Trattato sull'emendazione dell'intelletto
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Traduzione e note a cura di Michele Lavazza (michele.lavazzagmail.com).
Editing e impaginazione a cura di Foglio Spinoziano (www.fogliospinoziano.it).
Copertina e grafica a cura di Federica Sforza (www.fsdesign-consulting.com, fsdesignconsultantgmail.com).
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Prima edizione 2016.
Introduzione
Il Trattato sull’emendazione dell’intelletto (Tractatus de intellectus emendatione) di Baruch Spinoza fu pubblicato per la prima volta nel 1677, pochi mesi dopo la morte dell’autore, in una duplice edizione delle opere spinoziane curata dagli amici del filosofo prematuramente scomparso: gli Opera posthuma in latino e i Nagelate Schriften in olandese.
Il testo, incompiuto, appartiene alla prima fase della produzione filosofica di Spinoza e anzi è, probabilmente, la sua prima opera. A lungo esso fu unanimemente considerato dalla critica alla stregua di un’introduzione metodologica all’Etica dimostrata con metodo geometrico (Ethica more geometrico demonstrata), immediatamente anteriore a quest’ultima quanto alla data della sua composizione; ciò almeno fino a quando, poco dopo la metà dell’Ottocento, venne riscoperta un’opera di Spinoza fino ad allora sconosciuta, il Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene (Korte Verhandeling van God, de Mensch en deszelvs Welstand). L’ipotesi del legame tra il Trattato e l’Etica, unita a considerazioni basate sulla comparazione del testo originale latino e della sua prima traduzione neerlandese, suggerì per qualche tempo che il Breve trattato fosse precedente all’altro testo giovanile di Spinoza. Tuttavia, più recentemente, analisi diverse delle due opere hanno fornito convincenti argomenti sia filologici, sia filosofici a favore della tesi che il Trattato sia effettivamente la prima opera di Spinoza.1 La sua composizione sarebbe cominciata allora tra il 1656 (l’anno in cui Spinoza fu espulso dalla comunità ebraica di Amsterdam per ragioni probabilmente legate alla sua professione di idee eterodosse) e il 1657 (quando ormai sicuramente Spinoza aveva iniziato a frequentare la scuola di latino di Franciscus Van den Enden), per essere poi interrotta verosimilmente verso il 1660, quando Spinoza abbandonò l’impresa per ricominciare da capo un’esposizione, diversamente impostata, del suo pensiero nel Breve trattato.
Come da titolo (benché questo sia dovuto agli editori, e non a Spinoza stesso) il Trattato sull’emendazione dell’intelletto si pone metodologicamente dal punto di vista di un lavoro di correzione degli errori e dei pregiudizi che, radicati nelle credenze degli uomini, impediscono loro di attingere tanto alla verità quanto – che, si vedrà, è lo stesso – al bene. L’approccio in ordine critico, seguendo il quale la verità, figlia dell’errore, risulta precisamente dalla sua correzione, è una testimonianza evidente dell’influenza su Spinoza di René Descartes; per il quale il dubbio era stato lo strumento principe di una radicale purificazione della mente da tutte le sue false convinzioni, tramite la quale diventava possibile approdare a una certezza irriducibile – quella della propria esistenza in quanto sostanza pensante – tale da poter ben fare da fondamento a un sistema metafisico. Proprio il fatto che questa via dall’errore alla verità sia stata superata da uno Spinoza più maturo (nel Breve trattato e nell’Etica) in favore di un percorso che si muove interamente nel perimetro della verità e che ha l’eliminazione degli errori come esito, non come presupposto, fa pensare che l’abbandono dell’impostazione metodologica cartesiana abbia costituito una delle principali ragioni teoretiche che determinarono l’interruzione della stesura del Trattato. D’altra parte l’idea che la verità, per dirla con le parole dell’Etica, sia «norma di se stessa e del falso» (E II, p43s) è già presente e operante in quest’opera giovanile, e si può dunque dire che quando Spinoza decise di rinunciare a sgombrare il campo dall’errore prima di attingere alla verità superò una contraddizione già latente nel Trattato stesso. Collegata a questo, anche la separazione tra Metodo e Filosofia (quasi una forma e un contenuto) che si riscontra in quest’opera verrà lascia cadere dallo Spinoza dei lavori successivi in considerazione del fatto che la verità, che è il criterio del metodo, è anche il nucleo della filosofia, e che quindi non si dà filosofia senza metodo tanto quanto non si dà metodo senza filosofia. Nell’Avvertenza al lettore anteposta all’opera dai curatori si allude anche ad altre ragioni, di ordine più pratico, che contribuirono forse alla sospensione della scrittura del Trattato.
Il testo si apre con un Prologo (§§ 1-17) di carattere in parte autobiografico nel quale, con accenti esistenziali, si descrivono i motivi della conversione alla filosofia dell’autore. Spinoza argomenta la vanità e futilità di tutte le cose che si incontrano nella vita quotidiana, e mostra come quelle realtà materiali che gli uomini considerano alla stregua di veri beni – onori, ricchezze, piaceri – sono effimere e instabili, fonte di preoccupazioni, e addirittura origine di mali che possono portare alla rovina e accelerare la morte. Volendo trovare un vero bene, attingibile e comunicabile, partecipando del quale si possa «godere in eterno di continua e perfetta felicità» (§ 1), Spinoza si risolve a tentare un mutamento radicale del suo modo di vita: si tratta di lasciarsi alle spalle quei beni apparenti, che alla prima riflessione seria si rivelano mali certi, in favore di un vero bene, che pare incerto poiché il suo conseguimento da parte degli uomini è ancora imperfetto, ma che invece è per sua natura un bene immutabile e sicuro. L’autore osserva che un oggetto è origine per noi di beni o di mali in quanto siamo vincolati a esso da un legame di amore, o saremmo rispetto a tale oggetto del tutto indifferenti (c’è qui una base importante della teoria delle passioni e della stessa etica che Spinoza andrà elaborando); per cui è preferibile, in vista di una vera felicità, rivolgere il nostro amore a un oggetto eterno e infinito anziché a ciò che è fuggevole.
Per quanto sia senz’altro un pensatore radicale, Spinoza non è però un sovversivo. Quelle cose concrete che sono appena state definite mali certi lo sono solo se vengono ricercate esclusivamente per se stesse, mentre se valgono non come fini, ma come mezzi per un fine migliore, sono necessarie e buone (anche perché in questa prospettiva verranno perseguite con moderazione). Spinoza ambisce a portare con sé molte persone lungo il proprio percorso verso il vero bene, e desidera farlo all’interno della comunità umana, non al di là di essa. Egli si preoccupa di favorire la comunicazione tra gli individui e difende la legittimità dei rapporti sociali e delle scienze, che però orienta (in quanto beni relativi) a un nuovo fine (che è il bene sommo): il raggiungimento, da parte dell’uomo, della consapevolezza di quel legame profondo e necessario che egli intrattiene con la Natura.
Ma proprio per quest’obiettivo, il «raggiungimento della somma umana perfezione», è necessario trovare «il modo di risanare l’intelletto, e purificarlo, tanto quanto all’inizio è possibile, affinché comprenda felicemente, senza errore, e insomma nel migliore dei modi» (§ 16). Da cui la delineazione del metodo che segue.
Vi è una conoscenza, quella «dell’unità tra la mente e la Natura nel suo complesso» (§ 13), che è il fine ultimo della ricerca e il vero bene a cui si desidera pervenire; e vi sono diversi modi in cui gli uomini possono, effettivamente, conoscere. Tra questi è innanzitutto da scegliere il migliore, affinché la conoscenza a cui si mira sia raggiunta e acquisita quanto più pienamente e adeguatamente. Schematicamente, nell’Esposizione generale del Metodo (§§ 18-49), Spinoza elenca quattro modi di conoscenza, cioè: l’esperienza indiretta o l’opinione ricavata per sentito dire; l’esperienza diretta ma vaga, e non determinata dall’intelletto; l’esperienza diretta dell’essenza stessa di una cosa, inferita però da qualcosa di altro da quella cosa e non in modo tale da esaurirne la conoscibilità; l’esperienza adeguata in cui di un’essenza, conosciuta per sé stessa o per tramite della sua causa prossima, diviene noto tutto ciò che è possibile conoscere. Tali modi di conoscenza sono tutti indicati con il termine perceptio, il quale, a causa della sua troppo forte eco sensista, verrà abbandonato nelle opere successive per differenziare meglio l’opinione, la ragione, l’intelletto. Tra questi il modo di conoscere migliore, che sarà lo strumento primario in vista di quella conoscenza che ci si è posti come obiettivo, è evidentemente il quarto – con qualche riserva, che si vedrà più avanti.
Ora, spiega Spinoza, il metodo per mezzo del quale diviene possibile conoscere nel modo che si è determinato come migliore non mette capo a un regresso infinito: contro ciò che egli va sostenendo si potrebbe certo obiettare che per garantire la validità di un metodo ci vorrebbe un metodo la cui validità a sua volta andrebbe in qualche modo fondata metodicamente, e così all’infinito. Ma tale obiezione non coglie nel segno, poiché gli uomini dispongono di strumenti innati grazie a cui possono sempre realizzare costruzioni intellettive, dapprima semplici, sulla base delle quali poi riescono a edificare strutture più complesse, sfruttando le quali stesse risultati sempre migliori possono essere raggiunti con sempre minor fatica. Ciò avviene in modo del tutto analogo a quanto vale per le realizzazioni materiali, dove si argomenterebbe invano l’impossibilità di costruire un martello sulla base del fatto che ci sarebbe sempre voluto un martello precedente per forgiarlo. Ma qual è la natura di questi strumenti innati? È in risposta a questa domanda che Spinoza introduce la sua teoria dell’idea vera.
L’idea, innanzitutto, differisce dal suo ideato, cioè differisce da ciò di cui è idea. L’idea di un uomo non è quell’uomo stesso, l’idea di un cerchio non è il cerchio stesso. L’idea ha, per sua natura, un carattere intelligibile, cioè può essere posseduta dall’intelletto: cosicché conoscere Pietro significa possedere intellettivamente l’idea di Pietro, ciò che è in linea di principio possibile poiché tale idea è appunto, in quanto tale, qualcosa di intelligibile. L’errore che non bisogna commettere è ritenere che per conoscere Pietro ci sia bisogno di conoscere l’idea di Pietro, il che potrebbe farsi allora solo conoscendo l’idea dell’idea di Pietro, per il che servirebbe conoscere l’idea dell’idea dell’idea di Pietro, e così senza fine. La conoscenza, posta in questi termini, sarebbe impossibile. Certo l’idea dell’idea di Pietro è un concetto sensato e un’essenza reale, ed è anche conoscibile qualora si possieda intellettivamente l’idea di essa, cioè l’idea dell’idea dell’idea di Pietro; ma ciò sarà superfluo sia al fine di conoscere Pietro, sia al fine di conoscere l’idea di Pietro, e servirà solo (se mai questo risultasse interessante) a conoscere l’idea dell’idea di Pietro.
Per conoscere è sufficiente possedere l’idea (cioè l’essenza oggettiva) di ciò che si vuole conoscere (che è un’essenza formale); e poiché per sapere non è necessario sapere di sapere, la conoscenza vera non ha bisogno d’altro che del possesso dell’idea vera; cosicché insomma «per la certezza della verità non è necessario alcun altro segno che il possesso dell’idea vera» (§ 35).
Conoscere non significa cercare, nelle idee che si possiedono, la marca della verità, ma acquisire le idee in un modo tale da garantire che si tratti di idee vere. Le idee vere, cioè adeguate, sono riconoscibili come tali alla luce della loro stessa verità, senza bisogno di altri segni. E il buon metodo è precisamente quello che conduce la mente secondo la norma dell’idea vera, così come il metodo perfettissimo è quello che conduce la mente secondo la norma dell’idea vera prima e somma, l’idea cioè dell'«Ente perfettissimo» (§ 38). Proprio l’idea vera (che l’intelletto può possedere perché l’idea, diversamente dall’ideato, è sempre per sua natura intelligibile e perché la verità dell’idea, cioè la sua adeguatezza, si manifesta con certezza) è lo strumento innato grazie al quale è possibile, metodicamente, discriminare tra il vero e il falso; e l’idea dell’ente perfettissimo consente non solo di discriminare tra il vero e il falso, ma anche di derivare logicamente la conoscenza di tutta la natura in perfetto parallelismo con il modo in cui dall’ente perfettissimo deriva tutta la natura. Tanto tale ente perfettissimo è la fonte di tutte le cose, quanto la sua idea è la fonte di tutte le idee – nel che si scorge l’origine della priorità accordata, nel Breve trattato e nell’Etica, alla conoscenza di Dio rispetto a tutte le altre conoscenze.
Per spianare la via verso la vera conoscenza, Spinoza si adopera dapprima per eliminare il rischio di confondere l’idea vera con idee finte, false o dubbie: e realizza quindi, nella Prima parte del Metodo (§§ 50-90), una classificazione delle forme dell’errore che è allo stesso tempo una loro neutralizzazione.
L’idea finta, oggetto cioè di una finzione, può avere come oggetto l’esistenza di qualcosa di cui si conosce l’essenza oppure l’essenza stessa di qualcosa (che può essere considerata isolatamente o in connessione con l’esistenza di tale cosa). Nel primo caso, che si verifica ad esempio là dove «fingo che Pietro, che conosco, vada a casa, che mi faccia visita, e cose simili» (§ 52) si potrebbe parlare di finzione d’esistenza; nel secondo, dato quando si finge «che gli alberi parlino, che gli uomini si tramutino improvvisamente in pietre o in sorgenti, che negli specchi appaiano spettri, che il nulla diventi qualcosa» (§ 58) si potrebbe parlare di finzione d’essenza. Ciò che accomuna le due modalità è che la finzione può darsi solo fin dove si estende la nostra ignoranza, poiché è impossibile fingere alcunché a proposito di ciò che si conosce: la conoscenza implica la verità, e la verità esclude la finzione. Quelle idee che sono oggetto di una conoscenza chiara e distinta, e che quindi sono vere, non ammettono per quanto le riguarda la possibilità di fingere. Sapendo intuitivamente come lo so (ovvero con il quarto genere, intellettivo, di percezione) che io penso, che Dio esiste, che l’anima non è estesa non posso in alcun modo fingere di non pensare, che Dio non esista, che l’anima sia quadrata. Gli uomini non possono fingere nulla a proposito delle «verità eterne» (§ 54), cioè necessarie; e Dio, che è onnisciente, non può fingere niente del tutto. È tanto più facile fingere quanto più è vasta la nostra ignoranza: circa l’esistenza di ciò che non è di per sé né necessario, né impossibile si può fingere solo laddove non si conoscono le cause che (deterministicamente) rendono la sua esistenza necessaria o impossibile; circa l’essenza di ciò che non è intuitivamente conoscibile in modo esaustivo, cioè di cui non abbiamo un’idea adeguata, si può appunto fingere solo nella misura in cui la nostra conoscenza è incompleta.
