Trattato dei governi/Libro ottavo/VIII

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Libro ottavo - Capitolo VIII: Della salvazione di tutti gli stati in generale

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Aristotele - Trattato dei governi
(Politica)
(IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
Libro ottavo - Capitolo VIII: Della salvazione di tutti gli stati in generale
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Ma io vo’ dire conseguentemente della salvazione degli stati in generale, e di ciascuno particolarmente. Questo imprima si sappia, che chi saprà, onde e’ si rovinino gli stati, saprà ancora, onde e’ si conservino, conciossiachè li contrarî sieno delli contrarî effettivi, e la salute è contraria alla morte.

Debbesi pertanto osservare nei ben composti reggimenti sopra ogn’altra cosa, che e’ non vi si faccia nulla contra le leggi. E soprattutto vi si avvertischino li minimi, perchè il male, che deriva da loro, non si sente, così come e’ non si sente la perdita della facultà, quando ell’è fatta da minime spese. E la cagione d’un tal danno è, perchè e’ vi si fa tutto a un tratto. Che qui la mente nostra da loro resta ingannata, non altrimenti che dal sillogismo sofistico, che dice, se ciascuna parte è piccola e il tutto è piccolo. Perchè ciò è vero in un modo, e in un altro no, conciossiachè il tutto, e tutte le cose non sieno piccole, sebbene elle sono composte di cose piccole. Contra questo principio di rovina publica adunche è da porre diligente guardia; dipoi non si debbe dare fede a quelle cose, che, per ingannare il popolo, gli son messe innanzi, perchè li fatti stessi le riprovano per ree. E quali sieno questi civili inganni ho io detto innanzi.

E qui è lecito di vedere che non pure gli stati ottimati durano, ma ancora quei dei pochi potenti, non già perchè tali stati sieno durabili di loro natura, ma perchè quei che gli governano, si portano modestamente sì nei casi che sono fuori dello stato, come in quei che sono dentro a esso. Di fuori, cioè col non offendere chi non partecipa nel governo, e con dare lo stato a quei, che sono infra li non abili de’ migliori, e col non fare ingiuria alli ambiziosi nello onore, nè ai popolari nella roba, e con li compagni nel governo portandosi civilmente. Imperocchè quella parità, che cercano li popolari, che sia nel popolo, la medesima infra li simili non pure è giusta, che sia, ma ancora è utile.

Onde se li partecipanti nel governo sono assai, sta bene in tal caso farvi molti ordini da stati popolari, cioè, che tutti li magistrati vi si faccino per sei mesi, acciocchè tutti li cittadini ne possino partecipare. Che invero li simili non sono altro che un popolo, perchè infra questi molte volte insurgono (siccome io ho detto) i popolari capi. Ancora osservando questo gli stati stretti, e gli ottimati verranno manco a cadere in quello ultimo stato violentissimo; perchè e’ non è similmente agevole il far male da chi sta poco tempo nei magistrati, che da chi vi sta assai. E per tal cagione ancora negli stati popolari, e negli stretti nascono le tirannidi; imperocchè nell’uno stato e nell’altro i cittadini grandi se lo usurpano, quivi, dico, i popolari capi, e qui li potenti, o chi ha in mano li magistrati sommi, quando e’ gli ritengono per tempo lungo.

Salvansi adunche gli stati non solamente per essere lontani da chi gli rovina, ma certe volte ancora per esservi presso, perchè, temendo degli avversarî, e’ tengono più in mano il governo. Però debbe chi vegghia uno stato mettere qualche volta delle paure, acciocchè li cittadini guardino, e non straccurino (siccome fa una sentinella della notturna guardia) il governo, ma osservinlo con diligenza, e li pericoli lontani accingli alcuna volta appressare. Debbesi ancora sforzarsi di guardare per via delle leggi le contese, e l’ambizioni degli uomini grandi, e avvertire che quei cittadini, che non vi son dentro, non v’entrino, chè il prevedere questo male innanzi che e’ sia venuto, non è da qualsivoglia uomo, ma è da uomo saggio.

Alla mutazione, che nasce negli stati per via del censo da stato di pochi, e da republica, quando egli accade che i censi medesimi restino, se le facultà sono cresciute, sta bene di considerare tutta la quantità universale del censo, e assettare il presente censo, ch’ei si confaccia con qual del passato tempo. Perchè in certe città la descrizione del censo vi si fa ogn’anno, e nelle maggiori si fa ogni tre, o ogni cinque anni. Se la moltitudine del censo adunche è più di quella di prima, quando e’ constituirono i censi, s’usa una legge nella republica, che li censi si debbino allentare, o restrignere; cioè, se egli avanza, che ei si ristringa a proporzione di quello avanzamento, e se ei manca, che il censo s’allenti, e facciasi manco.

