Traduzioni e riduzioni/Da Orazio/Lucilio

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Quinto Orazio Flacco

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Da Orazio - Passeggiando per Roma Da Virgilio - Il simposio
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lucilio

Già che l’ho detto: i versi di Lucilio
vanno a vanvera. Quale è sì arrabbiato
luciliano che anche lui nol dica?
E sì che lodo in quell’istessa carta
5ch’abbia di molto su Roma frizzato;
ma con ciò non io lodo anche il restante;
chè allor de’ mimi di Laberio, come
fior di poemi, strabiliar dovrei.
Però non basta fare ismascellare
10gli spettatori (e pur c’entra un che d’arte):
brevità vuolsi, se il pensier dee correre
e non incespicar nelle parole
pesanti che affaticano l’orecchio:
ci vuole un far più spesso da burletta;
15anche serio, ogni tanto; che ci paia
l’oratore a sua volta ed il poeta,
e il cittadin di spirito a sua volta,
ma che poi non lo sprechi, anzi lo smorzi
a bella posta. Grandi questïoni
20più netto e bene te le taglia un motto
festevole, che tante sfurïate.
Con questi avvisi si teneano in gamba
nella vecchia comedia gli scrittori;
quelli sì ch’eran uomini; ed in questo
25son da imitare; e non li ha letti mica
quel bel tipo d’Ermogene e codesto
scimiotto che non sa cantilenare
se non le baie di Catullo e Calvo. —
Ma gran cosa egli fece a mescolare
30quelle greche parole alle latine. —

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Deh! quant’è che si studia? o che si pensa
sia gran difficoltà gran meraviglia
quello che sempre è riuscito al rodio
Pitoleonte? — Ma il discorso acconcia-
35mente delle due lingue intarsïato
ha un certo gusto qual se a vin di Chio
mescolassi una vena di Falerno —
Quando fai versi o (parlo a te) quando anche
tu dovessi difendere la causa
40dura, poniamo, di Petillio? o dunque
tu da Pedio Poplicola e Messala
quando sudano a dire in arringhiera,
vorresti che dimentichi del padre
Latino e della patria, alle natìe
45incastrasser parole di foresto
qua’ Canosini ch’han due lingue in bocca?
Guarda, io nato di qua dalla marina,
già mi provai nel greco, in certi versi.
Quirino m’impedì che, quando il sogno
50è veritier, dopo la mezzanotte,
mi comparve e mi disse: Legna al bosco
tu potresti portar che non saresti
già tanto pazzo quanto ad imbrancarti
tra quell’immenso esercito di Greci.
55Or, mentre il gonfio Alpino ammazza Mennone
e pastriccia col fango il capo al Reno,
io mi diverto in queste cipollate
che non s’hanno a portare su nel tempio
che ’nnanzi Tarpa a tenzonar non hanno
60e tornare a levar la smanacciata.
Sol tu di quanti or vivono, Fundanio,
sai rabberciare una comedia a modo
con donnette pettegole e con Davo
che l’azzecca al barbogio di Cremete.
65Canta i fatti dei re sol Pollïone

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con quel suo verso delle tre battute.
L’epopea di battaglia è lavorata
da Vario come da nessuno. Quella
paesana e gentil, le villerecce
70muse l’hanno a Virgilio conceduta.
Questa, dopo che invan ci si provava
l’Atacino Varrone, e certun altro,
era ciò ch’io potea scriver di meglio,
e all’inventor m’inchino; che non mai
75oserei di strappare a quella testa
quella corona che ad onor la cinge —
ma dissi che nel corso e’ s’impaluda
e che in quel tal motriglio ch’egli mena
c’è da togliere più che da lasciare —
80Bene, e tu dimmi, tu che la sai lunga:
nulla in Omero da riprender trovi?
Lucilio stesso non ritrova in Accio
tragico, nulla, e’ comico, a cassare?
Non se la ride anche de’ versi d’Ennio
85perchè non hanno il peso che ci vuole?
E li appunta parlando di sè stesso
come non di migliore e di maggiore.
Che ci impedisce che pur noi leggendo
gli scritti di Lucilio, scrutiniamo
90se dell’ingegno o delle cose fosse
la natura selvatica che a lui
negava i versi un po’ tagliati meglio,
un po’ meglio scorrevoli di quelli
ch’uno può fare, quando, solo inteso
95di chiudere alcun che dentro sei piedi,
gongola di svesciarne un centinaio
avanti pranzo ed altrettanti dopo?
Proprio come la testa (una fiumana
a dirittura che trascina e bolle)

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100di quel Cassio toscano, che si dice,
morto che fu, bastassero le scara-
battole de’ suoi scritti al capannuccio.
Sia Lucilio, diciamolo, faceto
e spiritoso; pulizia di lima
105abbia me’ di colui che s’è provato
prima in cotale poesia di villa,
che i Greci non toccarono, e di tutti
quanti sono i poeti antichi; ma
se il fato avesse atteso il nostro tempo
110per farlo nascer oh! molto di dosso
si scrollerebbe, e tutto mozzerebbe
quel che il pensiero strascica di coda;
si gratterebbe, per trovare un verso,
sovente il capo, e sino al vivo l’ugne
115si roderebbe. Lo stil volgi e frega
e frega, o tu che scrivi, se lo scritto
vuoi che si legga la seconda volta.
Non t’allarmare acciò t’ammiri il volgo:
sta contento a pochini che ti leggano
120e rileggano. Pazzo! ami piuttosto
che il pedante li porti alla scoletta,
i tuoi versi, e li compiti? Non io;
che mi basta l’applauso dell’orchestra,
come uscì a dire Arbuscula, la volta
125che fu fischiata, non badando agli altri.
M’ho a risentire se mi pinza quella
cimice di Pantilio? M’ho a crucciare,
se Demetrio mi stuzzica, alle spalle?
se di me taglia lo scioccon di Fannio
130parassita d’Ermogene Tigellio?
Gàrbino queste mie scritture a Plozio
e a Vario; a Virgilio e Mecenate;
a Valgio e Ottavio, ed al mio bravo Fusco;
magari! E me le lodino i due Visci.

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135Non fo per dar la soia, ma potrei
te, Pollïon, contare e te, Messala,
con tuo fratello, e voi Bibulo e Servio,
e te con loro, Furnio mio sincero;
e ce n’è parecchi altri, amici, gente
140che sa, che taccio per non farla lunga;
ai quali oh! se vorrei che le mie cose
andasser, come che le siano, a sangue;
e mi dorrei se le piacesser meno
della nostra speranza. Tu, Demetrio,
145e tu, Tigellio... andate tra le vostre
scolare a gagnolare e sbietolare.
Lesto, ragazzo, e aggiungi questo al libro.