Lo stesso vale per l’idea falsa, che si differenzia da quella finta per il fatto di comportare un «assenso» che manca nella finzione (la quale potrebbe essere considerata un’immaginazione ipotetica nella quale non ci si impegna affermativamente). «Le idee che sono chiare e distinte non possono mai essere false» (§ 68), e si può credere o dire il falso solo di ciò che si ignora, poiché la conoscenza e la verità, che non sono altro che il possesso di idee chiare e distinte, sono la stessa cosa.
Di nuovo, il medesimo discorso può farsi sulle idee dubbie, le quali non sono mai tali per un carattere positivo che le distingue, bensì per la loro inadeguatezza. Il dubbio può insinuarsi ovunque, ma solo laddove, la mancanza di chiarezza e di distinzione di un’idea lascia libero uno spazio per qualche oscillazione: «Infatti il dubbio non è altro che la sospensione dell’animo a proposito di qualche affermazione, o negazione, che si affermerebbe, o negherebbe, se solo non intervenisse qualcosa di sconosciuto a causa del quale la conoscenza dell’oggetto di tale affermazione o negazione non può che essere imperfetta» (§ 80). Dubitare della propria conoscenza dell’idea del triangolo è possibile solo se tale idea è, almeno parzialmente, sconosciuta; e immaginare che, cartesianamente, un Dio mendace ci inganni circa la natura del triangolo o di Dio stesso o di altro è possibile solo se si ignora la natura di Dio. Il dubbio non può in alcun modo intaccare le conoscenze vere, le idee adeguate, poiché la verità illumina sé stessa e il falso e chi procede secondo il metodo, utilizzando il vero come norma e criterio e muovendosi con ordine, non incorre mai in alcuna incertezza.
In generale, l’errore non ha in sé nulla di positivo, ma «indica un difetto della nostra percezione, ovvero che abbiamo pensieri o idee mutilati e tronchi» (§ 73). L’errore dipende dalla passività della mente rispetto alle cause esterne che la influenzano, non da qualche tipo di sua attività reale; è un fatto puramente negativo, e le idee chiare e distinte sono automaticamente al riparo dal rischio di rivelarsi erronee perché, come si diceva, l’adeguatezza dell’idea (che è il carattere dell’idea non mutilata e tronca, ma tale da consentire di dedurre tutto ciò che c’è da dedurre circa il suo oggetto) coincide perfettamente con la verità, la conoscenza e la certezza.
In particolare, poi, si dà che «le idee delle cose che sono concepite in modo chiaro e distinto sono o semplicissime o composte di idee semplicissime, cioè dedotte da idee semplicissime» (§ 68). Spinoza introduce qui un importante sviluppo della sua teoria, radicato però solidamente in ciò che ha già fatto osservare – egli prosegue infatti: «Che davvero l’idea semplicissima non possa essere falsa lo potrà vedere chiunque, purché sappia cosa è il vero, ossia l’intelletto, e contemporaneamente cosa è il falso» (ibidem). Parlando di «intelletto», l’autore fa riferimento al quarto e migliore tra i generi di percezione possibili che si sono elencati nell’Esposizione generale del Metodo: si tratta di una conoscenza immediata ed esaustiva (nella quale cioè tutte le proprietà dell’oggetto vengono colte intuitivamente) che gli uomini, con la limitatezza delle loro facoltà, possono raggiungere solo relativamente di rado, e a cui tuttavia in alcuni casi possono effettivamente arrivare. Nello specifico, le idee semplicissime (non ulteriormente scomponibili) sono accolte dalla mente nella loro interezza o escluse del tutto: proprio in quanto non constano di parti, infatti, esse non possono essere percepite confusamente, ma solo essere conosciute in modo adeguato o essere del tutto ignote. Scrive Spinoza: «Poiché ogni confusione procede dal fatto che la mente conosca una cosa, unitaria o composta di molte parti, soltanto in parte, [...] se l’idea è idea di una cosa semplicissima, essa non può essere se non chiara e distinta: infatti tale cosa non può essere conosciuta in parte, ma solo totalmente o per nulla» (§ 63).
Si vede allora più precisamente come la verità, secondo quanto si era detto preliminarmente, possa fare da norma metodologica per la condotta della ricerca: a fondamento di ogni giustificazione stanno idee vere che sono conosciute certamente in quanto tali perché sono oggetto di percezioni del quarto tipo, cioè sono note intuitivamente: il che è possibile perché sono semplicissime, o scomposte nelle loro parti semplicissime, e dunque ogni loro conoscenza è esaustiva, adeguata. Sulla base di verità di questo genere è possibile costruirne altre che troveranno la loro legittimazione in qualcosa che non sono né loro stesse né le rispettive cause prossime, e si passerà cioè a edificare un sistema di conoscenze non più intuitive e immediate (anzi organizzate secondo una concatenazione discorsiva e dimostrate le une a partire dalle altre con andamento deduttivo) ma comunque (proprio perciò) ben fondate, secondo il terzo genere di conoscenza. L’esempio forse più perspicuo, e certamente significativo, di questo procedimento euristico che ricalca l’ordine epistemologico secondo cui, per Spinoza, necessariamente la conoscenza deve avanzare è la stessa Etica, il capolavoro del nostro filosofo. In quell’opera sviluppata more geometrico, infatti, a partire da idee chiare e distinte (la cui natura torneremo ancora a trattare tra poco) che sono oggetto di un’intellezione immediata l’autore dimostra dialetticamente, cioè mediatamente, teoremi e corollari. In questo sta la rivalutazione del terzo genere di conoscenza a cui si alludeva sopra: se il quarto è senza dubbio il più alto, tuttavia solo Dio potrebbe conoscere per mezzo della sua causa prossima ogni ente finito nell’infinità complessità della natura; quanto agli uomini, essi possono conoscere con il quarto genere di percezione solo poche idee relativamente semplici che poi, legittimamente, tratteranno come basi per ulteriori sviluppi deduttivi i quali, però, avranno già la forma meno nobile, benché efficace e degna, del terzo tipo di conoscenza.
Effettivamente, come nell’Etica si vedrà nel modo più chiaro e pregnante, l’idea vera prima e somma (l’idea cioè dell’ente perfettissimo che è l’origine di tutta la natura, dalla quale si può dedurre tutta la natura) è tale da poter essere compiutamente posseduta dall’intelletto e non è esposta ad alcuna possibile confusione: si tratta dell’idea dell’ente unico e infinito che esaurisce tutto l’essere e che certamente esiste. A partire da essa, con l’ausilio di altre idee conosciute con il quarto genere di percezione ma, per così dire, secondarie, Spinoza svilupperà deduttivamente una metafisica, una teoria della conoscenza, una psicologia, un’etica e una teologia.
Nell’identificare l’idea chiara e distinta con l’idea vera, Spinoza ha compiuto poi un altro passo importante. In effetti, con ciò, egli ha proposto consapevolmente una nozione di verità che si muove interamente all’interno del campo dei concetti, senza esigere una corrispondenza con qualcosa che, eventualmente, pretenderebbe di trascendere tale campo. Per dirlo con le sue parole, «per quanto riguarda ciò che costituisce la forma del vero, è certo che il pensiero vero si distingue da quello falso non tanto per la denominazione estrinseca, ma soprattutto per la denominazione intrinseca. […] Se qualcuno dice per esempio che Pietro esiste e tuttavia non sa se Pietro esiste, quel pensiero dal punto di vista di questo qualcuno è falso o, se si vuole, non è vero, anche se in verità Pietro esiste. E questa asserzione che Pietro esiste non è vera se non dal punto di vista di colui che sa per certo che Pietro esiste» (§ 69). La verità non sta in qualche sorta di corrispondenza tra idea e ideato, cioè tra il concetto e il suo oggetto; dopotutto l’oggetto non può essere conosciuto se non nella misura in cui se ne possiede l’idea, e perciò la sussistenza di una corrispondenza tra l’uno e l’altra si sottrae per principio alla possibilità di essere controllata; la verità sta bensì nell’adeguatezza dell’idea, che si misura solo in riferimento all’idea stessa ed è un criterio, si potrebbe ben dire, assoluto: «La forma del pensiero vero deve trovarsi nel medesimo pensiero stesso, senza relazione ad altro; e non riconosce l’oggetto in quanto causa, ma deve dipendere solo dalla potenza stessa dell’intelletto e dalla sua natura» (§ 71).
Come promesso bisogna ora tornare sul modo in cui, affinché l’ordine delle idee nella nostra mente riproduca nel modo più perfetto l’ordine della natura, è necessario concatenare i pensieri e svilupparli gli uni a partire dagli altri. Spinoza intraprende questa indagine nella Seconda e terza parte del Metodo (§§ 91-110).
Per ottenere il fine ultimo che ci si è proposti fin dall’inizio, egli ricorda, è necessario (come pure si è mostrato) conoscere la cosa nel migliore dei modi, cioè «per mezzo della sua sola essenza, o per mezzo della sua causa prossima» (§ 92) a seconda che rispettivamente la cosa in questione sia causa di sé oppure abbia bisogno di una causa esterna per esistere. Nell’un caso e nell’altro «la conclusione migliore dovrà essere ricavata dall’essenza affermativa di qualcosa di particolare, cioè da una definizione vera e appropriata» (§ 93). Per conoscere, insomma, bisogna esercitare i propri ragionamenti a partire da idee adeguate delle cose che sono oggetto della nostra indagine, secondo lo schema che si è già visto; ma, aggiunge ora Spinoza, tali idee devono essere particolari, adeguate puntualmente agli enti che di volta in volta prendiamo in considerazione, e devono insomma metterci in grado di dedurre a partire da una certa cosa determinata tutte le sue proprietà e tutte le sue implicazioni. Dunque ciò che ci serve come punto di partenza non è un assioma, a cui Spinoza associa l’idea di un principio valido come regola generale, anzi universale, dal quale quindi è impossibile discendere alle cose individuali, bensì una definizione della cosa stessa: «La retta via della ricerca consiste nel formare i pensieri a partire da qualche definizione data: il che procede tanto più facilmente e felicemente quanto meglio si è definita una certa cosa» (§ 94).
La definizione deve cogliere l’essenza della cosa e non le sue proprietà, poiché dalla prima è possibile dedurre le seconde mentre non può avvenire il contrario; e insomma la definizione sarà perfetta quando ci farà conoscere la causa prossima dell’oggetto definito se si tratta di una cosa creata o escluderà ogni causa se si tratta della cosa increata, e quando inoltre, che la cosa sia creata o increata, ci consentirà di dedurne tutte le proprietà. Il che di nuovo non significa altro se non che dobbiamo acquisire un’idea adeguata della cosa, che esaurisca ciò che è possibile conoscere di essa e che non lasci quindi aperto alcuno spiraglio per l’errore, poiché solo a partire da un fondamento simile (riconducibile, di nuovo, al quarto genere di conoscenza) sarà possibile costruire un sistema di altre verità ben fondate (benché a quel punto tale costruzione corrisponda invece al terzo genere di conoscenza).
Negli ultimi paragrafi che precedono la brusca interruzione del Trattato Spinoza tocca in modo rapido, e non esente da gravi criticità, diversi argomenti importanti. In primo luogo egli torna sull’importanza di ricostruire sul piano ideale il sistema di nessi causali che costituisce la trama della natura, in modo che l’ordine di questa sia riprodotto nel modo più efficace dall’ordine della mente. Poiché, tuttavia, la serie delle singole cose finite e mutevoli è infinitamente complessa ed è impossibile, per l’intelletto, da padroneggiare, e poiché d’altra parte il fatto di conoscere l’esistenza di questo tipo di enti non ci darebbe alcuna conoscenza della loro essenza (in essi infatti, in quanto finiti e mutevoli, l’esistenza e l’essenza non sono collegate) non è ad essi che deve rivolgersi la nostra attenzione. Al contrario, la conoscenza dell’essenza delle cose, che è ciò che ci interessa, va tratta da ciò che vi è di fisso e di eterno in questa «serie delle cause e degli enti reali» (§ 100) che abbiamo preso in esame in quanto manifestazione dell’ordine della natura: si tratta delle «leggi […] secondo le quali tutte le cose singole avvengono e sono ordinate» (§ 101). Tali leggi, che ovunque e in ogni modo regolano la natura, sono effettivamente fisse ed eterne e possono essere considerate universali, e rendono quindi disponibili strumenti intelligibili (Spinoza parla di «generi») molto potenti al fine di definire e conoscere tramite la loro causa prossima le cose singole mutevoli. Di questo programma però l’autore evidenzia subito le difficoltà: se è impossibile conoscere l’essenza delle cose a partire dal semplice dato della loro esistenza, è impossibile anche dedurre l’esistenza nel tempo delle cose mutevoli a partire da leggi eterne che si collocano fuori dal tempo. Benché egli rimandi indefinitamente almeno parte della soluzione a questo problema, Spinoza ribadisce che gli «esperimenti» di cui ci si può avvalere come ausili per determinare la causa prossima di una cosa, e dunque in ultimo conoscere le leggi a cui obbedisce, devono rispettare i criteri metodologici già stabiliti, cioè il fatto di procedere secondo la norma dell’idea vera fin dove le forze dell’intelletto lo consentono.
Infine, Spinoza affronta la problematica della natura e della definizione dell’intelletto e della conoscenza delle sue forze, necessaria per sapere fino a che punto è possibile spingersi nella propria ricerca del vero e del bene. Il passaggio però è profondamente problematico, poiché Spinoza afferma prima che la conoscenza della natura e della definizione dell’intelletto è necessaria e preliminare al fine di produrre una qualsiasi altra definizione adeguata, e che dunque dovrebbe essere una conoscenza data per sé; e poi sostiene che invece essa non è data per sé, e che dunque dovrebbe essere dedotta dalle proprietà dell’intelletto che sono note in modo chiaro e distinto, benché si sia detto poco sopra che non è possibile dedurre l’essenza dalle proprietà, ma solo il contrario. Nei paragrafi conclusivi l’elenco delle proprietà dell’intelletto non fa che mostrare l’equivocità del termine, con cui si può indicare ora il quarto genere di conoscenza, ora il terzo, ora la facoltà umana del pensiero che in altri contesti va sotto il nome di «mente».
Per una ripresa di questi temi, benché in una chiave in gran parte diversa, con una nuova impostazione e con una terminologia in parte aggiornata, così come per la soluzione delle questioni rimaste senza risposta nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto, bisogna spostare la propria attenzione sui testi successivi, in cui Spinoza affronta gli stessi problemi servendosi delle basi gettate in quest’opera e superandole.
