale s’incontra in una raccolta di novelle antichissime, dove un cavaliere andò a chiedere una grazia al re Carlo: non perciò appare dalla novella che il Fiorentino fosse poeta o scrittore, e non più che parlatore eloquente nel dialetto del Principe francese1. Bensì, fino dal primo sorgere de’ poeti siciliani e toscani, tutta l’Italia dimenticò i suoi trovatori in guisa che la loro fama non rimase viva, se non in Provenza, dove il dialetto romanzo, che essi avevano usato, continuava ad esser popolare. Il più antico fra loro, e che dagli storici ed antiquarj è sempre chiamato Folchetto Marsigliese, era nato, per testimonianza di Dante, fra’ confini di Genova e della Toscana2. - Il Petrarca aggiunge che l’onore che il suo genio aveva procacciato al suo paese nativo era stato ereditato da Marsiglia; - e che egli, invecchiando, mutò studj e costumi, e aspirò a patria migliore3. Infatti, dopo aver menato in gioventù la vita godente de’ trovatori, Folchetto fu convertito a pentimento dalla morte di una donna che egli amava e celebrava in tutti i suoi versi; ond’egli indusse sua moglie a far voto di castità in un monastero, ed ei co’ suoi figli si vestì da monaco, e morì vescovo e santo. Ma rari, se pur alcuni, fra i trovatori ottennero la celebrità di Sordello; - e quand’essi erano da principio cavalieri poeti, vivevano men noti all’Italia che ne’ paesi forestieri, dov’essi dimoravano qua e là nelle corti; finchè, divenuti poi rimatori e cantanti per arte, non passavano quasi mai di là dalle Alpi o dall’Appennino4; e non approdavano molto in tempi, ne’ quali ogni città italiana tendeva alla democrazia; - e dopo la metà del secolo decimoterzo e la morte di Azzo VII d’Este, il più magnifico e l’ultimo de’ loro protettori, rare menzioni s’incontrano de’ loro nomi.

Con Sordello, il più antico di molti, cominciano e finiscono i nomi di quelli che in quel secolo ferreo contribuirono a fare incivilire con la letteratura la Lombardia. Molti scrittori hanno anticamente narrato di lui cose più convenienti alla poesia che alla storia; ma oggi non sarebbe più nominato, se il suo carattere, com’è rappresentato da Dante, non procurasse ammirazione insieme e amicizia per un uomo sì splendidamente dipinto da un poeta, il quale non è liberale di lodi. Dante, viaggiando nel Purgatorio, incontra l’ombra di Sordello, e così la designa:

 Venimmo a lei: O anima Lombarda,
Come ti stavi altera e disdegnosa,
E nel mover degli occhi onesta e tarda!
     Ella non ci diceva alcuna cosa:
Ma lasciavane gir, solo guardando
A guisa di leon quando si posa.

Ma quantunque l’Italia cominciasse a possedere una lingua letteraria e nazionale, le sue varie provincie e città non però cessavano - nè mai cesseranno - dal parlare dialetti stranamente diversi fra loro. Dante, che per arricchire la lingua andava scegliendo parole e frasi da tutti que’ dialetti, e gli esaminava con orecchio attentissimo, le trovò divise in quattordici provinciali, e suddivise in altrettante municipali, sì ch’ei disperò di potere accertarne il numero5. Dai saggi che egli ne reca, pare che gl’Italiani nativi di differenti provincie non potessero bene intendersi fra loro. Nè la diversità e il numero de’ dialetti italiani è minore a’ dì nostri. Sappiamo per prova che nè un Napoletano illetterato intende un Milanese, nè un Torinese un Bolognese; nè quattro uomini educati, ognuno de’ quali fosse nativo in una di quelle quattro diverse provincie, potrebbero conversare senza frantendersi, se non usassero fra di loro un certo italiano ibrido, che, partecipando pur sempre del dialetto provinciale di chi lo parla, assume ad ogni modo le desinenze e la grammatica della lingua letteraria della nazione; e questa lingua nazionale, benchè non sia parlata nè bene nè male dal volgo, è nondimeno più o meno intesa anche dall’infima plebe. Abbiamo già accennato che una siffatta lingua comune dovea esservi anche allora, e fra poco ne daremo le prove: ma non era ancor letteraria. Primi i Siciliani ridussero il loro dialetto nativo a lingua scritta e popolare ad un tempo: ma benchè non l’usassero come lo udivano uscire dalle labbra del popolo, tuttavia non lo alteravano in guisa che non si vedesse che apparteneva propriamente ai nativi di quell’Isola: ad ogni modo era molto diverso dal provenzale, e più grato e più intelligibile a tutta l’Italia. - Infatti, mentre la poesia de’ trovatori lombardi cadeva in perpetua dimenticanza, quella di Sicilia fioriva in guisa, che siciliano e italiano si trovano negli autori di quel paese adoperati come sinonimi6. Che se poscia Firenze, più che la Sicilia, ottenne la gloria d’aver contribuito principalmente a stabilire la lingua letteraria della nazione, il merito è dovuto non solo a’ suoi grandi scrittori che spettano all’epoca successiva, ma ben anche e forse molto più alle cause seguenti: - al dialetto de’ siciliani; - al latino scritto dal clero romano; - alla lingua francese; - ma soprattutto al regno di Federigo II in Italia.

In quanto a’ Siciliani, anch’essi nel corso de’ secoli del medio evo parlavano la lingua romanza; ma avevano assai prima d’allora innestato il latino sul greco che era la loro lingua patria, e che con l’affluenza e soave modulazione delle sue vocali comunicò al dialetto de’ Siciliani una tradizionale melodia di pronunzia. Quindi il dialetto che parlano anco a’ dì nostri è fluidissimo di vocali. La strofetta seguente di un Siciliano morto prima del 12007 lascia sentire, per la moltitudine delle vocali e la scarsezza delle consonanti, una grande affinità alla lingua italiana d’oggi, e molta più melodia che in certa canzonetta provenzale di Federigo I suo contemporaneo8.