E in questi stati di pochi potenti, e in quelle republiche ove ciò non s’osserva, occorre che nell’un luogo vi si fa lo stato dei pochi. E nell’altro quello ultimo violentissimo d’essi pochi, e in quell’altro verso dalla republica si viene nel popolare stato, e dallo stato dei pochi potenti si viene nella republica o nel popolo. È precetto comune agli stati popolari, alle republiche, a quei dei pochi potenti, che e’ non faccino nessun cittadino tanto grande, che passi la debita proporzione, e che piuttosto s’ingegnino di dare alli cittadini onori piccioli e lunghi, che grandi, e per breve tempo. Imperocchè li grandi onori gli corrompono, e non è da ogni uomo il potere sopportare la prosperità di fortuna. E se ciò non si può osservare, osservisi almeno che chi ha loro dato onori grandissimi e spessi, non gli voglia levare poi loro tutti a un tratto, ma a poco a poco.

E ingegninsi soprattutto di guidare questa cosa per via delle leggi, di maniera che nessun cittadino avanzi troppo gli altri nè di potenze, nè di amicizie, nè di ricchezze. E s’ei non si può schifare questo, facciasi almeno che tali non vivino insieme con gli altri cittadini. E perchè il modo del vivere privato è cagione di fare cose nuove, però bisogna mettere un magistrato che vegli la vita di chi vivesse in modo disutile a quello stato; cioè che nello stato popolare non vivesse da popolo, e in quel dei pochi che non tenesse vita conveniente da tale stato, e così trascorrendo per tutti gli altri. E debbesi ancora avvertire particolarmente ciò che nella città è troppo baldanzoso, per le cagioni medesime, e il rimedio di questo male è dare sempre le faccende e li magistrati alla parte avversa. Io chiamo parti avverse i cittadini popolari, e li modesti e li poveri e li ricchi. E debbesi fare ogni opera di mescolare bene insieme nel governo li ricchi, e li poveri, o veramente è da dare riputazione alli mediocri, perchè tale cosa rompe le discordie, che nascono dalle disugualità.

In ciascuno stato è d’importanza grandissima, che e’ vi sia per via delle leggi, e dell’altre usanze ordine di maniera che delli magistrati non si tragga utile; e ciò massimamente si debbe osservare negli stati stretti. Imperocchè li cittadini popolari non hanno tanto per male d’essere proibiti dello stato (anzi l’han caro, s’ei sono lasciati attendere alle loro faccende), come egli han per male quando e’ pensino che il publico sia rubato da chi governa, che allora egli hanno due dolori, l’uno è dell’esser privati de’ magistrati, e l’altro dell’essere privati degli utili.

E in questo sol modo si può fare uno stato, che sia popolare, e da ottimati; perchè e’ ci possono avere li nobili, e li popolari ciò che brama e l’una e l’altra parte: essendo ordine popolare, che ognuno possa avere dei magistrati; e da ottimati che li nobili gli esercitino. E ciò si conseguita ogni volta che dai magistrati non si tragga utile, perchè li poveri in tal caso non ne vorranno per non v’essere utile, ma piuttosto vorranno attendere alle propie faccende, e li ricchi gli potranno esercitare per non aver bisogno di trarre utilità dal comune. Onde egli interverrà ai poveri di diventare ricchi per potere attendere alle propie faccende, e alli nobili di non essere governati dai cittadini deboli.

Quanto al guardare che il publico non sia rubato, facciasi il conto de’ danari in presenza di tutti li cittadini, e riponghinsi le cedole contrascritte nelle compagnie e nelle tribù e negli ordini. Quanto che i magistrati non sieno d’utile è da fare per legge, che gli onori si dieno ai cittadini, che si portino bene. Debbesi ancora negli stati popolari risparmiare i ricchi, non tanto col non fare comuni i lor beni, ma ancora col non fare comuni i loro frutti (la qual cosa in molti stati avviene, che e’ non se n’accorgono), anzi è meglio proibire loro ch’ei non faccino, quando e’ volessino, certe spese grosse e senza utilità; com’è feste, e giuochi, e altre simili cose.

E negli stati stretti si debbe tener cura dei poveri, e dar loro dei magistrati, onde egli abbino a trar frutto, e intervenendo, che un cittadino ricco facesse loro ingiuria, in tal caso si debbe punirlo più acerbamente, che se egli avesse ingiuriato un altro di loro. Nè le eredità si debbono poter lasciare per via di donagione, ma per via del sangue in chi elle pervengono. Nè uno debbe potere ereditarne più d’una; chè in tal modo le facoltà vengono ad essere più pareggiate, e dei poveri in tal modo più parte può diventar ricca.

Giova nello stato popolare e in quel dei pochi potenti distribuire ugualmente gli onori, o i primi gradi d’onore commettere a chi è meno partecipe di quel governo, cioè nel popolare stato commettergli ai ricchi; e in quel dei pochi ai poveri, eccetto che quei magistrati, che hanno in mano il nervo della republica, perchè tali si debbono dare solamente1 a chi è fedelissimo di quello stato, o a più d’uno, che sien tali.


Note

  1. Aux citoyens qui jouissent des droits politiques.