MICHELE LAVAZZA
Nota editoriale
La traduzione è stata condotta sul testo latino stabilito da Carl Gebhardt nell’edizione critica Spinoza Opera pubblicata da Carl Winter, Heidelberg 1925. La divisione in paragrafi dell’opera (composta di per sé come un testo continuo, senza scansioni interne) segue quella inizialmente proposta da Carl Hermann Bruder nell’edizione Benedicti de Spinoza Opera, Bernh. Tauchnitz jun., Lipsia 1843-46 e ormai generalmente accettata. Per i titoli delle sezioni e delle sottosezioni si è seguita la traduzione curata da Andrea Sangiacomo per l’edizione di Tutte le opere di Spinoza pubblicata da Bompiani, Milano 2011. Le espressioni tra parentesi angolate sono le integrazioni suggerite da Gebhart sulla base del confronto delle fonti. Si è rispettato l’uso delle maiuscole, a volte apparentemente ridondante, del testo originale. Le note indicate con lettere dell’alfabeto sono di Spinoza; le altre, segnalate dalla sigla N.d.T., sono invece del traduttore, così come sono dovute al traduttore alcune annotazioni, pure segnalate con N.d.T., collocate tra parentesi quadre accanto alle note di Spinoza.
Avvertenza al lettore2
Questo trattato sull’Emendazione dell’Intelletto che qui ti consegniamo incompiuto, Benevolo Lettore, fu scritto dall’autore ormai molti anni fa. Egli ebbe sempre in animo di portarlo a termine; ma, assorbito da altri impegni, e infine portato via dalla morte, non poté condurlo al fine desiderato. Poiché però contiene molte cose eccellenti e utili che al sincero indagatore della Verità non potranno che essere di grande vantaggio, siamo stati subito sicuri di non volertene privare; e, affinché tu non fatichi troppo a perdonare le pur molte parti oscure, e inoltre grezze e non limate, che in esso qua e là occorrono, volendo che tu di esse non fossi ignaro, abbiamo fatto in modo di informartene. Sta' bene.
[1. Prologo]
[a. Conversione alla filosofia e ricerca del vero bene]
[1] Dopo che l’Esperienza mi ebbe insegnato che tutte le cose che accadono normalmente nella vita comune sono vane e futili; e quando ebbi visto che tutto ciò che temevo e che generava in me inquietudine non aveva niente di buono né di malvagio in sé, ma solo in quanto l’animo ne era agitato; decisi infine di indagare se si desse qualcosa che fosse il vero bene, che fosse attingibile di per sé, e da cui solo, abbandonati tutti gli altri, l’animo potesse essere affetto; e insomma se si desse qualcosa per mezzo del quale, una volta trovatolo e raggiuntolo, potessi godere in eterno di continua e perfetta felicità. [2] Dico che decisi infine: a prima vista infatti sembrava incauto voler abbandonare una cosa certa per una allora incerta: vedevo senza dubbio gli agi che derivano dagli onori e dalle ricchezze, e che a essi ero costretto a rinunciare se volevo impegnarmi seriamente in qualcosa di nuovo e diverso: e se per caso la somma felicità fosse stata in essi, mi rendevo conto, essa sarebbe venuta a mancarmi; d’altronde, se essa non si fosse trovata in essi, e ad essi io mi fossi soltanto dedicato, allora la somma felicità sarebbe venuta a mancarmi ugualmente. [3] Riflettevo dunque nel mio animo se fosse in qualche modo possibile pervenire a un nuovo proposito, o almeno alla certezza di stabilirne uno, pur senza mutare l’ordine e il proposito stesso della mia vita consueta; ciò che tentai spesso di fare, invano. Infatti, tra le cose che si concretizzano nella vita dei più, quelle che presso gli uomini, da quanto si può dedurre dai loro comportamenti, vengono considerate alla stregua del sommo bene si riducono a queste tre: le ricchezze, gli onori e i piaceri sensibili. Da esse la mente è a tal punto assorbita che può a mala pena pensare a qualche altro bene. [4] Infatti ciò che riguarda i piaceri lascia l’animo a tal punto sospeso, come se riposasse in un vero bene, che esso è del tutto incapace di pensare ad altro; ma, dopo la fruizione di tali piaceri, subentra una somma tristezza che, se non tiene altrettanto in sospeso la mente, tuttavia la turba e inebetisce.
Anche perseguendo gli onori e le ricchezze3 la mente è non poco distratta, e soprattutto quando essi, identificati con il sommo bene, non sono ricercati se non per sé; [5] la mente invero è assorbita dagli onori ancora molto di più: si ritiene infatti sempre che essi siano buoni di per sé, ed essi sono considerati come fini ultimi verso cui tutto deve tendere. Inoltre a onori e ricchezze non è associata, come ai piaceri sensibili, una penitenza; bensì a colui che possiede la maggior quantità di entrambi spetta tanto maggiore felicità, e di conseguenza siamo sempre più incoraggiati a incrementarli entrambi: e se le nostre speranze risultano in qualche modo frustrate, ciò è causa di grande tristezza.
La ricerca degli onori è insomma di grande intralcio poiché, per ottenerli, la vita deve necessariamente essere condotta secondo le abitudini dei più, evitando quello che evita il volgo, cercando quello che il volgo cerca.
[6] E così, vedendo come tutto ciò era di grande ostacolo al tentativo di dare a chiunque un nuovo modo di vita, e che addirittura a tal punto si opponeva a questo disegno da rendere necessario escludere una delle due vie, fui costretto a indagare quale fosse la più utile; infatti, come dicevo, mi sembrava di rinunciare a un bene certo per uno incerto. Ma dopo che ebbi appena un poco iniziato ad addentrarmi in questa ricerca, trovai prima di tutto che se, trascurando quelle cose, mi fossi accinto ad assumere un nuovo modo di vivere, avrei abbandonato un bene per sua natura incerto, come chiaramente possiamo dimostrare, per uno incerto, sì, ma non per sua natura (cercavo infatti un bene immutabile), bensì solamente quanto alla sua acquisizione. [7] E con riflessioni assidue giunsi a concludere che, al contrario, solo e appena fossi riuscito a risolvermi in modo radicale mi sarei lasciato alle spalle mali certi per un bene certo. Mi vedevo infatti correre un enorme pericolo, e costretto a cercare con tutte le mie forze un rimedio per quanto incerto; come il malato che soffre di un morbo mortale, che quando prevede una fine certa se non viene applicato un rimedio, è costretto a cercarlo con tutte le forze, per quanto sia incerto, poiché in esso sono riposte tutte le sue speranze. Mentre tutte le cose che il volgo insegue non solo non costituiscono in alcun modo un rimedio al fine di conservare la nostra esistenza, ma anzi ostacolano il raggiungimento di quest’obiettivo: spesso sono la causa della rovina di coloro che le possiedono <(se si può dire così)>, e sempre sono la causa della rovina di coloro che ne sono posseduti.4 [8] Esistono moltissimi esempi di persone che hanno patito terribili sofferenze e sono giunte persino alla morte a causa delle proprie ricchezze, e anche di persone che, per procurarsi beni, si sono esposte a tanti pericoli da pagare con la vita il fio della loro stoltezza. Né sono meno gli esempi di coloro che, per inseguire gli onori o difenderli, hanno patito nel modo più misero. Infine ci sono innumerevoli casi di persone che a causa della sfrenata dissolutezza hanno avvicinato la propria morte. [9] Sembrava poi che questi mali fossero sorti dal fatto che tutta la felicità, o infelicità, dipende unicamente dalla qualità dell’oggetto a cui per amore siamo attaccati: infatti a causa di ciò che non è amato non nasceranno mai liti, non vi sarà alcuna tristezza se scomparisse né invidia se fosse posseduto da altri, nessun timore, nessun odio, e, per dirlo in una parola, nessun movimento dell’animo; tutte queste cose infatti riguardano l’amore di ciò che può trapassare, così come tutto ciò di cui abbiamo parlato. [10] Ma l’amore nei confronti di qualcosa di eterno e infinito nutre l’animo di pura felicità e per mezzo di essa sola tutta la tristezza è dissipata; il che è da desiderarsi intensamente e da perseguire con tutte le forze. Invero non senza ragione ho usato queste parole: solo riuscendo a risolvermi in modo radicale. Infatti benché tutto questo mi fosse molto chiaro, non avrei tuttavia potuto perciò soltanto abbandonare ogni desiderio di ricchezza, di piaceri sensibili e di onori.
[b. Determinazione del fine ultimo e regole di vita]
[11] Vedevo solamente questo: che, fintantoché la mia mente si dedicava a pensieri come questi, essa era volta altrove rispetto alle vecchie cure e rifletteva seriamente su un nuovo modo di vita; il che mi fu di grande conforto. Infatti vedevo che quei mali non erano di natura tale da non ammettere alcuna soluzione. E benché inizialmente questi momenti di serenità fossero rari, e durassero per intervalli di tempo estremamente esigui, tuttavia man mano che il vero bene mi si rivelava maggiormente questi intervalli si fecero più frequenti e più prolungati – soprattutto quando ebbi compreso che l’acquisizione di denaro, o la sregolatezza, o la sete di gloria nuocciono solo fintantoché sono ricercate per se stesse e non in quanto mezzo per altri scopi; se infatti sono ricercate in vista di altro, allora sono perseguite con moderazione e non nuocciono per nulla, anzi molto favoriscono il raggiungimento dello scopo per cui sono ricercate, come mostreremo a tempo debito.
[12] Ora dirò solamente, in breve, cosa intenderò per “vero bene”, e allo stesso tempo cosa sia il sommo bene. Affinché ciò sia correttamente compreso, bisogna notare che il bene e il male si definiscono solo in riferimento l’uno all’altro, e che la stessa cosa può essere detta buona o cattiva a seconda dei punti di vista; e lo stesso vale per la perfezione e l’imperfezione. Niente, infatti, che sia considerato quanto alla sua sola natura, è detto perfetto o imperfetto; e a maggior ragione quando avremo visto che tutte le cose che accadono obbediscono a un ordine eterno e alle leggi certe della Natura. [13] Poiché invece la debolezza degli uomini non segue nelle sue riflessioni quest’ordine naturale, e nel frattempo l’essere umano concepisce una certa altra natura umana ben più forte della sua e, contemporaneamente, non vede niente che gli impedisca di raggiungerla, è spinto a cercare dei mezzi che lo conducano a tale perfezione: e tutto ciò che può fungere da mezzo per pervenire a questo scopo viene chiamato vero bene. Ma il sommo bene sta appunto nel raggiungerlo, affinché costui, insieme ad altri individui, se ciò è possibile, goda di tale natura. Quale mai sia tale natura, e come essa coincida senz’altro con la conoscenza5 dell’unità tra la mente e la Natura nel suo complesso, sarà mostrato a suo luogo. [14] Qui sta dunque lo scopo a cui tendo, raggiungere cioè questa natura, e tentare di far sì che molti la raggiungano con me; cioè la mia felicità dipende anche dal mio adoperarmi affinché molti altri, come me, capiscano, affinché il loro intelletto, e inoltre la loro volontà, convengano con il mio intelletto e la mia volontà. E affinché questo accada, è necessario6 <prima di tutto> comprendere della Natura tanto quanto è sufficiente per acquisire quella natura; quindi formare una società, come è da desiderare, tale da rendere per quanti più possibile quanto più facile e sicuro pervenire a questo risultato. [15] Poi<, in terzo luogo,> bisogna adoperarsi per il progresso della Filosofia Morale, e per la Dottrina dell’Educazione dei bambini; e, poiché la salute è un mezzo non trascurabile al fine di raggiungere quello scopo, sono da coltivare <in quarto luogo> tutti gli aspetti della Medicina; e poiché molte cose difficili sono rese facili dalla tecnica, e per mezzo di essa possiamo guadagnare molto in tempo e in comodità di vita, <in quinto luogo> la Meccanica non è in alcun modo da trascurare. [16] Ma prima di tutto va escogitato il modo di risanare l’intelletto, e purificarlo, tanto quanto all’inizio è possibile, affinché comprenda felicemente, senza errore, e insomma nel migliore dei modi. Da ciò, chiunque ha già potuto vedere che io voglio dirigere tutte le scienze a un unico fine7 e scopo, che è il raggiungimento della somma umana perfezione di cui abbiamo parlato; e così tutto ciò che nelle scienze non ci fa procedere verso il nostro fine e scopo sarà da evitare in quanto inutile; cioè, per dirlo in una parola, tutte le nostre azioni, così come tutti i nostri pensieri, devono essere dirette a questo fine. [17] Ma poiché, mentre ci impegniamo per raggiungere questo obiettivo, e ci adoperiamo affinché l’intelletto sia ricondotto sulla retta via, bisogna vivere, prima di tutto siamo costretti ad ammettere come buone alcune regole di vita – e cioè queste.
1. Parlare secondo le capacità del popolo, e mettere in atto tutti gli accorgimenti che evitino di ostacolare il raggiungimento del nostro scopo. Infatti da esso possiamo ottenere non pochi vantaggi, solo concedendo al suo livello di intendimento tutto ciò che è possibile; si aggiunga a questo che in tal modo essi presteranno volentieri orecchio per ascoltare la verità.
2. Godere dei piaceri tanto quanto basta a preservare la salute.
3. Infine, cercare di denaro, e di qualunque altra cosa, solo tanto quanto è sufficiente a supplire alle necessità della vita, della salute e dei costumi civili che non contrastano con il nostro scopo.
[2. Esposizione generale del Metodo]
[a. I modi della conoscenza e la determinazione del migliore]
[18] Posto così tutto questo, mi accingerò a fare ciò che viene prima di tutto, cioè a emendare l’intelletto e a renderlo capace di comprendere le cose nel modo che è più adatto affinché noi possiamo conseguire il nostro scopo. Affinché questo avvenga, l’ordine che naturalmente dobbiamo seguire esige che ora io riassuma tutti i modi di percepire che fino a qui ho avuto a disposizione per affermare, o negare, qualcosa in modo indubbio, e che tra tutti questi io scelga il migliore; e, allo stesso tempo, che io cominci a conoscere le mie forze e la natura che desidero perfezionare.
[19] Se studio la cosa accuratamente, risulta che tali modi di percepire possono essere ridotti principalmente a quattro.
1. Vi è la Percezione che abbiamo dal sentito dire o da qualche altro segno che viene chiamato a piacere.
2. Vi è la Percezione che abbiamo dall’esperienza vaga, cioè dall’esperienza non determinata dall’intelletto; ma si dice così solo poiché qualcosa accade per caso e non abbiamo alcun esperimento che si opponga a tale avvenimento, e allora provvisoriamente esso resta tenuto tra noi per indiscusso.
3. Vi è la Percezione in cui l’essenza di una cosa viene dedotta da un’altra cosa, ma non in modo adeguato; il che avviene quando o concludiamo da qualche effetto a una causa o quando concludiamo da qualcosa di universale che esso si accompagna sempre a una qualche proprietà.8
4. Infine vie è la Percezione in cui una cosa è percepita per la sua sola essenza o per conoscenza della sua causa prossima.