 
Rosa fresca aulentissima
C’appari inver l’estate,
Le donne te desiano
Pulcelle e maritate.

Chi togliesse il latinismo oggi fuor d’uso, e che il poeta siciliano, per amore delle vocali, invece di olentissima pronunziava aulentissima, e se invece di c’appari si scrivesse che appari, nessuno mai crederebbe che questi quattro versetti non fossero di un qualche poema moderno. Questa ed altre poesie posteriori furono imitate dai primi poeti toscani; e forse l’affluenza delle vocali nel dialetto siciliano operò sì che tutte le parole, le quali nella lingua latina e in tutti i dialetti e le lingue da lei derivate terminavano in consonanti, terminassero, nella lingua letteraria italiana, in vocali. Il latino panis - in spagnuolo pan - in francese pain - odesi in quasi tutte le provincie settentrionali d’Italia pronunziato tronco, ma non vedesi mai scritto in tutta l’Italia (fuorchè talvolta in poesia) se non pane; nè v’è parola italiana che non ammetta la medesima osservazione.

La lingua de’ conquistatori romani, che, come nel precedente Discorso abbiamo accennato, predominava a principio scritta insieme e parlata in tutte le regioni soggette al loro Impero, cominciò fin da’ primi tempi del medio evo a dividersi in latino scritto, chiamato curiale ed ecclesiastico, ed in latino parlato, chiamato romano rustico e poscia romanzo. Questa divisione continuò per oltre cento anni anche dopo l’epoca che ora andiamo osservando. Bensì nel corso di que’ dodici secoli il latino si alterava di meglio in peggio e di peggio in meglio sotto la penna degli scrittori, senza mai perdere le sue primitive sembianze. Ma il romanzo alterandosi con la pronunzia che gli anni cangiano gradualmente in tutte le lingue parlate, ed innestandosi ne’ linguaggi di tante differenti nazioni alle quali era comune, andò continuamente assumendo forme, suoni, significati e sintassi sempre più dissimili dalla lingua latina; si divise in dialetti infiniti, sinchè i dialetti provinciali e municipali si ricongiunsero a creare in ogni nazione una lingua letteraria, distinta dalle altre nate e cresciute dalla stessa origine e nel medesimo modo.

Sì fatte metamorfosi non appariranno fenomeni a chiunque non perderà mai d’occhio il principio generale da noi stabilito, perchè deriva dalla storia di tutte le lingue, e che non cesseremo d’applicare, perchè è principalmente efficace a farci conoscere i primordj, i progressi, le vicissitudini e lo stato attuale della italiana letteratura; - ed è: che le lingue si trasformano e si moltiplicano unicamente per mezzo della pronunzia. Il romano rustico essendo più parlato che scritto, il suono di ogni sua parola si cangiò in varie guise a norma degli organi e de’ linguaggi anteriori di ciascun popolo: onde il latino presbyter divenne prevete- prêtre- prete - priest; e la sua origine, benchè non possa più omai rintracciarsi oltre al PRESBIS de’ Greci, deve essere certamente molto più antica. - Al contrario, se una lingua è più scritta che parlata, s’imbarbarisce per neologismi, per durezza di costruzioni, per ineleganza d’idiotismi e per assoluta povertà di native grazie spontanee. Tuttavia, non soggiacendo al potere arbitrario impercettibile e invisibile delle pronunzie popolari, serba perpetuamente le sue prime forme. Il latino curiale ed ecclesiastico scritto e letto sempre, ma pronunziato di rado nel medio evo, si guastava, ma non però trasformavasi; perchè ogni sua parola era fedelmente seguita con obbedienza passiva dall’occhio de’ lettori, e gli scrittori per riconoscerla preservavano scrupolosi la medesima ortografia. La parola presbyter infatti era un barbaro neologismo ignoto agli autori classici, e cominciò ad essere usato nel terzo secolo da’ Padri della chiesa, quando la religione cristiana introducevasi quasi contemporaneamente in tutti i dominj romani: pur nondimeno d’indi in qua continuò ad essere scritto ad un modo, e inteso da chiunque sa di latino. Ma le pronunzie dissimili de’ varj popoli le quali si divisero il romano rustico in dialetti infiniti, e che poi dagli scrittori furono ridotti in più lingue letterarie, fecero sì che ogni parola, benchè derivante dalla medesima origine, non potesse allora essere intesa, fuorchè nel luogo dove ogni dialetto diverso era parlato dal popolo. Quindi le parole medesime che nei libri scritti in latino ecclesiastico e curiale giunsero fino a noi perpetuamente immutabili, erano nel latino rustico e ne’ suoi mille dialetti romanzi modificate e moltiplicate nelle varie pronunzie popolari di generazione in generazione; e furono tramandate a noi così travisate che, quand’anche serbano il loro preciso antico significato, non possono raffigurarsi come modificazione di una sola parola, se non da chi sa molte lingue viventi. Infatti un uomo letterato tedesco, che sapesse tutte le lingue antiche e nessuna moderna, potrebbe egli intendere che il prevete de’ Grigioni, il prete degl’Italiani, il prêtre de’ Francesi, e il priest degl’Inglesi sono pure tutte derivazioni direttissime, e serbano l’esatto significato del vocabolo presbyter? Ed oggi pur fra l’Italia e la Svizzera, dove alcuni alpigiani parlano un italiano antichissimo, ed altri un dialetto romanzo forse più antico, i pastori di due valli vicine difficilmente s’intendono fra loro senza un interprete.

Vero è che in tutti i tempi in ogni parte della terra le città e le provincie riunite sotto le medesime leggi, o costituite da naturali confini e dal clima in una sola regione, benchè parlino dialetti differentissimi, si formano sempre una lingua comune, composta di quelle parole che, appartenendo a tutti i dialetti di quella contrada, riescono più o meno intelligibili a tutti i suoi abitatori. Ma siffatta lingua rimansi poverissima, incerta e soggetta a rapidissime trasformazioni sino a tanto che non sia ripulita, arricchita e preservata dagli scrittori. La Francia meridionale e settentrionale, la Sicilia e l’Italia non lasciano travedere orma veruna di lingua nazionale per tutti quei secoli, ne’ quali quel poco che si scriveva in quelle regioni era scritto barbaramente in latino. I loro mille dialetti popolari s’andavano alterando, e sempre più dividendo e intricando ad un tempo, finchè la poesia cominciò in ciascuna di quelle contrade, verso l’epoca delle Crociate, a giovarsi di tutti que’ dialetti, ad evitare ogni frase troppo provinciale e plebea, a nobilitare ogni idiotismo, a ridurre i suoni diversi, con cui ogni parola era proferita e storpiata in diverse città, ad una sola pronunzia uniforme, e così, per mezzo della scrittura e della ortografia, renderla certa e intelligibile a tutti; e allora i dialetti in ciascuna contrada si riunirono sotto la penna degli scrittori a comporre le tre lingue nazionali chiamate nel duodecimo e decimoterzo secolo lingua d’oc, lingua d’oui e lingua del sì.

Strane, come pur certamente devono parere a’ dì nostri siffatte denominazioni di queste tre lingue, giovano ad ogni modo ad accertare in che guisa derivarono tutte dalla latina, e come spesso le lingue derivate trovano nelle varie parole della madre lingua i significati necessarj che essa non poteva somministrare. I Romani, quegli imperiosi conquistatori del mondo, arbitrarj ed inesorabili nelle loro decisioni, assoluti e positivi nelle loro risposte, mancavano (chi il crederebbe?) della particella affermativa. Avevano il no; ma non avevano vocabolo esclusivamente appropriato a dir sì. I loro storici, oratori e poeti, per più eleganza e più forza, esprimevano l’affermazione positiva con due negative. Ma da’ loro comici e scrittori di dialoghi appare che nel discorso famigliare avevano ricorso ora al pronome hoc, ora ai verbi ajo ed est, or agli avverbj maxime, utique, ita, sic, imo, e siffatti; donde anco nel Vangelo di S. Matteo, a significare men vagamente il precetto «le vostre parole sieno schiette; dite sì o no», l’autore, o il traduttore fu costretto a scrivere: «Sit sermo vester: Est Est, Non Non.» Diciamo l’autore, perchè noi crediamo che il nuovo Testamento sia stato originalmente scritto in latino, e uno scrittore ci ha recentemente confermati in questa credenza con dottrine e argomenti, che, al nostro parere, non possono esser confutati. Nondimeno la questione di sua natura non ammette termini di conciliazione fra’ disputanti; e noi non l’abbiamo toccata se non perchè giova a illustrare il nostro soggetto, e aggiungere prove al fatto singolarissimo della varietà della particella affermativa fra popoli, fra quali le religioni, le colonie e le leggi romane e parecchi secoli di dominio avevano introdotta e stabilita la stessa lingua.

L’hoc (questo) prevalse nel mezzodì della Francia, e fu pronunziato e scritto oc; e nella Francia settentrionale l’utique (di certo) forse dapprima accorciossi in uti, come in tutte le lingue avviene ad ogni parola che è perpetuamente usata nel discorso; - poscia per la stessa ragione in ui; - e perchè i Romani pronunziavano, com’oggi pur fanno gl’Italiani, la u come l’ou de Francesi, la parola finì ad essere scritta oui. Finalmente il sic, (così), perdendo anch’esso una lettera, diventò sì, e si perpetuò come voce esclusiva di affermazione de’ Siciliani e degl’Italiani: quindi venne il nome alla provincia della Linguadoca; e il verso di Dante:

 Del bel paese là dove ’l sì suona

allude all’Italia.

La più celebre delle tre nuove lingue, e che fino dal secolo X era stata la prima a rallegrare di poesia e d’armonia le triste città dell’Europa, e a rammollire i duri costumi e le truci passioni di quella età, celebrando

Le Donne, i Cavalier, gli affanni e gli agi
Che ne invogliava Amore e cortesia,

è lingua oggi affatto perduta; e non che essere intesa, non è quasi più ricordata da’ popoli, fra’ quali i monarchi e i condottieri d’eserciti de’ loro antenati la studiavano e la scrivevano come necessaria a’ loro piaceri e alla loro gloria. Invece, la lingua d’oui e quella del sì, che le cedevano allora la preminenza, illustrarono la Francia e l’Italia; e non periranno, se non quando nuove rivoluzioni, nuove religioni, nuove invasioni di nazioni settentrionali o transatlantiche ricondurranno un altro medio evo in Europa, e l’empiranno di nuove lingue. Già sin dall’epoca che ora consideriamo, i Francesi e gl’Italiani contendevano fra loro per la superiorità della propria lor lingua, benchè fossero allora sorgenti; - e gli uni e gli altri si univano ad esaltarla sopra quella dell’oc, che nondimeno continuava ad avere poeti, e mantenere i suoi diritti di primogenita.