[20] Illustrerò tutto questo con degli esempi. Conosco il giorno della mia nascita solo per sentito dire, e poiché ebbi tali genitori, e per ragioni simili; delle quali non ho mai dubitato. Per esperienza vaga so che morirò: e dico così perché ho visto che altri miei simili sono morti, benché non tutti abbiano vissuto per la stessa durata di tempo e non tutti siano morti per gli stessi mali. Inoltre so per esperienza vaga anche che l’olio è un alimento adatto a nutrire la fiamma, e che l’acqua è adatta a spegnerla; e so pure che il cane è un animale che latra, l’uomo un animale che ragiona, e così conosco quasi tutte le cose che fanno parte della vita quotidiana. [21] In questo modo da una cosa invero diversa concludiamo che, poiché percepiamo chiaramente che sentiamo un certo corpo e nessun altro, allora, dico, deduciamo chiaramente che l’anima è unita al corpo, e che tale unione è la causa di tale sensazione;9 ma da ciò non possiamo comprendere assolutamente la natura di questa stessa sensazione e di quest’unione.10
O anche, dopo che abbiamo conosciuto la natura della vista e quindi abbiamo imparato che essa ha una proprietà tale che una e la stessa cosa appare più piccola quando è vista da distanza maggiore rispetto a quando la vediamo da vicino, da ciò concludiamo che il Sole è più grande di come appare, e altre cose simili a questa. [22] Infine, la cosa può venire percepita per la sua sola essenza; come quando, per il fatto di conoscere qualcosa, so cosa significhi conoscerla; oppure quando, per il fatto di conoscere l’essenza dell’anima, so che essa è unita al corpo. Con lo stesso tipo di conoscenza sappiamo che due e tre fanno cinque, e che se si danno due linee entrambe parallele a una terza esse sono anche parallele tra loro, eccetera. Tuttavia, le cose che finora ho potuto comprendere in questo modo sono pochissime.
[23] Ma affinché tutto questo venga meglio compreso, userò solamente un unico esempio, cioè questo. Siano dati tre numeri: si chiede quale sia il quarto che sta al terzo come il secondo sta al primo. I mercanti qui dicono senza riflettere di sapere cosa si debba fare per trovare il quarto, poiché certamente non hanno dimenticato quell’operazione che udirono nuda e senza dimostrazione dai loro maestri; altri invece traggono dall’esperienza dei casi semplici un assioma universale, cioè dai casi in cui il quarto numero è di per sé evidente, come nella sequenza 2, 4, 3, 6, dove vedono che moltiplicato il secondo per il terzo e poi diviso il prodotto per il primo si ottiene il quoziente 6; e quando vedono che risulta lo stesso numero che, anche senza questa operazione, sapevano essere proporzionale, da ciò concludono che il procedimento sia adatto a trovare sempre il quarto numero proporzionale. [24] Ma i Matematici, in forza della dimostrazione della Proposizione 19 del libro 7 di Euclide, sanno quali numeri sono tra loro proporzionali, cioè a partire dalla natura della proporzione e dalle sue proprietà sanno senz’altro che il numero che risulta dal prodotto del primo e del quarto è uguale a quello che risulta dal prodotto del secondo e del terzo; e tuttavia non vedono la proporzionalità adeguata dei numeri dati, e se la vedono non è grazie a quella Proposizione euclidea, ma intuitivamente, <cioè> senza svolgere alcuna operazione.11 [25] Dunque, affinché tra questi venga scelto il miglior modo di percepire, si richiede che noi enumeriamo brevemente i mezzi necessari per raggiungere il nostro scopo, che sono i seguenti.
1. Conoscere esattamente la nostra natura, che desideriamo perfezionare, e allo stesso tempo tanto della Natura in generale quanto è necessario.
2. Pervenire, poi, a enumerare correttamente le differenze, le convergenze e le opposizioni tra le cose.
3. Concepire rettamente cosa possa essere ammesso e cosa no.
4. Confrontare tutto questo con la natura e le capacità dell’uomo. E da ciò apparirà facilmente la somma perfezione a cui l’uomo può giungere.
[26] Considerando così queste cose, vediamo quale modo di percepire dobbiamo scegliere.
Per quanto riguarda il primo. È di per sé evidente che tramite il sentito dire, oltre al fatto che si tratta di un modo di conoscere quantomai incerto, non percepiamo nulla dell’essenza della cosa, così come è chiaro dal nostro esempio; e poiché, come poi si vedrà, non si conosce l’esistenza di una cosa singola se non se ne conosce l’essenza, da ciò concludiamo con chiarezza che che ogni sicurezza che traiamo dal sentito dire dev’essere bandita dal campo delle scienze. Infatti il semplice sentir dire qualcosa, laddove esso non sia preceduto da una comprensione appropriata, non può mai convincere nessuno.
[27] Per quanto riguarda il secondo.12 Bisogna dire che non vi è nessuno che abbia grazie ad esso un’idea di quella proporzione che cerca. Oltre al fatto che si tratta di un modo di conoscere quantomai incerto, e senza determinazione precisa, niente si coglie mai grazie ad esso di ciò che appartiene alle cose della natura se non gli accidenti, e queste non sono mai comprese chiaramente a meno che non siano già note. Per il che anch’esso dev’essere escluso.
[28] Del terzo invece bisogna in qualche modo dire che abbiamo, per suo tramite, un’idea della cosa, e che quindi in accordo con esso traiamo conclusioni senza pericolo di errore; e tuttavia non sarà per sé questo il mezzo con cui acquisiremo la nostra perfezione.
[29] Solo il quarto modo comprende l’essenza della cosa adeguatamente e senza pericolo d’errore, e perciò dovrà essere per noi il principale. Ci occuperemo dunque di spiegare in che modo debba essere usato affinché cose ignote vengano da noi comprese per mezzo di tale tipo di conoscenza e, allo stesso tempo, di far sì che ciò avvenga quanto più concisamente possibile.
[b. L’idea vera e il metodo come conoscenza riflessiva]
[30] Dopo aver compreso quale tipo di Conoscenza sia per noi necessario, bisogna insegnare la Via e il Metodo per mezzo del quale le cose che vogliamo conoscere possano venir da noi conosciute in questo modo. E per far ciò, c’è prima di tutto da considerare che qui non si darà una ricerca tale da spingersi avanti fino all’infinito: cioè per trovare il Metodo migliore per investigare il vero non è necessario un altro Metodo affinché il Metodo dell’indagine sia a sua volta investigato; e, per investigare il secondo Metodo, non ne serve un terzo, e così via: infatti in tal modo non si perverrebbe mai a una vera conoscenza, bensì a nessuna conoscenza. Questo sta come per gli strumenti materiali, come si può argomentare in modo del tutto analogo. Infatti, affinché il ferro sia battuto, è necessario il martello, e per avere il martello bisogna costruirlo; per il che servono un altro martello e ulteriori strumenti, per avere i quali anche servono altri strumenti, e così via all’infinito; ma in questo modo si tenterebbe invano di provare che gli uomini non hanno alcuna possibilità di battere il ferro. [31] Al contrario, così come gli uomini all’inizio furono capaci, benché con fatica, di fare alcune cose semplicissime con gli strumenti che erano loro innati, e realizzate queste poterono farne altre più difficili con minor fatica e maggior perizia, e così passando gradualmente da manufatti semplicissimi a strumenti e da strumenti ad altri manufatti e ad altri strumenti, pervennero a costruire con poco sforzo cose estremamente difficili in gran numero; così anche l’intelletto con la forza che gli è innata13 si costruisce degli strumenti di ragionamento, grazie ai quali acquisisce altre forze per altre opere intellettuali,14 e grazie a queste altri strumenti, ovvero la capacità di spingere più oltre la sua indagine, e così gradualmente procede fino al momento in cui raggiunge il culmine della sua sapienza. [32] Che l’intelletto si comporti così sarà facile a vedersi appena si sia compreso qual è il Metodo della ricerca della verità e quali sono quegli strumenti innati dei quali soltanto l’intelletto stesso ha bisogno per realizzare grazie ad essi altri mezzi per progredire oltre. Per mostrare questo, procedo così.
[33] L’idea vera15 (abbiamo infatti idee vere) è qualcosa di diverso dal suo ideato: infatti una cosa è il cerchio, un’altra l’idea del cerchio. L’idea del cerchio non è qualcosa che ha una periferia e un centro come li ha il cerchio. E l’idea del corpo non è il corpo stesso. E poiché l’idea è qualcosa di diverso dal suo ideato, sarà anche qualcosa di intelligibile di per sé; cioè l’idea, quanto alla sua essenza formale, può essere l’oggetto di un’altra essenza oggettiva,16 e a sua volta quest’altra essenza oggettiva sarà anche in sé vista come qualcosa di reale e intelligibile; e così indefinitamente. [34] Per esempio, Pietro è qualcosa di reale; mentre la vera idea di Pietro è l’essenza oggettiva di Pietro, che è qualcosa di reale in sé e di completamente diverso da Pietro stesso. Poiché dunque l’idea di Pietro è qualcosa di reale che ha la sua specifica essenza, sarà anche qualcosa di intelligibile, cioè sarà l’oggetto di un’altra idea, la quale avrà in sé oggettivamente tutto ciò che appartiene formalmente all’idea di Pietro, e a sua volta l’idea che è l’idea di Pietro ha di nuovo la sua essenza, che pure può essere oggetto di un’altra idea, e così indefinitamente. E questo può essere esperito da chiunque osservi di sapere che cosa è Pietro, e anche di sapere di saperlo, e ancora di sapere di sapere che sa, eccetera. Dal che è chiaro che, per comprendere l’essenza di Pietro, non è necessario comprendere l’idea stessa di Pietro, né tanto meno l’idea dell’idea; il che è lo stesso che se dicessi che non è necessario, per sapere, il sapere di sapere, e ancor meno è necessario sapere di sapere che so; così come per comprendere l’essenza del triangolo è inutile comprendere l’essenza del cerchio.17 Vale però il contrario: per sapere di sapere, infatti, devo prima di tutto sapere. [35] Da tutto questo è evidente che la certezza di qualcosa non è altro che la stessa essenza oggettiva, cioè il modo in cui percepiamo l’essenza formale è la certezza stessa. Da cui ancora è evidente che per la certezza della verità non è necessario alcun altro segno che il possesso dell’idea vera: infatti, come abbiamo mostrato, non serve affinché io sappia che io sappia di sapere. E da ciò a sua volta è evidente che nessuno può sapere cosa sia la somma certezza se non chi possieda l’idea adeguata o l’essenza oggettiva di qualche cosa; proprio perché la certezza e l’essenza oggettiva sono la stessa cosa. [36] Poiché dunque la verità non ha bisogno di alcun segno, e poiché al contrario affinché sia eliminato ogni dubbio è sufficiente avere le essenze oggettive delle cose, o, che è lo stesso, le idee, da ciò segue che il Metodo veridico non sta nel cercare un segno della verità dopo l’acquisizione delle idee, bensì consiste in quella via per cui la verità stessa, o le essenze oggettive delle cose, o le idee (tutte queste cose vogliono dire lo stesso) vengono cercate con un sistema opportuno.18 [37] A sua volta il Metodo deve necessariamente parlare del Ragionamento, o dell’intellezione; cioè il Metodo non è esso stesso il ragionare per comprendere le cause degli eventi, e ancor meno è il conoscere le cause degli eventi; è, bensì, il comprendere cosa sia l’idea vera, distinguendola dalle altre percezioni e investigando la sua natura, affinché da ciò conosciamo la nostra capacità di intellezione e costringiamo la mente a comprendere secondo quella norma tutte le cose che vogliamo comprendere; usando come aiuti certe regole e anche facendo in modo che la mente non sia affaticata da cose inutili. [38] Da ciò si conclude che il Metodo non è altro se non la conoscenza riflessiva, ossia l’idea dell’idea; e poiché non si dà idea dell’idea se non è prima data l’idea, non si dà Metodo se non è data prima l’idea. Perciò il buon Metodo sarà quello che mostra come bisogna dirigere la mente secondo la norma di una data idea vera. Inoltre, poiché il rapporto che sussiste tra due idee è uguale al rapporto che sussiste tra le essenze formali di quelle idee, ne segue che la cognizione riflessiva dell’idea dell’Ente perfettissimo sarà più eccellente della cognizione riflessiva delle altre idee; cioè, sarà perfettissimo quel Metodo che mostra come bisogna dirigere la mente secondo la norma dell’idea data dell’Ente perfettissimo.
[39] Si capisce facilmente, sulla base di tutto questo, in che modo la mente, comprendendo molte cose, allo stesso tempo acquisisca altri strumenti tramite i quali proseguire più facilmente nel comprendere. Infatti, come si può dedurre da quanto si è detto, deve prima di tutto esistere in noi un’idea vera, come strumento innato, compresa la quale venga compresa allo stesso tempo la differenza che esiste tra quella conoscenza e tutte le altre. In questo consiste una parte del Metodo. E poiché è di per se chiaro che la mente comprende tanto meglio se stessa quante più cose comprende della Natura, questa parte del Metodo sarà tanto più perfetta quante più cose la mente comprende, e sarà dunque perfettissima allorquando la mente riflette e si dedica alla conoscenza dell’Ente perfettissimo. [40] Quindi, quante più cose la mente conosce, tanto meglio comprende sia le sue forze sia l’ordine della Natura: mentre quanto meglio comprende le sue forze, tanto più facilmente può dirigere se stessa e darsi delle regole; e quanto meglio comprende l’ordine della Natura, tanto più facilmente può tenersi lontana dalle cose inutili; in tutto ciò consiste il Metodo, come dicevamo. [41] Si aggiunga a questo che alle stesse condizioni l’idea è oggettiva e il suo ideato reale. Se dunque si desse qualcosa in Natura tale da non avere alcuna relazione con qualcos’altro, se anche si desse di esso l’essenza oggettiva, che dovrebbe corrispondere perfettamente con l’essenza formale, allora anche questa non avrebbe alcuna relazione con altre idee,19 cioè non potremmo <conoscere né> concludere nulla a proposito di essa; e al contrario, le cose che hanno relazione con altre, come tutte quelle che esistono in Natura, verranno comprese e le loro essenze oggettive avranno la stessa relazione, cioè altre idee potranno essere dedotte da esse, che a loro volta avranno relazione con altre, e così cresceranno gli strumenti per procedere ulteriormente. Il che è ciò che tentavamo di dimostrare. [42] Infine da quest’ultima cosa che abbiamo detto, cioè che l’idea deve corrispondere perfettamente con la sua essenza formale, risulta evidente a sua volta che, affinché la nostra mente imiti perfettamente il modello della Natura, essa deve produrre tutte le sue idee a partire da quella che imita l’origine e la fonte di tutta la Natura, così che questa sia la sorgente delle altre idee.