I Francesi allegavano ch’essi furono i primi a tradurre in lingua d’oui le storie de’ Troiani e de’ Romani e la Bibbia, e ad inventare le maravigliose favole del re Artù e de’ suoi cavalieri, e molte altre narrazioni e dottrine. - Gl’Italiani rispondevano che la lingua del sì nelle sue derivazioni aveva meno corrotta la pronunzia e la grammatica del latino; - che aveva minor numero di parole e frasi derivate dalle lingue settentrionali; - e finalmente che da’ versi de’ Siciliani e degl’Italiani appariva che la lingua del sì era la più armoniosa e poetica fra le sue rivali.

Or comunque sia, la nascente lingua del sì, nell’acquistar melodia dalla poesia siciliana, traeva vigore e precisione grammaticale dal latino ecclesiastico e curiale, che in Italia fu sempre men barbaro, e segnatamente nelle corti de’ papi, dove stranieri concorrevano ad impararlo

 Me transtulit Anglia Romam
Tanquam de terris ad cœlum; transtulit ad vos
De tenebris velut ad lucem.9

Questo buon Inglese peraltro chiamava la Poesia col nome di Poetria, che in latino significò sempre Poetessa; e però la nuova Arte Poetica, ch’ei compose in versi, gli attirò meno discepoli dei precetti da lui scritti a preservare il vino; e fu sempre poi conosciuto sotto il nome di Gaufred de vino salvo. Ma i classici erano più intensi e imitati meno risibilmente anche fra le tenebre della barbarie dagl’Italiani. Un poema elegiaco latino, scritto verso la fine del secolo duodecimo da un autore toscano10, contiene, fra gli altri, questi versi:

 Sim licet agrestis, tenuique propagine natus,
Non vacat omnimodâ nobilitate genus.
Non præsigne genus, nec clarum nomen avorum,
Sed probitas vera nobilitate viget.

E altrove:

 Dum Zephirus flabat, multis sociabar amicis;
Nunc omnes Aquilo, turbine flante, fugat.

Non è latinità classica questa, - ma non è gotica; ed è da considerare che il poeta era nato contadino, e che essendosi educato da sè, doveva aver trovato fuori delle scuole alcuni uomini, da’ quali egli potesse raccogliere gusto ed istruzione. E da questi appunto la lingua italiana cominciò ad essere scritta, e gradualmente animata dall’energia, e abbellita della eleganza e della rotondità della latinità classica, di cui non tutti i libri rimasero sotterrati; anzi, alcuni che allora esistevano, oggi si sono smarriti. Ma finanche la barbarie del latino, con che la Teologia, le Leggi e la Dialettica aristotelica erano insegnate nelle Università, cospirava al progresso della lingua letteraria italiana. Certamente il dizionario, la fraseologia di que’ professori sarebbero riesciti enigmatici agli scrittori del secolo d’Augusto: tuttavia le forme esteriori della lingua e le regole grammaticali che guidavano la sintassi di Cicerone non erano molto diverse da quelle, senza le quali il latino non può essere scritto mai. Infatti lo stile cattedratico delle Università del medio evo fu come l’anello intermedio fra il latino puro e l’italiano letterario; perchè le leggi grammaticali del latino, che s’appressava allo stato di lingua morta, rimanevano a governare le nuove forme e i suoni diversi della lingua nascente.

Ora a dimostrare quanto abbiamo di sopra indicato, che anche la lingua francese contribuì in quell’epoca ad arricchire l’italiana, bisognerebbe la esposizione di fatti che per la loro oscurità esigerebbero di essere circostanziati più che non è conceduto ai limiti d’un’opera periodica. Infatti, oltre alla comune origine del latino rustico, le due lingue avevano contratto strettissima affinità sino dal secolo ottavo, dopo che per le conquiste di Carlo Magno l’Italia fu lungamente dominata da principi ed eserciti francesi; e se la dinastia de’ Longobardi avesse continuato a regnare d’allora in qua, forse che gl’Italiani oggi avrebbero una lingua d’indole alquanto diversa. Certo è ad ogni modo che, mentre gli scrittori siciliani e toscani cominciavano a dar carattere proprio e nazionale alla lingua, e la sua sintassi si ordinava naturalmente sulle leggi certissime del latino, molta nuova ricchezza di parole, d’idee e di stile le veniva dalla Francia. I più antichi libri italiani sono traduzioni delle storie del re Artù, e delle imprese dei cavalieri erranti. I primi crociati che ritornarono in Europa furono francesi, e portarono nozioni di oggetti, di arti e di mille cose ignote a’ Cristiani, e per cui bisognavano nuove parole create primamente in Francia, e trapassate rapidamente in Italia. La poesia de’ trovatori, la vita cavalleresca, il lusso delle corti de’ principi e le corti d’amore in Francia avevano diffuso una qualche eleganza di sentire, di pensare e di scrivere fra gl’Italiani. Finalmente pare anche che le scienze diverse dalla Teologia, dalla Giurisprudenza e dalla Medicina potessero allora meglio spiegarsi in francese; e Brunetto Latini, fiorentino, come abbiamo già notato, scrisse la maggiore delle sue opere intitolata il Tesoro in lingua francese, perchè, dic’egli nella prefazione, «è la più dilettevole e più universale che tutti gli altri linguaggi.» Nondimeno l’originale di quest’opera rimase inedito sempre; ma due traduzioni italiane, eseguite da’ contemporanei dell’autore, accrebbero le idee, i vocaboli, i modi di dire della lingua; e pare che una di esse fosse tenuta in gran pregio per più di due secoli, poichè al primo introdursi dell’arte tipografica fu pubblicata in Italia11.