[43] Qui forse qualcuno si meraviglierà che noi, nello stesso luogo in cui abbiamo detto che il buon Metodo è quello che mostra in che modo la mente debba essere diretta secondo la norma di una data idea vera, lo proviamo anche con il ragionamento: il che sembra mostrare che ciò non è noto di per sé. E ci si potrebbe persino chiedere se ragioniamo bene. Se ragioniamo bene, dobbiamo cominciare da un’idea data, e poiché cominciare da un’idea data richiede la dimostrazione di essa, dovremmo daccapo provare la bontà del nostro ragionamento, e questa a sua volta con un altro ragionamento, e così all’infinito. [44] Ma a questo rispondo che se per un caso qualcuno avesse proceduto così indagando la Natura (cioè acquisendo altre idee, nell’ordine opportuno, secondo la norma di una data idea vera) non avrebbe mai dubitato della sua verità,20 poiché la verità stessa come abbiamo mostrato si palesa, e inoltre tutte le cose a costui sarebbero venute spontaneamente. Ma poiché questo non capita mai, o capita raramente, sono stato costretto a metterla in quel modo, affinché ciò che non possiamo acquisire per caso lo acquisiamo tramite un disegno ponderato, e allo stesso tempo affinché risultasse evidente che per provare la verità e la bontà del ragionamento non ci servono altri strumenti che la stessa verità e il buon ragionamento. Infatti ho provato e ancora mi sforzo di provare la bontà del ragionamento con il buon ragionamento. [45] Si aggiunga che in questo modo, oltretutto, gli uomini si abituano alle riflessioni introspettive. Mentre la ragione per cui raramente la ricerca si indirizza verso la Natura affinché essa sia indagata con un ordine opportuno sta in pregiudizi le cause dei quali spiegheremo più tardi nella nostra Filosofia; e nel fatto che è necessario fare importanti e accurate distinzioni, come mostreremo, il che è molto difficile; e infine nello stato delle cose umane, che, come abbiamo già mostrato, è estremamente mutevole; oltreché in altre ragioni, che non indaghiamo.
[46] Se qualcuno per caso chiedesse perché io abbia esposto in questo ordine, subito e prima di tutto, le verità della Natura – non si manifesta infatti la verità da se stessa? – a costui risponderei, e allo stesso tempo lo ammonirei, che non voglia rigettare la mia teoria in quanto falsa a causa dei risultati controintuitivi che, per caso, capitano qua e là; ma che prima si degni di considerare l’ordine per mezzo del quale l’abbiamo dimostrata, e allora risulterà certo che noi abbiamo raggiunto la verità; e questo è il motivo per cui l’ho premessa.
[47] Se poi per caso qualche Scettico rimanesse ancora dubbioso sia di questa prima verità, sia di tutte le cose che secondo la norma di essa dimostreremo, certamente egli o parlerebbe in cattiva fede, o noi ammetteremmo che ci sono uomini accecati nel più profondo dell’animo fin dalla nascita, o a causa di pregiudizi (cioè per qualche caso esterno). Infatti costoro non hanno coscienza neanche di se stessi: se affermano, o dubitano, qualcosa, non sanno di dubitare o di affermare: dicono di non sapere nulla; e dicono di ignorare questo fatto stesso di non saper nulla. E anche questo non lo dicono in modo assoluto: infatti temono di confessare di esistere, poiché non sanno nulla; e si spingono fino al punto di dover infine tacere per non supporre per caso qualcosa che abbia odore di verità. [48] Infine con essi non c’è da parlare di scienze: infatti per ciò che riguarda la vita e i costumi della società la necessità li costringe ad ammettere di esistere, e a ricercare il loro utile, e ad affermare e negare molte cose sotto giuramento, e se qualcosa fosse loro provato, non saprebbero se l’argomentazione sia cogente o fallace. Se negano, ammettono o controbattono non sanno di negare, ammettere o controbattere; tanto che sono da considerare come automi del tutto privi di una mente.
[49] Riprendiamo ora il nostro proposito. Abbiamo trattato, fino a qui, per prima cosa il fine a cui vogliamo dirigere tutte le nostre riflessioni. Abbiamo conosciuto in secondo luogo quale sia il miglior modo di percepire per mezzo del quale possiamo pervenire alla nostra perfezione. Abbiamo visto in terzo luogo quale sia la prima via su cui la mente deve fondarsi per cominciare bene il suo cammino, la quale consiste nel procedere con la propria indagine per mezzo di leggi certe, secondo la norma di una qualsiasi idea vera data. E affinché questo avvenga correttamente, il Metodo deve garantire queste cose: primo, distinguere l’idea vera da tutte le altre percezioni, e tenere la mente lontana da queste altre percezioni; secondo, mettere a disposizione le regole che consentono di percepire secondo tale norma ciò che è ignoto; terzo <e ultimo> stabilire un ordine tale che non siamo assorbiti da cose inutili.21 Dopo aver conosciuto questo Metodo, abbiamo visto in quarto luogo che esso raggiungerà la sua somma perfezione quando avremo raggiunto l’idea dell’Ente sommamente perfetto. Perciò subito questo sarà soprattutto da considerare, affinché perveniamo alla conoscenza di questo Ente quanto prima.
[3. Prima parte del Metodo: fenomenologia dell’errore]
[a. L’idea finta]
[50] Cominciamo dunque dalla prima parte del Metodo, che consiste, come dicevamo, nel distinguere e separare l’idea vera dalle altre percezioni, e nel trattenere la mente affinché essa non confonda le idee vere con idee finte,22 false o dubbie. Il che qui abbiamo in animo di spiegare quanto più diffusamente al fine di far riflettere i Lettori a proposito di cose molto importanti, anche perché sono molti coloro che dubitano del vero per non aver prestato attenzione alla distinzione che esiste tra la percezione vera e tutte le altre – a tal punto da essere come quegli uomini che, durante la veglia, non dubitavano di vegliare, ma dopo aver una volta ritenuto in sogno, come accade spesso, di essere certamente svegli, e dopo aver poi trovato che questo era falso, dubitarono anche della propria veglia: ciò che accade perché non stabilirono mai una distinzione tra il sonno e la veglia. [51] Nel frattempo avverto che qui non spiegherò l’essenza di una qualsiasi percezione né la spiegherò tramite la sua causa prossima, poiché ciò è di pertinenza della Filosofia, ma dirò soltanto ciò che postula il Metodo, cioè quello che riguarda la percezione finta, falsa e dubbia, e in che modo potremo liberarci da ciascuna di esse. Che la prima ricerca riguardi dunque l’idea finta.
[52] Poiché ogni percezione è o di una cosa considerata in quanto esistente, o solo di un’essenza, e poiché le finzioni più frequenti riguardano cose considerate in quanto esistenti, parlerò prima di queste; cioè dei casi in cui viene finta solo l’esistenza, mentre la cosa la cui esistenza viene finta in tale atto si comprende, o si suppone di comprendere. Per esempio fingo che Pietro, che conosco, vada a casa, che mi faccia visita, e cose simili.23 Ora, chiedo, questa idea cosa riguarda? Vedo che essa riguarda solo cose possibili, e invero non cose necessarie né cose impossibili. [53] Chiamo impossibile una cosa la cui natura <ammessane l’esistenza> implica la contraddittorietà della sua esistenza; necessaria una cosa la cui natura implica la contraddittorietà della sua inesistenza; e possibile una cosa la cui esistenza, per sua stessa natura, non implica la contraddittorietà né della sua esistenza, né della sua inesistenza, ma la necessità o impossibilità della cui esistenza dipende da cause che, fintantoché fingiamo la sua esistenza, sono a noi ignote; e perciò se la sua necessità o impossibilità, che dipende da cause esterne, ci fosse nota, non potremmo fingere niente per quanto la riguarda. [54] Dal che segue che se si dà qualche Dio o essere onnisciente esso non può assolutamente fingere niente. Infatti, per quanto ci riguarda, dopo aver saputo di esistere non possiamo fingere di esistere o di non esistere,24 né possiamo fingere che un elefante passi per la cruna di un ago; e non possiamo, dopo aver conosciuto la natura di Dio, fingere che esso esista o che non esista;25 lo stesso è da intendersi per la Chimera, la cui natura implica la contraddittorietà della sua esistenza. Da queste cose risulta evidente ciò che dicevo, cioè che la finzione della quale stiamo ora parlando non ha a che fare con le verità eterne.26 [55] Ma prima che io proceda oltre, bisogna qui notare per inciso che la differenza che intercorre tra l’essenza di una cosa e l’essenza di un’altra è la stessa che intercorre tra l’attualità, ossia l’esistenza dell’una cosa, e l’attualità, ossia l’esistenza dell’altra. Al punto che se volessimo concepire l’esistenza per esempio di Adamo solo per mezzo dell’esistenza in generale, questo sarebbe lo stesso che se, al fine di concepire l’essenza di Adamo stesso, studiassimo la natura dell’ente in generale per stabilire infine che Adamo è un ente. E così dove l’esistenza viene concepita più in generale, lì viene anche concepita più confusamente, e più facilmente può essere attribuita erroneamente a qualunque cosa; al contrario, quando la si concepisce più in particolare, allora la si capisce più chiaramente, e più difficilmente viene attribuita erroneamente, quando non facciamo attenzione all’ordine della Natura, a qualcosa se non alla cosa stessa. Il che è degno di nota.
[56] Vanno ora prese in considerazione quelle cose che comunemente sono dette finte benché comprendiamo chiaramente che la cosa non sta così come la fingiamo. Per esempio benché io sappia che la Terra è rotonda, niente tuttavia vieta che io dica a qualcuno che essa è un mezzo globo e che sembra un’arancia tagliata a metà su un vassoio, o che il Sole si muove intorno alla Terra, o altre cose simili. Se facciamo attenzione a ciò, non vedremo niente che non sia coerente con quanto abbiamo già detto, purché osserviamo che noi abbiamo potuto di quando in quando errare e ormai essere consci dei nostri errori, e che quindi possiamo fingere, o almeno ritenere, che altri uomini abbiano commesso lo stesso errore o che possano ancora incappare in esso come noi prima di loro. Questo, dico, possiamo fingerlo fintantoché non vediamo alcuna impossibilità né alcuna necessità: e così quando dico a qualcuno che la Terra non è rotonda, eccetera, non faccio altro che rievocare con la memoria un errore che commisi accidentalmente o nel quale avrei potuto cadere e poi fingere o ritenere che colui a cui dico questo sia o possa cadere nello stesso errore. Poiché, come ho detto, fingo fintantoché non vedo alcuna impossibilità né alcuna necessità: se comprendessi un’impossibilità o una necessità non potrei assolutamente fingere niente, e si potrebbe dire solo che metto in pratica qualcosa.
[57] Resta ancora da prendere in considerazione ciò che viene supposto nelle Questioni,27 il che a volte riguarda anche cose impossibili. Per esempio ogni volta che diciamo: supponiamo che questa candela accesa non sia accesa in questo momento, o supponiamo che essa sia accesa in qualche spazio immaginario, o là dove non si dà alcun corpo: cose simili a queste vengono supposte di continuo, benché si comprenda chiaramente che l’ultima è impossibile; ma quando accade, niente viene affatto finto. Infatti nel primo caso non ho fatto altro che richiamare alla memoria una candela non accesa (o concepire questa stessa senza fiamma),28 e, poiché penso a questa candela, comprendo lo stesso a proposito di essa, fintantoché non presto attenzione alla fiamma. Nel secondo non accade altro se non che i pensieri vengano astratti dai corpi circostanti affinché la mente si rivolga unicamente alla contemplazione della candela, considerata in sé sola, per poi concludere che la candela non contiene alcuna causa tale da comportare la sua distruzione, cosicché se intorno non vi fossero affatto corpi questa candela e anche la fiamma rimarrebbero immutabili, o simili: dunque qui non si dà alcuna finzione, ma solo vere, e mere, asserzioni.29
[58] Passiamo ora alle finzioni che riguardano le sole essenze o le essenze che hanno qualche attualità, cioè esistenza. A proposito di queste bisogna tenere nella massima considerazione il fatto che, quanto meno la mente comprende e quante più cose tuttavia percepisce, tanto più grande è la sua capacità di fingere, mentre quante più cose comprende tanto più questa capacità di fingere diminuisce. Per esempio così come, in accordo con quanto abbiamo visto sopra, fintantoché pensiamo non possiamo fingere di pensare o di non pensare, così anche dopo aver conosciuto la natura del corpo non possiamo fingere che una mosca sia infinitamente grande, e, dopo aver conosciuto la natura dell’anima, non possiamo fingere che essa sia quadrata, benché a parole si possa dire tutto.30 Ma, come abbiamo detto, quanto meno gli uomini conoscono la Natura, tanto più facilmente possono fingere molte cose: che gli alberi parlino, che gli uomini si tramutino improvvisamente in pietre o in sorgenti, che negli specchi appaiano spettri, che il nulla diventi qualcosa, che gli Dei stessi si trasformino in bestie e in uomini, e infinite altre cose di questo genere.
[59] Qualcuno forse riterrà che solo la finzione, e non la comprensione, argini la finzione; cioè che, dopo aver finto qualcosa, e aver voluto assentire per così dire liberamente alla sua esistenza nella natura delle cose, accade che dopo non possiamo più pensarlo altrimenti che come esistente. Per esempio dopo aver finto (per parlare con costoro) una certa natura di un corpo ed essermi voluto persuadere grazie alla mia libertà che essa esiste veramente così, non per questo è più legittimo fingere che la mosca sia, per esempio, infinita, e dopo aver finto l’essenza dell’anima, non posso renderla quadrata, eccetera. [60] Ma questo è da esaminare. Primo: costoro o negano, o concedono che noi possiamo comprendere qualcosa. Se lo concedono, necessariamente lo stesso che dicono della finzione dovranno dirlo anche della comprensione. Se invece lo negano, vediamo noi, che sappiamo di sapere qualcosa, che cosa dicono: essi dicono, cioè, che l’anima può sentire e percepire in molti modi non se stessa, né le cose che esistono, ma soltanto quelle cose che non sono né in sé né altrove, cioè che l’anima può con la sua sola forza creare sensazioni o idee che non appartengono alle cose; tanto che da questo punto di vista la considerano alla stessa stregua di Dio. Poi dicono che noi, o la nostra anima, abbiamo una libertà tale da dominare noi stessi, o la nostra anima, o persino la libertà medesima: infatti dopo che essa31 ha finto qualcosa e ha dato a ciò l’assenso non può pensare né fingere ciò in un altro modo, e addirittura è costretta da quella finzione a pensare in tal modo anche le altre cose, così da non opporle alla prima finzione; e dunque essi sono qui costretti anche ad ammettere, a causa della loro finzione, quelle cose assurde che descrivevo or ora, e per respingere le quali non ci affaticheremo con alcuna dimostrazione. [61] Ma, lasciando costoro nei loro deliri, ci preoccuperemo di far sì che dalla discussione che abbiamo avuto con loro ricaviamo qualcosa di vero e utile per il nostro scopo, e in particolare questo: la mente, quando si concentra sulla cosa finta, e per sua natura falsa, per esaminarla e comprenderla e per dedurre da essa secondo l’ordine corretto ciò che da essa si può dedurre, rende facilmente evidente la sua falsità;32 e se invece la cosa finta è, per sua natura, vera, quando la mente si concentra su di essa per comprenderla e comincia a dedurre da essa, secondo l’ordine corretto, ciò che da essa deriva, prosegue felicemente senza alcuna interruzione, così come abbiamo visto che dalla finzione falsa, appena esposta, l’intelletto si è offerto subito per mostrare l’assurdità di essa e delle altre cose dedotte da essa.