Tuttavia le cagioni enumerate sin qui, che cospirarono simultanee e potenti a creare la lingua, non avrebbero operato sì prospere, nè con tanta celerità, se l’imperatore Federigo II non avesse regnato in Italia. Nel corso di 400 anni che s’interpongono fra questo principe e Carlo Magno, la Storia non lascia vedere alcun monarca, se non forse Ottone I, il quale potesse liberare il genere umano europeo dalla ignoranza in cui stava ravvolto; e intanto Gregorio VII lo sottomise a’ ciechi demonj della superstizione e del fanatismo. Carlo Magno fu certamente maggiore; ma fu anche più fortunato, perchè ebbe sua federata e serva e mercenaria la Chiesa quando era ancora poverissima e debole; e fin d’allora, per non sottostare ai re italiani, che, quantunque di origine longobarda, erano nati per varie generazioni in Italia, i papi cominciarono ad incitare e santificare le invasioni straniere.

Federigo II aspirava a riunire l’Italia sotto un solo principe, una sola forma di governo e una sola lingua; e tramandarla a’ suoi successori potentissima fra le monarchie d’Europa12; nè dopo l’emigrazione di Costantino e della sede imperiale sull’Ellesponto i tempi erano sembrati mai sì opportuni, se Federigo non avesse dovuto perpetuamente combattere contro i papi, allora più onnipotenti che mai, quando la loro scomunica bastava a giustificare la ribellione, il regicidio e il parricidio, ed imponeva ad ogni uomo di avventarsi contro i monarchi profughi ed esuli ne’ loro stessi dominj. Gli ecclesiastici allora che, quasi gli unici arbitri delle reliquie della letteratura e delle credulità del genere umano, continuavano ad esaltare Carlo Magno e le bolle de’ papi, appunto al tempo di Federigo dichiaravano che le favole di Turpino, donde il Bojardo e l’Ariosto trassero poscia i loro racconti, erano storie autentiche e vere13.

E intanto papi, cardinali, vescovi e preti e monaci e frati incominciavano, nè fino ad oggi hanno cessato, ad esporre alla esecrazione de’ popoli il nome di Federigo II colla taccia, che era - ed oggi è pur tuttavia - facile ed efficacissima, d’ateismo. Quindi non v’è storico italiano che d’allora in poi, o per sincera aderenza alla Chiesa, o per terrore del Santo Ufficio, non abbia più o meno o dissimulato i meriti, o malignato il carattere, o insultato alle calamità di quel monarca e de’ suoi figli e de’ suoi nipoti: ad uno di essi fu mozzato il capo dal carnefice, e il cadavere dell’altro fu disotterrato, e le sue ossa disperse.

Ma finchè Federigo e i suoi figli vissero, nè le guerre perpetue, nè le domestiche sciagure li distolsero mai dal favorire e coltivare le lettere; e se non avessero lungamente risieduto in Sicilia, la lingua italiana o non avrebbe ricavato ajuto veruno dal coltissimo dialetto di quell’isola, o più scarsamente e più tardi. Il palazzo di Federigo e di Manfredi era l’ospizio de’ poeti; e i cortigiani, che gareggiavano co’ loro principi a compor versi, erano a un tempo oratori, uomini di stato e guerrieri, generosissimi d’animo ed eleganti ne’ loro costumi. La galanteria cavalleresca esaltava il cuore delle donne, destava le loro grazie e raffinava la loro educazione. Talune emulavano d’ingegno i loro amanti, ed una di esse li superò. Nina siciliana era la Saffo d’Italia, e non infelice, perchè le sue poesie forzavano ad amarla anche i cavalieri che non l’avevano mai veduta; ma non pare che ella per amore volesse concedere altro che canzonette. - Tuttavia le poesie migliori del dialetto siciliano, e men lontane dall’italiano de’ nostri tempi, appartengono a Pietro delle Vigne nato a Capua, e che pareva uno di quegli uomini creati dalla natura per illustrare ogni lingua, ogni scienza a cui si applicano, e ad onorare qualunque epoca e tempo in cui vivono. I suoi scritti latini, malgrado l’ineleganza della lingua, hanno l’evidenza, il fuoco e la profondità di stile che appartiene sempre esclusivamente al genio. La sua eloquenza riesciva a persuadere alla fedeltà le città intere, che sovente, incitate da’ missionari e dalle omelie de’ papi, correvano a furia di popolo per rovesciare il trono dell’imperatore; - e Federigo confessava che, mentre i suoi vasti dominj, la possanza e la fede degli amici suoi, il denaro e gli eserciti gli riescivano inefficaci, la sola penna di Pietro delle Vigne era bastante a difenderlo contro i papi. - Pietro si educò da giovinetto nella università di Bologna, accattando limosine ogni notte su per le vie per potere studiare; nè egli s’affliggeva di sì misera condizione, se non perchè ei non poteva ancor liberare la sua madre dal pericolo di morir d’inedia14. Ma il suo genio splendeva anco fra l’oscurità dell’indigenza, - e Federigo, al primo vederlo e udirlo parlare, lo raccolse nella sua corte, e non molto dopo lo creò suo cancelliere.

Fra le opere scritte dal ministro e dal principe, quelle di Pietro sono ancor lette per la luce che spargono sulla storia e la diplomazia di quel secolo; - e fra quelle di Federigo, spetta al risorgimento ed a’ progressi delle scienze un trattato ch’ei lasciò non finito, e che fu supplito da Manfredi suo figlio: fu il primo libro che dopo la rovina dell’antica letteratura fu scritto sulle varie specie e nature degli uccelli. Egli fu il solo sovrano che sia mai stato il più dotto di tutti i suoi sudditi. Scriveva il romanzo siciliano, i dialetti di Francia, il latino e il tedesco; e sapea l’arabo e il greco. Fece tradurre l’opere scientifiche degli antichi, fondò scuole e accademie, e ristorò università che decadevano, e ne creò delle nuove che emulavano le antiche. Ma tutte le sue istituzioni a promuovere la letteratura erano abbominate, come derivanti da un principe eretico.