[62] Non sarà dunque da temere in alcun modo che noi fingiamo qualcosa, se percepiamo la cosa in modo chiaro e distinto: infatti se per caso dicessimo che gli uomini si tramutano improvvisamente in animali, questo sarebbe detto in modo molto astratto, tanto che non sarebbe dato alcun concetto, cioè idea, o coerenza del soggetto e del predicato nella mente: se infatti si desse, allo stesso tempo si vedrebbe il mezzo, e le cause, per cui e perché accade così. E inoltre non si presta attenzione alla natura del soggetto e del predicato.
[63] Quindi, alla sola condizione che la prima idea non sia finta, e che da essa si deducano tutte le altre idee, svanisce poco a poco l’errore della finzione. Infine, poiché l’idea finta non può essere chiara e distinta, ma solamente confusa, e ogni confusione procede dal fatto che la mente conosca una cosa, unitaria o composta di molte parti, soltanto in parte, e non distingua ciò che è noto da ciò che è ignoto, e inoltre dal fatto che a molte cose che appartengono a una certa cosa presti attenzione contemporaneamente e senza alcuna distinzione, da ciò segue prima di tutto che se l’idea è idea di una cosa semplicissima, essa non può essere se non chiara e distinta: infatti tale cosa non può essere conosciuta in parte, ma solo totalmente o per nulla. [64] E ne segue anche, in secondo luogo, che se una cosa che è composta di molte parti viene divisa nel pensiero in parti tutte semplicissime, e se si presta attenzione a ciascuna separatamente, allora ogni confusione svanisce. E, in terzo luogo, ne segue che la finzione non può essere semplice, ma che risulta dalla composizione di diverse idee confuse di cose diverse e di azioni diverse esistenti nella Natura (o meglio, dall’attenzione simultanea, priva però di assenso, a tali diverse idee);33 se infatti fosse semplice, sarebbe chiara, e distinta, e di conseguenza vera. Se risultasse dalla composizione di idee distinte, anche il prodotto di tale composizione sarebbe chiaro, e distinto, e perciò vero. Per esempio dopo aver conosciuto la natura del cerchio e la natura del quadrato non possiamo confrontare le due e rendere quadrato il cerchio, o rendere quadrata l’anima, o cose simili.
[65] Concludiamo allora brevemente, e vediamo come non sia in alcun modo da temere che la finzione venga confusa con l’idea vera. Infatti quanto alla prima finzione di cui abbiamo parlato precedentemente, cioè dove la cosa viene concepita chiaramente, vediamo che se tale cosa che viene concepita chiaramente è, così come la sua esistenza, di per sé una verità eterna, non possiamo fingere nulla a proposito di essa; ma se l’esistenza della cosa concepita non è una verità eterna, bisogna preoccuparsi solo che l’esistenza della cosa sia collegata con la sua essenza, e che contemporaneamente si presti attenzione all’ordine della Natura. Quanto alla seconda finzione, che abbiamo detto essere l’attenzione simultanea, ma senza assenso, a diverse idee confuse di cose diverse e azioni diverse esistenti nella Natura, abbiamo anche detto che una cosa semplicissima non può essere finta, ma solo compresa, e così pure la cosa composita, purché prestiamo attenzione alle parti semplicissime di cui si compone; e in ultimo, che sulla base di esse stesse34 non possiamo fingere azioni che non sono vere, poiché siamo costretti a contemplare in che modo e perché avviene così.
[b. L’idea falsa]
[66] Comprese così queste cose, passiamo ora all’indagine delle idee false, per vedere di cosa si tratta e in che modo possiamo badare di non cadere in percezioni false. Entrambe le cose non saranno per noi difficili, dopo lo studio dell’idea finta: infatti tra l’idea finta e l’idea falsa non vi è altra differenza se non il fatto che questa35 presuppone l’assenso, cioè (come abbiamo già notato) che, mentre si offrono rappresentazioni, non si offre alcuna causa grazie alla quale, come accade fingendo, sia possibile dedurre che esse non sono prodotte da cose esterne a noi e che quindi non si tratta quasi di alcunché di diverso dal sognare a occhi aperti, cioè mentre vegliamo. L’idea falsa dunque riguarda, o (per dir meglio) si riferisce all’esistenza di una cosa la cui essenza è conosciuta, ovvero per quanto riguarda l’essenza funziona allo stesso modo dell’idea finta. [67] L’idea falsa che concerne l’esistenza si corregge allo stesso modo dell’idea finta: infatti se la natura della cosa nota implica la sua necessaria esistenza è impossibile che ci sbagliamo circa l’esistenza di tale cosa; ma se l’esistenza della cosa non è una verità eterna, com’è la sua essenza, e la necessità o l’impossibilità che essa esista dipende invece da cause esterne, allora tutto è da intendere allo stesso modo di cui dicevamo quando si parlava della finzione. Infatti essa viene corretta nello stesso modo.
[68] Per ciò che concerne l’altra idea finta, che è riferita alle essenze o, anche, alle azioni, queste percezioni sono sempre e necessariamente confuse, composte da diverse percezioni confuse di cose esistenti nella Natura, come quando gli uomini si convincono che nei boschi, nelle immagini, nelle bestie e in altre cose ci sono divinità; che si diano corpi dalla cui sola composizione derivi l’intelletto; che i cadaveri pensino, camminino, parlino; che Dio menta e cose simili. Ma le idee che sono chiare e distinte non possono mai essere false: infatti le idee delle cose che sono concepite in modo chiaro e distinto sono o semplicissime o composte di idee semplicissime, cioè dedotte da idee semplicissime. E che davvero l’idea semplicissima non possa essere falsa lo potrà vedere chiunque, purché sappia cosa è il vero, ossia l’intelletto, e contemporaneamente cosa è il falso.
[69] Infatti, per quanto riguarda ciò che costituisce la forma del vero, è certo che il pensiero vero si distingue da quello falso non tanto per la denominazione estrinseca, ma soprattutto per la denominazione intrinseca. Infatti se un artigiano concepisce una struttura, anche se tale struttura non è mai esistita e non è nemmeno destinata ad esistere, cionondimeno il pensiero di essa è vero, e il pensiero è lo stesso sia che la struttura esista, sia che non esista; e per contro se qualcuno dice per esempio che Pietro esiste e tuttavia non sa se Pietro esiste, quel pensiero dal punto di vista di questo qualcuno è falso o, se si vuole, non è vero, anche se in verità Pietro esiste. E questa asserzione che Pietro esiste non è vera se non dal punto di vista di colui che sa per certo che Pietro esiste. [70] Da cui segue che nelle idee si dà qualcosa di reale per mezzo del quale quelle vere sono distinte da quelle false: il che ora bisognerà senz’altro fare oggetto di indagine, affinché noi abbiamo a disposizione la migliore norma della verità (abbiamo infatti detto che dobbiamo determinare i nostri pensieri in base alla norma di un’idea vera data e che il metodo è conoscenza riflessiva) e affinché conosciamo le proprietà dell’intelletto; e non bisogna dire che questa differenza, come sopra l’ho spiegata, sorge dal fatto che il pensiero vero consiste solo nel conoscere le cose tramite le loro cause prime, nel che pure certamente differisce molto da quello falso: infatti è detto vero anche il pensiero che comprende oggettivamente l’essenza di qualche principio che non ha causa ed è conosciuto per sé e in sé. [71] Perciò la forma del pensiero vero deve trovarsi nel medesimo pensiero stesso, senza relazione ad altro; e non riconosce l’oggetto in quanto causa, ma deve dipendere solo dalla potenza stessa dell’intelletto e dalla sua natura. Infatti se supponiamo che l’intelletto percepisca qualche ente nuovo, che non è mai esistito (così come alcuni ritengono proprio dell’intelletto di Dio prima che creasse le cose) e che da tale percezione, che non può ragionevolmente aver origine da nessun oggetto, ne deduca legittimamente altre, allora tutti questi pensieri sarebbero veri, e non determinati da alcun oggetto esterno, ma dalla sola potenza e natura dell’intelletto. Per cui ciò che costituisce la forma del pensiero vero deve essere cercato nel medesimo pensiero stesso e dev’essere dedotto dalla natura dell’intelletto. [72] Per indagare questo argomento, dunque, poniamo davanti ai nostri occhi un’idea vera il cui oggetto sappiamo con la massima certezza dipendere dalla forza del nostro pensiero e non trovarsi affatto nella Natura: in tale idea infatti, come è evidente da ciò che si è già detto, potremo studiare più facilmente ciò che ci interessa. Per esempio per formare il concetto della sfera fingo una causa a piacere, nella fattispecie che un semicerchio ruoti intorno al centro e che la sfera quasi abbia origine dalla rotazione. Questa è certamente un’idea vera, e benché sappiamo che in Natura nessuna sfera abbia mai avuto origine in questo modo, questa è tuttavia una percezione veridica, e un modo facilissimo di formare il concetto della sfera. È ora da notare che questa percezione afferma che il semicerchio ruoti, affermazione che sarebbe falsa se non fosse collegata al concetto della sfera o al concetto della causa che determina tale moto, ossia se questa affermazione fosse assolutamente nuda. Infatti allora la mente tenderebbe unicamente ad affermare il solo moto del semicerchio, che non è né contenuto nel concetto del semicerchio, né ha origine dal concetto della causa che determina il moto. Perciò la falsità consiste solamente nel fatto che a proposito di qualcosa sia affermato qualcos’altro che non è contenuto nel concetto che ci siamo formati di quella cosa, come il moto o la quiete del semicerchio. Dal che segue che i pensieri semplici non possono non essere veri, come l’idea semplice del semicerchio, o del moto, o della quantità, eccetera. Qualunque cosa queste contengano di affermativo, è uguale36 al loro concetto e non si estende oltre se stesso; perciò ci è lecito formare idee semplici a piacere senza timore di errori. [73] Resta quindi soltanto da chiedersi con quale potenza la nostra mente possa formarle, e fino a che punto tale potenza si estenda: trovato ciò, infatti, vedremo facilmente quale sia la conoscenza più alta a cui siamo in grado di pervenire: infatti quando affermiamo di qualcosa qualcos’altro che non è contenuto nel concetto che siamo formati di quella cosa, ciò indica un difetto della nostra percezione, ovvero che abbiamo pensieri o idee mutilati e tronchi. Vediamo infatti che il moto del semicerchio è falso quando si trova nudo nella mente, mentre lo stesso è vero se è collegato al concetto della sfera o al concetto di qualche causa che determina questo moto. Poiché se è proprio della natura dell’essere pensante, come si vede a prima vista, formare pensieri veri, ovvero adeguati, è certo che le idee inadeguate sorgono in noi soltanto dal fatto che siamo parte di qualche essere pensante, i cui pensieri costituiscono, alcuni del tutto, alcuni solo in parte, la nostra mente.
[74] Ma ciò che c’è ancora da considerare, e che a proposito della finzione non valeva la pena di notare, e in cui si dà il massimo inganno, è quando accade che certe cose che si offrono nell’immaginazione siano anche nell’intelletto, cioè che siano concepite chiaramente e distintamente: poiché allora, fintantoché ciò che è distinto non viene scernito da ciò che è confuso, la certezza, cioè l’idea vera, è mischiata con le idee non distinte. Per esempio alcuni tra gli Stoici udirono per caso il nome dell’anima e che essa fosse immortale, ciò che immaginavano solo confusamente; e immaginavano anche, e contemporaneamente comprendevano, che i corpi finissimi penetrano tutti gli altri, e non sono penetrati da nessuno. Poiché immaginavano tutto ciò simultaneamente, con la concomitante certezza di quell’assioma, furono immediatamente certi che la mente fosse uno di quei corpi finissimi e che quei corpi sottilissimi fossero indivisibili, eccetera. [75] Ma ci liberiamo anche da questo mentre ci sforziamo di esaminare tutte le nostre percezioni secondo la norma di una data idea vera, evitando, come dicevamo all’inizio, quelle che abbiamo dal sentito dire o dall’esperienza vaga. Si aggiunga a ciò che tale inganno ha origine dal fatto che la cosa viene concepita troppo astrattamente: infatti è di per sé abbastanza chiaro che io non posso applicare quello che concepisco nel suo vero oggetto a qualcos’altro altro. E ha origine infine anche dal fatto che gli elementi primi di tutta la natura non vengono compresi; per cui procedendo senza ordine, e confondendo la Natura con le cose astratte, benché vi siano degli assiomi veri, ci si confonde, e si stravolge l’ordine della Natura. Noi invece non dobbiamo temere questo inganno, se procediamo quanto meno astrattamente possibile e cominciamo quanto prima possibile dagli elementi primi, cioè dalla fonte e origine della Natura.
[76] Per quanto invece riguarda la conoscenza dell’origine della Natura, non c’è affatto da temere che la confondiamo con qualcosa di astratto: infatti quando si concepisce qualcosa astrattamente, come accade con tutti gli universali, essi vengono sempre compresi nell’intelletto in modo più generale di quanto in realtà possano esistere in Natura i loro particolari. Infine, poiché in Natura si danno molte cose la cui differenza è così esigua da sfuggire quasi all’intelletto, può accadere facilmente (se le si concepisce astrattamente) che esse vengano confuse; ma poiché l’origine della Natura, come poi vedremo, non può essere concepita astrattamente o universalmente, e non può essere estesa nell’intelletto fino a una generalità maggiore di quella reale, né ha alcuna somiglianza con le cose mutevoli, non c’è da temere a proposito della sua idea alcuna confusione, purché possediamo una norma della verità (che abbiamo già mostrato): e questo ente è senz’altro unico e infinito,37 cioè è tutto l’essere, e oltre ad esso non si dà essere.38
[c. L’idea dubbia]
[77] Fino a qui si è parlato dell’idea falsa. Ci resta da indagare l’idea dubbia, cioè dobbiamo investigare la natura di ciò che può indurci a dubitare e allo stesso tempo in che modo il dubbio possa essere rimosso. Parlo del vero dubbio nella mente, e non di quel dubbio che vediamo darsi, senza ordine, nei casi in cui qualcuno dice a parole di dubitare benché il suo animo non dubiti: la correzione di questo non sta al Metodo, ma piuttosto è di pertinenza della ricerca sull’ostinazione e della sua correzione. [78] Dunque, nell’anima non si dà alcun dubbio dovuto alla cosa stessa della quale si dubita; cioè, se nell’anima vi fosse solo un’unica idea, ovvero se essa fosse vera o falsa, non si darebbe alcun dubbio, e nemmeno certezza: ma solo quella sensazione. Essa infatti non è, in sé, nient’altro se non quella sensazione. Ma si darà per via di un’altra idea, che non è tanto chiara e distinta da far sì che noi possiamo concludere qualcosa di certo a proposito della cosa di cui si dubita; cioè l’idea che ci getta nel dubbio non è chiara e distinta. Per esempio se qualcuno non ha mai riflettuto sull’inattendibilità dei sensi, per l’esperienza o in qualunque altro modo, allora non dubiterà mai se il Sole sia più grande o più piccolo di ciò che appare. Per cui i contadini, senza riflettere, si meravigliano quando sentono dire che il Sole è molto più grande del globo terrestre; e riflettendo sull’inattendibilità dei sensi ha origine il dubbio. Cioè, il senso sa di essersi qualche volta sbagliato, ma lo sa solo confusamente: infatti non sa in che modo i sensi sbaglino. Ma se qualcuno dopo il dubbio acquisisse una conoscenza veridica dei sensi, e del modo in cui tramite essi le cose distanti vengono rappresentate, allora il dubbio sarebbe di nuovo tolto. [79] Da cui segue che noi non possiamo revocare in dubbio idee vere per il fatto che forse esiste qualche Dio ingannatore, che ci illude anche nelle cose più certe, se non fintantoché non abbiamo alcuna idea chiara e distinta di Dio; cioè, se ci concentriamo sulla conoscenza che abbiamo dell’origine di tutte le cose e non troviamo niente che ci insegni che Dio non ci inganna in quella stessa conoscenza per la quale, se prestiamo attenzione alla natura del triangolo, troviamo che i suoi tre angoli sono uguali a due retti<, allora rimane il dubbio>; ma se invece abbiamo di Dio la stessa conoscenza che abbiamo del triangolo, allora ogni dubbio è rimosso. E allo stesso modo in cui possiamo pervenire a questa conoscenza del triangolo senza sapere per certo se qualche sommo ingannatore ci illude, possiamo anche pervenire a questa conoscenza di Dio senza sapere per certo se si dà qualche sommo ingannatore; e questa sola conoscenza è sufficiente a rimuovere, come ho detto, ogni dubbio che possiamo avere su idee chiare e distinte. [80] Se poi si procede rettamente indagando prima ciò che va indagato prima e senza interrompere la concatenazione delle cose, e se si sa in che modo le questioni vanno determinate prima di accingersi a conoscerle, allora non si avranno mai se non idee certissime, cioè chiare e distinte: infatti il dubbio non è altro che la sospensione dell’animo a proposito di qualche affermazione, o negazione, che si affermerebbe, o negherebbe, se solo non intervenisse qualcosa di sconosciuto a causa del quale la conoscenza dell’oggetto di tale affermazione o negazione non può che essere imperfetta. Dal che si conclude che il dubbio sorge sempre dal fatto che le cose vengano indagate senza ordine.