Il famoso libro De tribus Impostoribus fu attribuito a Federigo sin anche dal buon Matteo Paris, che era il men credulo fra gli storici, e il più imparziale fra i monaci di quell’età. Or chi crederebbe che quel libro tante volte citato, attribuito a tanti individui in paesi ed epoche differenti, fu dagli scrittori più versati negli annali bibliografici riconosciuto per una chimera?15 Ma o non si avvidero, o come è più probabile, non osavano dire, che esso era come la Chimera della mitologia, scatenata contro gli eroi, che i loro nemici volevano uccidere a tradimento.

Nè davvero era mostro diverso il libro De tribus Impostoribus, ogni qual volta i preti cattolici volevano dare un uomo letterato in preda a’ carnefici di S. Domenico, che ancora oggi presiedono al Santo Uffizio della Santa Inquisizione. Tommaso Campanella, benchè non troppo forse convinto de’ dogmi della Chiesa Romana, nondimeno difese la Religione contro l’ateismo - ma perchè egli scrisse più da filosofo che da teologo, fu accusato e torturato a morte nelle carceri della Inquisizione per fargli confessare ch’egli aveva scritto appunto quel libro che la Chiesa aveva attribuito quattrocento anni addietro all’imperator Federigo ed al suo cancelliere. - Così inseguito per tutta l’Europa dalle miriadi di preti, monaci e frati che predicavano contro di lui, assalito fino nel suo santuario domestico e minacciato da’ fulmini della scomunica fino sopra il suo letto matrimoniale, Federigo continuava a promuovere la civiltà degl’Italiani. Invano, a placare i papi, attenne la promessa che essi avevano estorta da lui, e lasciò i suoi Stati per la guerra delle Crociate, con la quale essi si erano costituiti dittatori degli eserciti di tutta l’Europa: arrivò in Gerusalemme; e appena entrato nel tempio, una nuova scomunica lo colse sopra il sepolcro di Cristo16.

Or non si creda che noi ricorriamo ad escursioni storiche per l’unico fine di divertir noi e i nostri lettori dalle aride disquisizioni grammaticali, indispensabili nelle indagini delle lingue; - perchè nè la storia de’ popoli può conoscersi se non per mezzo della loro lingua, nè lingua veruna si lascia mai rintracciare se non per mezzo della storia. Se nel notomizzare la proprietà, la derivazione e i varj significati antichi e nuovi, de’ quali coll’andar del tempo s’impregnano le parole di tutte le lingue, i grammatici, gli etimologisti e gli antiquarj avessero adottato il nostro metodo di applicare gli avvenimenti politici agli annali della letteratura, forse che essi avrebbero disputato meno, e si sarebbero intesi più facilmente; seppure è da credere che siffatte specie di dotti bramino piuttosto d’intendersi che di disputare.

Finchè il regno ed il secolo dell’imperatore Federigo non avranno uno storico letterato insieme e filosofo, lo scoppio quasi subitaneo de’ lumi, e la loro rapidissima diffusione in Italia e nel rimanente d’Europa si rimarranno fenomeni17. Ma al proposito nostro basterà lo spiegare come avvenisse che la letteratura e la lingua fossero sì felicemente promosse da un principe perpetuamente impedito da quelli, che per mezzo della superstizione e della ignoranza governavano le opinioni e i cuori della universalità delle nazioni. I creduli e i ciechi erano allora innumerabili; e quei che sotto il nome di Guelfi parteggiavano in favore de’ papi erano per lo più uomini, a’ quali il traffico aveva procurato ricchezze, con le quali s’erano fatti demagoghi potenti nelle loro respettive città. Ma pochissimi tra siffatti uomini attendevano alle lettere; mentre i Ghibellini, che sosteneano i diritti degl’imperatori, erano nobili per nascita, aristocratici per sentimento e per sistema, avvezzi sin dall’infanzia a una educazione liberale; - e siffatti individui, quando attendono alle lettere, le propagano prestamente fra’ loro concittadini.

Anzi il favore che la poesia godeva alla corte di Federigo era in quei tempi nell’opinione di molti scrittori guelfi una prova evidente della dissolutezza de’ costumi e dell’empietà di Federigo e del suo cancelliere; chè Pietro, come il suo signore, componeva canzoni. E Federigo doveva essere un principe veramente magnanimo, perchè, essendo poeta egli stesso, si compiaceva di confessare che i versi del suo ministro erano migliori de’ suoi. Federigo, nondimeno, e suo figlio Enzo, considerata l’infanzia della lingua, destano qui e là ne’ loro versi grandissima ammirazione.

Nel seguente squarcio, tratto dalle reliquie delle poesie di Federigo scritte nella lingua romanza siciliana, noi troviamo il fondo dell’italiano che si scrive a’ dì nostri. Basterebbe alterare leggermente la ortografia siciliana, e invece di aggio e partiraggio scrivere ho e partirò, e togliere le traccie di barbara latinità, eo invece di ego e meo invece di meus, e farne io e mio; queste ed altre poche alterazioni varrebbero a far credere ad ogni lettore non profondamente versato nella lingua, che la stanza ch’io recito appartenga ad autore moderno:

 Poichè ti piace, Amore,
Ch’eo deggia trovare,
Farò omne mia possanza
Ch’eo venga a compimento.
Dato aggio lo meo core
In voi, Madonna, amare,
E tutta mia speranza
In vostro piacimento.
E non mi partiraggio
Da voi, Donna valente,
Ch’eo v’amo dolcemente;
E piace a voi ch’eo aggia intendimento.
Valimento mi date, Donna fina,
Chè lo meo core ad esso a voi s’inchina.