[d. Su memoria, oblio e immaginazione]
[81] Questo è quello che avevo promesso di dire in questa prima parte del Metodo. Ma affinché io non ometta niente di ciò che può condurre alla conoscenza dell’intelletto e delle sue forze tratterò anche brevemente della memoria e dell’oblio. Qui è da tenere nella massima considerazione il fatto che la memoria è corroborata sia con il supporto dell’intelletto, sia anche senza il supporto dell’intelletto. Infatti per quanto riguarda il primo punto quanto più la cosa è intelligibile, tanto più facilmente sarà trattenuta nel ricordo, e al contrario, quanto meno è intelligibile, tanto più facilmente la dimenticheremo. Ad esempio se trasmetto a qualcuno una gran quantità di parole disordinate esse saranno ricordate molto più difficilmente che se trasmettessi le stesse parole in forma di narrazione. [82] Ma la memoria è corroborata anche senza l’aiuto dell’intelletto, cioè dalla forza con cui l’immaginazione o il senso che è detto comune sono influenzati da una singola cosa corporea. Dico singola: l’immaginazione infatti è influenzata solo dalle cose singole: per esempio se qualcuno legge un’unica commedia amorosa la ricorderà perfettamente finché non ne leggerà altre dello stesso genere, poiché allora essa sola avrà vigore nell’immaginazione: ma se ve ne sono diverse dello stesso genere le immagineremo tutte insieme e le confonderemo facilmente. Dico anche corporea: infatti l’immaginazione è influenzata solo dai corpi. Poiché dunque la memoria è corroborata dall’intelletto, ma anche senza intelletto, concludiamo che essa è qualcosa di diverso dall’intelletto stesso, e che nell’intelletto considerato in sé non si dà né memoria, né oblio. [83] Che cosa sarà allora la memoria? Nient’altro che la sensazione delle impressioni del cervello, insieme con il pensiero rivolto alla determinata durata della sensazione;39 il che è manifestato anche dalla riminiscenza. Infatti qui l’anima pensa a quella sensazione, ma non come durata continua; e così l’idea di tale sensazione non è essa stessa la durata della sensazione, cioè la stessa memoria. Se invero le idee stesse siano soggette a qualche corruzione, lo vedremo nella Filosofia. E se a qualcuno questo sembra completamente assurdo è sufficiente al nostro proposito che costui pensi che quanto più una cosa è singolare, tanto più facilmente viene ricordata, così come risulta evidente dall’esempio della commedia appena addotto. Inoltre quanto più una cosa è intelligibile, tanto più facilmente anche viene ricordata. Perciò non potremo non ricordare quello che è sommamente singolare e intelligibile.
[84] Così dunque abbiamo distinto tra l’idea vera e le altre percezioni e abbiamo mostrato che le idee finte, false e le altre hanno la loro origine nell’immaginazione, cioè da alcune sensazioni fortuite e, per così dire, disordinate, che non sorgono dalla potenza stessa della mente ma da cause esterne, in quanto il corpo, vuoi sognando, vuoi vegliando, subisce vari moti. O, se piace, si intenda qui per immaginazione ciò che si vuole, purché sia qualcosa di diverso dall’intelletto e sia qualcosa per cui l’anima abbia un ruolo passivo; infatti è lo stesso qualunque cosa si intenda, dopo che si è compreso che l’immaginazione è qualcosa di vago e che di fronte a essa l’anima è passiva, e contemporaneamente si è compreso in che modo con l’aiuto dell’intelletto possiamo liberarci da essa. Perciò anche nessuno si meravigli che io qui non dimostri ancora che esistono un corpo e le altre cose necessarie e che tuttavia parli di immaginazione, del corpo e della sua costituzione. Per l’appunto, come ho detto, è indifferente che cosa si intenda purché si sappia che è qualcosa di vago eccetera.
[85] Ma abbiamo mostrato che l’idea vera è semplice, o composta di idee semplici, e che mostra in che modo e perché qualcosa sia o sia stato fatto, e che i suoi effetti oggettivi nell’anima progrediscono proporzionalmente alla formalità del suo oggetto; ciò che è lo stesso che dissero gli antichi, appunto che la vera scienza procede dalla causa all’effetto; se non che non concepirono mai, per quanto ne so, che la mente agisca secondo leggi certe e quasi come un automa spirituale, come facciamo noi qui. [86] Perciò, nella misura in cui all’inizio era lecito, abbiamo acquisito una conoscenza del nostro intelletto e una tale norma dell’idea vera da non temere ora di confondere la verità con la falsità o la finzione; né ci meraviglieremo del perché comprendiamo certe cose che non cadono in alcun modo sotto l’immaginazione e nell’immaginazione se ne trovino altre che senz’altro si oppongono all’intelletto; che altre infine convergano con l’intelletto; poiché sappiamo che quelle operazioni da cui le immaginazioni vengono prodotte obbediscono ad altre leggi, del tutto diverse da quelle dell’intelletto, e che per quanto riguarda l’immaginazione l’anima ha un ruolo soltanto passivo. [87] Da questo è evidente anche quanto facilmente coloro che non hanno distinto accuratamente tra l’immaginazione e l’intellezione possano essere tratti in gravi errori, per esempio in questi: che l’estensione debba trovarsi in un luogo, che debba essere finita, che le sue parti si distinguono realmente le une dalle altre, che sia il primo e unico fondamento di tutte le cose e che in un momento occupi uno spazio più grande che in un altro, e molte altre cose di tal genere che contrastano del tutto con la verità, come a suo luogo mostreremo.
[88] Infine poiché le parole sono parte dell’immaginazione, cioè poiché nella misura in cui vengono unite in ordine sparso nella memoria sulla base di qualche disposizione del corpo fingiamo molti concetti, è fuor di dubbio che anche le parole, come l’immaginazione, possono essere causa di molti e gravi errori se non ce ne guardiamo con grande attenzione. [89] Si aggiunga a questo che esse sono costituite arbitrariamente e secondo le capacità del popolo, a tal punto che non sono altro che segni delle cose come si trovano nell’immaginazione e non come si trovano nell’intelletto; il che emerge con chiara evidenza dal fatto che a tutte quelle cose che si trovano solo nell’intelletto e non nell’immaginazione furono dati spesso nomi negativi, come incorporeo, infinito, eccetera, e che persino molti che invece sono affermativi furono espressi negativamente, come increato, indipendente, infinito, immortale, eccetera, poiché senza dubbio immaginiamo i loro contrari molto più facilmente e perciò questi vennero in mente per primi ai primi uomini, usurpando i nomi positivi; e viceversa. Affermiamo e neghiamo molte cose perché la natura delle parole, e non invero la natura delle cose, ammette che ciò sia affermato o negato; al punto che, ignorando questa, riterremo facilmente vero qualcosa di falso.
[90] Evitiamo inoltre un’altra grande causa di confusione che fa anche sì che l’intelletto non rifletta su se stesso: appunto il fatto che quando non distinguiamo tra immaginazione e intellezione riteniamo che le cose che immaginiamo più facilmente ci siano più chiare e riteniamo di comprendere ciò che immaginiamo. Per cui mettiamo prima le cose che vanno messe dopo, e così si sovverte il retto ordine con cui si deve procedere e non si conclude niente di legittimo.
[4. Seconda e terza parte del Metodo]
[a. Sulle condizioni per giungere a corrette definizioni]
[91] Quindi, per venire infine alla seconda parte di questo Metodo, proporrò prima il nostro scopo in questo Metodo e poi i mezzi per raggiungerlo.40 Lo scopo dunque è avere idee chiare e distinte, tali cioè che siano originate dalla pura mente, e non da moti fortuiti del corpo. Poi, per ricondurre a una tutte le idee, tenteremo di concatenarle e ordinarle in un modo tale che la nostra mente, nella misura in cui ne è capace, riproduca oggettivamente la formalità della natura nel suo complesso e nelle sue parti.
[92] Quanto alla prima cosa, come abbiamo già detto, è richiesto per il nostro fine ultimo che la cosa sia concepita o per mezzo della sua sola essenza, o per mezzo della sua causa prossima. Cioè se la cosa esiste in sé, o, come si dice comunemente, è causa di sé, allora dovrà essere compresa per mezzo della sua sola essenza; se invece la cosa non esiste in sé, ma ha bisogno di una causa per esistere, allora dovrà essere compresa per mezzo della sua causa prossima: infatti invero la conoscenza dell’effetto non è altro che l’acquisizione della conoscenza più perfetta della causa.41 [93] Per cui, fintantoché ci occuperemo dell’Indagine delle cose, non ci sarà mai permesso concludere qualcosa a partire dall’astratto, e faremo la massima attenzione a non mescolare ciò che si trova solo nell’intelletto con ciò che si trova nelle cose. Bensì la conclusione migliore dovrà essere ricavata dall’essenza affermativa di qualcosa di particolare, cioè da una definizione vera e appropriata. Infatti a partire solo da assiomi universali l’intelletto non può discendere alle cose particolari, dal momento che gli assiomi si estendono a infinite cose e non determinano l’intelletto a contemplare più una certa cosa singolare che un’altra. [94] Perciò la retta via della ricerca consiste nel formare i pensieri a partire da qualche definizione data: il che procede tanto più facilmente e felicemente quanto meglio si è definita una certa cosa. Perciò il cardine di tutta questa seconda parte del Metodo consiste solamente in questo, cioè nella conoscenza delle condizioni di una buona definizione e poi nel modo di trovarle. Perciò tratterò prima di tutto delle condizioni della definizione.
[95] Affinché una definizione possa dirsi perfetta dovrà spiegare l’intima essenza della cosa e garantire che non assumiamo al suo posto qualche proprietà. Per spiegare questo, al fine di omettere altri esempi (perché non sembri che voglio correggere gli errori altrui) porterò solo l’esempio di una cosa astratta che può essere definita indifferentemente in qualunque modo, cioè il cerchio: se esso è definito come la figura in cui le linee tratte dal centro alla circonferenza sono uguali, tutti vedono che tale definizione non spiega affatto l’essenza del cerchio, ma solo una sua proprietà; e benché, come dicevo, questo riguardi poco le figure e gli altri enti della ragione, tuttavia riguarda molto da vicino gli enti Fisici e reali: soprattutto perché le proprietà delle cose non vengono comprese fintantoché le loro essenze sono ignote, e se queste vengono tralasciate necessariamente la concatenazione dell’intelletto, che deve riprodurre la concatenazione della Natura, sarà sovvertita, e noi ci allontaneremo del tutto dal nostro scopo. [96] Affinché quindi noi ci liberiamo da questo vizio, queste cose dovranno essere osservate nella Definizione.
1. Se la cosa è stata creata, la definizione dovrà, come abbiamo detto, comprendere la sua causa prossima. Per esempio il cerchio secondo questa legge dovrà essere definito come la figura che viene descritta da una linea qualunque di cui un’estremità è fissa e l’altra mobile – definizione che comprende chiaramente la causa prossima.
2. È necessario un concetto, ovvero definizione, della cosa tale che da esso possano essere dedotte tutte le proprietà di tale cosa fintantoché essa viene considerata per sé sola e non in congiunzione con altre, così come si può vedere in questa definizione del cerchio. Infatti da essa si conclude chiaramente che tutte le linee condotte dal centro alla circonferenza sono uguali; e che questo sia un requisito necessario della definizione è talmente chiaro, per sé stesso, agli occhi di chi vi presta attenzione che non sembra che valga la pena di indugiare in una dimostrazione di questo fatto, e nemmeno di dimostrare che in base a questo secondo requisito ogni definizione deve essere affermativa. Parlo dell’affermazione intellettiva e do poco peso a quella verbale, che a causa della debolezza delle parole potrebbe forse a volte essere espressa negativamente, benché sia intellettivamente compresa in modo affermativo.
[97] I requisiti della Definizione di una cosa increata sono invece questi.
1. Che escluda ogni causa, cioè che l’oggetto non abbia bisogno per la sua spiegazione di nient’altro che il suo stesso essere.
2. Che data la definizione di questa cosa non resti più alcuno spazio per interrogarsi se essa esista.
3. Che, quanto alla mente, non abbia alcun sostantivo che possa essere aggettivato, cioè che non sia spiegata per mezzo di cose astratte.
4. E infine (benché notare questo non sia davvero necessario) è richiesto che dalla sua definizione si deducano tutte le sue proprietà. Anche tutte queste cose risultano manifeste a chi seriamente presta attenzione.
[98] Dicevo anche che la conclusione migliore dovrà essere dedotta da un’essenza particolare affermativa: quanto più infatti un’idea è speciale, tanto più è distinta e quindi chiara. Per cui noi dobbiamo ricercare il più possibile la conoscenza delle cose particolari.