Di suo figlio Enzo riportiamo semplicemente i seguenti versi di merito pari, se non superiori a quelli del padre:

 Ecco pena dogliosa
Che nello cor m’abbonda
E spande per li membri,
Sì che a ciascun ne vien soverchia parte.
Giorno non ho di posa
Come nel mare l’onda:
Core, che non ti smembri?
Esci di pene, e dal corpo ti parte:
Ch’assai val meglio un’ora
Morir, che ognor penare!

L’impresa, che noi riguardiamo quasi più che umana, di creare una nuova lingua letteraria fu avanzata e consumata da Dante; ma riescirà meno maravigliosa per chi considera che non fu incominciata da lui, ma che egli fu incoraggiato in sì difficile via da’ poeti che lo precedettero. Pietro delle Vigne fu certamente il primo, se non il maggiore, cent’anni innanzi Dante, e in un’epoca in cui gl’Italiani parlavano un gergo latino mutilato nelle sue terminazioni, e imbarbarito da parole e frasi e pronunzie introdotte da’ popoli del Nord. Il gusto corretto, l’orecchio musicale di Pietro lo ajutarono a trascegliere le più schiette parole, a legarle con frasi eleganti e a collegarle nella misura de’ versi in maniera che fossero proferite con rotondità e melodia. Così ne’ versi seguenti non v’è un unico sgrammaticamento di sintassi, nè un modo di esprimersi inelegante, nè un solo vocabolo che possa parere troppo antico:

 Non dico che alla vostra gran bellezza
Orgoglio non convenga e stiale bene;
Chè a bella donna orgoglio si convene,
Che la mantene - in pregio ed in grandezza:
Troppa alterezza - è quella che sconvene.
Di grande orgoglio mai ben non avvene.

E la seguente strofa d’un’altra delle sue Canzoni, a nostro avviso, vuolsi reputare una delle più vaghe gemme della poesia anteriore a Dante:

 Oh, potess’io venire a vo’, amorosa,
Come ’l ladrone ascoso, e non paresse!
Ben mi terria in gioia avventurosa,
Se Amor di tanto bene mi facesse.
I’ ben parlante, Donna, con voi fora,
E direi come v’ami dolcemente
Più che Piramo Tisbe; e lungamente
I’ v’ameraggio, in sin ch’io viva, ancora.

Pietro delle Vigne ha inoltre il merito di avere inventati molti nuovi metri di canzoni e stanze diverse da quelle usate da’ Provenzali, e particolarmente la breve composizione conosciuta in tutta l’Europa con la denominazione di Sonetto. - Ogni lettore di Dante sa che Pietro morì di suicidio; ma non v’è storico, o dotto uomo italiano o straniero, che abbia mai potuto rintracciare la cagione della tragica morte di quest’uomo straordinario: - e quel più che sappiamo, oltre quello che ne disse Dante, è brevemente accennato da Matteo Paris, storico inglese che morì uno o due anni dopo Pietro delle Vigne; e che, contemporaneo, meriterebbe fede, se il suo amore per la verità non fosse stato vinto da’ pregiudizj monastici sull’ateismo di Pietro. Però dalle romanzesche circostanze, e dalle soprannaturali cagioni assegnate alla morte di Pietro delle Vigne dagli antichi scrittori, l’unica verità che si può accertare, è che, avendo egli perduto il favore di Federigo, fu condannato a perdere gli occhi, e ad una perpetua prigione, ove egli si uccise da sè. Dante nel suo viaggio all’Inferno entra in una foresta dove le anime de’ suicidi erano condannate a star rinchiuse in alberi di trista apparenza:

 Non era ancor di là Nesso arrivato,
Quando noi ci mettemmo per un bosco,
Che da nessun sentiero era segnato.

     Non frondi verdi, ma di color fosco;
Non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
Non pomi v’eran, ma stecchi con tosco.
[. . . . . . . . . . . . . . . . . . . ]
     Io sentia d’ogni parte tragger guai,
E non vedea persona che ’l facesse
Perch’io tutto smarrito m’arrestai.
[. . . . . . . . . . . . . . . . . . . ]
     Allor porsi la mano un poco avante,
E colsi un ramoscel da un gran pruno:
E ’l tronco suo gridò: perchè mi schiante?
     
     Dacchè fatto fu poi di sangue bruno,
Rincominciò a gridar: perchè mi scerpi?
Non hai tu spirto di pietade alcuno?
     
     Uomini fummo, ed or sem fatti sterpi
Ben dovrebb’esser la tua man più pia,
Se state fossimo anime di serpi.
     
    Come d’un stizzo verde, ch’arso sia
Dall’un de’ capi, che dall’altro geme,
E cigola per vento che va via;
     
     Così di quella scheggia usciva insieme
Parole e sangue; ond’io lasciai la cima
Cadere, e stetti come l’uom che teme.

E lo Spirito ripiglia a parlare:

[. . . . . . . . . . . . . . . . . . . ]
     Io son colui che tenni ambo le chiavi
Del cor di Federigo, e che le volsi,
Serrando e disserrando, sì soavi,
     
     Che dal segreto suo quasi ogni uom tolsi:
Fede portai al glorïoso ufizio,
Tanto ch’io ne perdei le vene e’ polsi.
     
     La meretrice, che mai dall’ospizio
Di Cesare non torse gli occhi putti,
Morte comune e delle corti vizio,
     
     Infiammò contra me gli animi tutti;
E gl’infiammati infiammar sì Augusto,
Che i lieti onor tornaro in tristi lutti.
     
     L’animo mio per disdegnoso gusto,
Credendo col morir fuggir disdegno,
Ingiusto fece me contra me giusto.
     
     Per le nuove radici d’esto legno
Vi giuro, che giammai non ruppi fede
Al mio Signor, che fu d’onor sì degno.
     
    E se di voi alcun nel mondo riede,
Conforti la memoria mia, che giace
Ancor del colpo che invidia le diede.

Dante, oltre a’ poeti della corte di Federigo, ne nomina parecchi di Lombardia, di Romagna e di Toscana, fra’ quali i più celebri furono tre che ebbero nome Guido.

Il primo di essi nacque a Bologna della casa patrizia de’ Guinicelli; ed è di lui che Dante dice:

[...] udii nomar sè stesso, il padre
Mio, e degli altri miei maggior, che mai
Rime d’amore usar dolci e leggiadre:
     
     E, senza udire e dir, pensoso andai
Lunga fïata rimirando lui,
Nè per lo foco in là più m’appressai.
     
     Poichè di riguardar pasciuto fui,
Tutto m’offersi pronto al suo servigio
Con l’affermar che fa credere altrui.

E adducendogli la cagione per cui lo riguarda con tanto affetto, dice che ne sono motivo:

 [...] i dolci detti vostri,
Che quanto durerà l’uso moderno,
Faranno cari ancora i loro inchiostri.

Tal lode non è giustificata da’ frammenti che gli antiquarj attribuiscono a questo Guido; e o non sono veramente suoi, o sono i peggiori di quanto scrisse; e la miglior parte del suo ingegno perì con tanti altri scritti, de’ quali più non vive che la memoria.

Il secondo Guido era d'Arezzo18. Molti lo confondono con un altro Guido inventore del contrappunto, il quale era pur d’Arezzo, ma visse assai tempo prima. Di Guido poeta i versi che restano sarebbero meravigliosi per quella età; - non tanto per le idee, quanto per lo stile, che spesso pareggia quello del Petrarca: ma confesso che io credo le poesie di Guido d’Arezzo spiritose invenzioni di qualche bell’ingegno dell’epoca di Leone X, dacchè i manoscritti in cui si trovano mancano egualmente di ogni prova di autenticità e d’antichità. Vero è che io così m’oppongo al consenso universale di tutta Italia; ma gl’Italiani, quanto più sentono la loro presente miseria, tanto più si studiano di aggrandire le loro glorie passate. E non credono poca lode nazionale il poter dimostrare, nelle poesie attribuite a Guido d’Arezzo, un modello di lingua letteraria perfetta sei secoli fa, quando le altre nazioni d’Europa non sapevano scrivere. E i letterati stranieri spesse volte, per vanità d’erudizione di cose che destano maraviglia, si fanno complici di siffatte pie imposture, e citano manoscritti simili a quelli di Guido, senza o potere, o voler dubitare della loro autenticità.

Il terzo Guido fu uno degli antenati della famiglia Ghisilieri, la quale ha posteri viventi oggi in Bologna; e benchè il poco che ne resta di lui non sia di un merito straordinario, egli era da’ suoi contemporanei citato come superiore a quanti poeti lo avevano preceduto.

Ma l’uomo che dalla natura fu creato superiore a’ suoi contemporanei, e che in tutti i secoli e in tutte le età sarebbe stato uomo preminente, fu un quarto Guido, il Cavalcanti. Siccome però egli fiorì alquanto posteriormente, così ci riserbiamo a parlarne nel seguente Discorso.

Note

  1. Cento novelle antiche.
  2. Paradiso, canto IX.
  3. Trionfo d’Amore, cap. IV.
  4. Non si dimentichi che l’Autore scriveva ciò in Inghilterra. - (F.S.O.)
  5. Si primas, si secundarias, si subsecundarias vulgaris Italiae variationes calcolare velimus, in hoc minimo mundi angulo, non solum ad millenam loquelae variationem venire contigerit, sed etiam ad magis ultra. - Dante, De Vulg. Eloq. c. 8.
  6. Nam videtur sicilianum volgare sibi famam prae aliis asciscere, eo quod quidquid poetantur Itali sicilianum vocatur. - Dante, De Vulg. Eloq. cap. XII.
  7. Ciullo d'Alcamo. - (F.S.O.)
  8. Plas my cavallier Francès
    E la donna Catalana,
    E l’onrar del Ginoès
    E la court de Castellana;
    Lou cantar Provensalès
    E la dansa Trivisana,
    E lou corps Aragonnès
    E la perla Julliana;
    La mans e kara d’Anglès
    E lou donzel de Thuscana.

    Così cantava in Torino il buon Barbarossa, dopo aver spianato Milano. Forse non avrebbe avuto estro sì gaio dopo il 29 maggio 1176. - (F.S.O.)
  9. Gaufridi (De vino salvo) Poetria nova apud Leiser. Pag. 856.
  10. Arrigo da Settimello nel poema intitolato: De diversitate Fortunae et Philosophiae consolatione. Vedi Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana, lib. III. - (F.S.O.)
  11. Apud Mehus, Vita Ambros. Camald., pag. 156, dov’è citata un’edizione del 1474.
  12. Gibbon, Storia della Decadenza dell’Impero Romano, pagina 59.
  13. Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana, vol. V.
  14. Petri de Vineis epist. 38; apud Martene, Veter. Scriptorum vol. 2.
  15. V. De Monnoye, Dissertation printed With the Menagiana.
  16. Muratori, Ann. 1229, 1245.
  17. Volesse Dio che queste parole, quasi uscenti dal sepolcro dell’illustre amico, potessero giungere alle orecchie di Giovan Battista Niccolini, e avessero tanta forza da indurlo finalmente a pubblicare la sua Storia della Casa di Svevia! Sarebbe un conforto alla misera Italia in tante sventure. - (F.S.O.)
  18. È più conosciuto sotto il nome di Fra Guidone o Guittone. Fu dell’Ordine de’ Cavalieri di Santa Maria, detto de’ Gaudenti; istituzione d’infame memoria, perchè diretta all’esterminio degli Albigesi. - (F.S.O.)