[b. Sull’ordine in cui procedere nella conoscenza]
[99] Invero quanto all’ordine, e affinché tutte le nostre percezioni siano ordinate e unite, è necessario che il prima possibile e appena la ragione lo richiede indaghiamo se si dia un ente che è causa di tutte le cose e allo stesso tempo quali siano le sue proprietà, affinché la sua essenza oggettiva sia anche la causa di tutte le nostre idee; allora la nostra mente, come abbiamo detto, riprodurrà al meglio la Natura: infatti possiederà oggettivamente sia la sua essenza, sia il suo ordine, sia la sua unione. Da questo possiamo vedere che è per noi assolutamente necessario dedurre sempre tutte le nostre idee da cose Fisiche o da enti reali, procedendo, per quanto è possibile, secondo la serie causale da un ente reale a un altro ente reale, e così senz’altro affinché non passiamo a cose astratte e universali, ovvero affinché da cose di questo genere non concludiamo qualcosa di reale né concludiamo cose di questo genere a partire da qualcosa di reale: entrambe queste cose infatti interrompono il vero progresso dell’intelletto. [100] Ma bisogna notare che io qui quando parlo di serie delle cause e degli enti reali non intendo una serie di cose singole mutevoli, ma solo una serie di cose fisse ed eterne. La serie di cose singole mutevoli infatti sarebbe impossibile da comprendere per la debolezza dell’intelletto umano, da una parte per via del fatto che il loro numero supera ogni moltitudine, dall’altra per via del fatto che in una stessa cosa vi sono infinite circostanze una qualunque delle quali può essere la causa che la cosa esista o non esista; dal momento che la loro esistenza non ha alcuna connessione con la loro essenza, ovvero, come abbiamo già detto, non è una verità eterna. [101] D’altro canto non è nemmeno necessario che noi comprendiamo una tale serie se è vero che le essenze delle cose singole mutevoli non possono essere dedotte da tale serie, cioè dall’ordine in cui esistono, poiché essa qui non ci offre altro che le denominazioni estrinseche, le relazioni e insomma le circostanze: tutte cose che sono molto lontane dall’intima essenza delle cose. Questa invero deve essere ricercata solo a partire da cose fisse ed eterne e contemporaneamente dalle leggi che sono scritte in queste cose come nei loro propri codici, secondo le quali tutte le cose singole avvengono e sono ordinate; in ultimo queste cose singole mutevoli dipendono in modo così intimo e, per così dire, essenziale da quelle fisse da non poter essere né essere concepite senza esse. Per cui queste cose fisse ed eterne, benché siano singolari, a causa della loro ubiqua presenza e della loro grandissima potenza saranno per noi come universali, ovvero generi delle definizioni delle cose singole mutevoli e cause prossime di tutte le cose.
[102] Ma, poiché è così, sembra che incombano non poche difficoltà sul nostro tentativo di pervenire alla conoscenza di queste cose singole: infatti concepire tutte le cose contemporaneamente è molto al di sopra delle forze dell’intelletto umano, mentre l’ordine con cui le cose possano essere comprese una dopo l’altra, come abbiamo detto, non deve essere ricercato a partire dalla serie in cui esistono, e nemmeno a partire dalle cose eterne – quanto a queste, infatti, esse per natura sono tutte simultanee. Quindi bisogna necessariamente cercare altri strumenti oltre quelli di cui ci serviamo per comprendere le cose eterne e le loro leggi; tuttavia non è questo il luogo opportuno per trattarne, e non è nemmeno necessario farlo se non dopo che avremo acquisito una conoscenza sufficiente delle cose eterne e delle loro leggi infallibili e ci si sarà chiarita la natura dei nostri sensi.
[103] Prima che ci accingiamo a conoscere le cose singolari sarà tempo di trattare di quegli strumenti che tendono tutti a che noi impariamo a servirci dei nostri sensi e fare (in accordo con leggi certe e con ordine) esperimenti che bastino a determinare la cosa che è ricercata, affinché infine da essi concludiamo secondo quali leggi delle cose eterne essa sia fatta e la sua intima natura ci si chiarisca, come mostrerò a suo luogo. Ora, per tornare al mio proposito, mi sforzerò solo di comunicare le cose che sembrano necessarie affinché possiamo pervenire alla conoscenza delle cose eterne e formare le loro definizioni in accordo con le condizioni viste sopra.
[104] Per fare questo bisogna richiamare alla memoria ciò che dicevamo sopra, cioè che, quando la mente si dedica a qualche pensiero per considerarlo correttamente e dedurre a partire da esso nell’ordine giusto le cose che devono esserne dedotte, se tale pensiero fosse falso la mente lo scoprirebbe; mentre se è vero allora procede senza alcuna interruzione a dedurre felicemente da esso altre idee vere; il che, dico, è richiesto dalla nostra questione. Infatti i nostri pensieri non possono essere determinati da alcun altro fondamento. [105] Se dunque vogliamo investigare la cosa che viene prima di tutte è necessario che si dia un fondamento che diriga verso di essa i nostri pensieri. Quindi, poiché il Metodo è la stessa conoscenza riflessiva, questo fondamento che deve dirigere i nostri pensieri non può essere altro che la conoscenza di ciò che costituisce la forma della verità e la conoscenza dell’intelletto e delle sue proprietà e forze: acquisito infatti tutto questo avremo un fondamento da cui dedurre i nostri pensieri e una via per mezzo della quale l’intelletto, fin dove lo porta la sua capacità, potrà pervenire a conoscere le cose eterne, calcolate appunto le sue forze.
[c. Sulle forze dell’intelletto e le sue proprietà]
[106] Se davvero appartiene alla natura del pensiero il formare idee vere, come è stato mostrato nella prima parte, ora bisogna indagare che cosa intendiamo parlando di forze e potenza dell’intelletto. Poiché invero la parte precipua del nostro Metodo consiste nel conoscere nel modo migliore le forze dell’intelletto e la sua natura, siamo costretti necessariamente (per via di quello che ho detto nella seconda parte del Metodo) a dedurre queste cose dal pensiero stesso e dalla definizione dell’intelletto. [107] Ma fino a qui non abbiamo avuto nessuna regola per trovare le definizioni, e poiché non possiamo comunicare regole del genere se non conoscendo la natura, ovvero la definizione, dell’intelletto e la sua potenza, ne segue che o la definizione dell’intelletto dev’essere chiara per sé o noi non possiamo comprendere nulla. Essa però non è assolutamente chiara per sé; e tuttavia poiché le sue proprietà, come tutto ciò che abbiamo dall’intelletto, non possono essere percepite chiaramente e distintamente se non è nota la loro natura, si deduce che la definizione dell’intelletto è per sé chiara se ci concentriamo sulle sue proprietà che comprendiamo chiaramente e distintamente. Quindi elenchiamo qui le proprietà dell’intelletto, valutiamole attentamente e cominciamo a trattare dei nostri strumenti innati.42
[108] Le proprietà dell’intelletto che notavo principalmente e che comprendo chiaramente sono queste.
1. Che comporta la certezza, cioè che sa che le cose sono, formalmente, nello stesso modo in cui sono contenute oggettivamente in esso.
2. Che percepisce qualcosa, ovvero forma certe idee assolutamente, certe a partire da altro. Certamente forma l’idea della quantità assolutamente, senza considerare altri pensieri; invece non forma le idee del moto se non considerando l’idea della quantità.
3. Le idee che forma assolutamente esprimono un’infinità, mentre a partire da altro forma idee determinate. Infatti se percepisce per mezzo di qualche causa l’idea della quantità, allora la determina per mezzo della quantità, come percepisce che il volume si origina dal movimento di un piano, che invece il piano si origina dal movimento di una linea e che infine la linea si origina dal moto di un punto; percezioni queste che senz’altro non servono a comprendere la quantità, ma solo a determinarla. E questo è evidente dal fatto che concepiamo che esse sorgono quasi dal moto, mentre il moto non viene percepito se non è percepita la quantità, e inoltre possiamo continuare all’infinito il moto che forma la linea, il che non potremmo affatto fare se non possedessimo l’idea della quantità infinita.
4. Forma prima le idee positive che quelle negative.
5. Percepisce le cose non tanto sotto l’aspetto della durata quanto sotto una certa specie di eternità, e in numero infinito. O piuttosto nel percepire le cose non considera né il numero né la durata, mentre nell’immaginare le cose le percepisce sotto un certo numero e una determinata durata e quantità.
6. Le idee chiare e distinte che formiamo sembrano derivare solo dalla necessità della nostra natura tanto che sembrano dipendere assolutamente solo dalla nostra potenza. Per quelle confuse vale, invece, il contrario, e infatti sono spesso formate da noi involontariamente.
7. La mente può determinare in molti modi le idee delle cose che l’intelletto forma a partire da altro: come, ad esempio, per determinare il piano di un’ellisse essa finge che uno stilo attaccato a una corda si muova intorno a due centri, o concepisce infiniti punti aventi sempre lo stesso certo rapporto con una linea retta, o un cono tagliato da qualche piano obliquo in modo che l’angolo con cui questo è inclinato sia maggiore dell’angolo al vertice del cono, o in infiniti altri modi.
8. Quanto più le idee esprimono della perfezione di un certo oggetto tanto più sono perfette. Infatti l’artigiano che ha progettato un’edicola non è ammirato tanto quanto quello che ha progettato un tempio straordinario.
[109] Non indugio nelle altre cose che riguardano il pensiero, come l’amore, la felicità, eccetera: infatti esse non fanno al caso del nostro compito attuale, e non possono essere nemmeno concepite se non dopo aver conosciuto l’intelletto, e queste cose, tolta completamente tale conoscenza, vengono tutte eliminate.
[110] Le idee false e finte, come abbiamo abbondantemente mostrato, non hanno niente di positivo per cui vengono dette false o finte, bensì sono considerate tali solo per un difetto della conoscenza. Dunque le idee false e finte, nella misura in cui sono tali, non possono insegnarci nulla dell’essenza del pensiero; questa dev’essere bensì ricercata a partire dalle proprietà positive che abbiamo poco fa esaminato; cioè ora bisogna stabilire qualcosa di comune a partire dal quale queste proprietà seguano necessariamente, ovvero dato il quale queste necessariamente si diano, e tolto il quale tutte siano tolte.
Il resto è mancante.
- ↑ Cfr. F. Mignini, Introduzione a Spinoza, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 3-11.
- ↑ L’Avvertenza al lettore è degli editori degli Opera posthuma di Spinoza, e probabilmente in particolare di Jarig Jellesz (cfr. F. Mignini, Introduzione a Spinoza, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 5). N.d.T.
- ↑ [a] Queste cose potrebbero essere spiegate più ampiamente e più chiaramente distinguendo le ricchezze, che vengono ricercate o per sé, o in vista degli onori, o in vista dei piaceri sensibili, o in vista della salute e del progresso delle scienze e delle arti; ma ciò viene rimandato al momento opportuno, poiché non è questo il luogo per indagare la questione tanto in profondità.
- ↑ [b] Ciò va dimostrato più accuratamente.
- ↑ [c] Ciò sarà spiegato più diffusamente a tempo debito.
- ↑ [d] Si noti che, poiché qui desidero enumerare solo le scienze necessarie al nostro scopo, è possibile che io non osservi il loro ordine e la loro serie.
- ↑ [e] Il fine delle scienze, a cui tutte devono essere dirette, è unico.
- ↑ [f] Quando avviene così, non comprendiamo niente della causa se non ciò che consideriamo nell’effetto: il che risulta abbastanza manifesto a partire dal fatto che in questi casi la causa non si spiega se non in termini generalissimi come questi: Perciò si dà qualcosa, Perciò si dà qualche potenza, eccetera. O anche dal fatto che lo stesso accade quando si dice la stessa cosa in negativo: Perciò non è questo o quello, eccetera. Nel secondo caso si attribuisce qualcosa alla causa per l’effetto, il quale è concepito chiaramente, come abbiamo mostrato nell’esempio; ma invero non si attribuisce niente oltre le proprietà, e niente dell’essenza della cosa particolare.
- ↑ [g] Da questo esempio si nota con chiarezza ciò che ho appena evidenziato: infatti per mezzo di quella unione non comprendiamo nulla oltre la sensazione stessa, cioè l’effetto dal quale concludevamo a una causa di cui non comprendiamo niente.
- ↑ [h] Benché questa conclusione sia certa, essa non è tuttavia abbastanza al sicuro dal dubbio se non per coloro che vi fanno la massima attenzione. Infatti chi non esercita la massima prudenza si imbatte subito nell’errore: poiché, dove le cose vengono concepite astrattamente, e non per la loro vera essenza, ci si confonde subito a causa dell’immaginazione. Infatti ciò che è unico in sé viene concepito dagli uomini come molteplice; e questi inoltre impongono nomi alle cose che immaginano astrattamente, isolatamente e confusamente, usurpando termini che normalmente servono a significare altre cose più familiari; il che fa sì che quelle cose siano immaginate allo stesso modo di quelle che erano prima soliti immaginare e alle quali inizialmente avevano dato questi nomi.
- ↑ Il primo genere di conoscenza è esemplificato dai mercanti, che si fidano ciecamente di ciò che hanno «sentito dire» dai loro maestri; il secondo da coloro che sulla base di alcuni casi semplici della cui efficienza hanno avuto una prova empirica ricavano, senza però una rigorosa dimostrazione, una regola; il terzo dai matematici che, con un ragionamento strutturato secondo premesse e conseguenze, sono in grado di dimostrare irrefutabilmente un teorema di portata generale; il quarto da chiunque, semplicemente guardando i numeri, ha l’evidenza chiara, distinta e, rispetto a ciò che può conoscersi in proposito, esaustiva dell’esito di quella proporzione particolare, cioè insomma ha un’intuizione. L’esempio è particolarmente perspicuo e potrà essere utilmente ripreso in considerazione anche quando più avanti si tornerà a fare riferimento ai quattro generi di conoscenza. Spinoza lo riprenderà anche nel Breve trattato (KV II, 1) e poi nell’Etica (E II p40s2), modificandolo qui solo quel tanto che risulterà necessario per adattarlo alla nuova visione tripartita, e non più quadripartita, dei generi di conoscenza, in cui i primi due presentati nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto sono riassunti da uno solo. N.d.T.
- ↑ [i] Qui tratterò un po' più prolissamente dell’esperienza, ed esaminerò i Metodi secondo cui procedono gli Empirici e i filosofi recenti.
- ↑ [k] Per forza nativa intendo ciò che in noi non è causato da cause esterne, il che verrà spiegato poi, nella mia Filosofia.
- ↑ [l] Qui vengono chiamate opere, ma nella mia Filosofia si spiegherà di cosa si tratta.
- ↑ [m] Nota che qui non ci preoccuperemo solo di mostrare ciò che ho appena detto, ma anche che abbiamo proceduto correttamente fino a qui e che allo stesso tempo altre cose che è importantissimo sapere.
- ↑ Riprendendo un lessico già cartesiano, Spinoza indica con l’espressione «essenza formale» la realtà della cosa stessa, e con «essenza oggettiva» la sua idea. N.d.T.
- ↑ [n] Nota che qui non indaghiamo in che modo la prima essenza oggettiva sia innata in noi. Infatti questo è di pertinenza della ricerca sulla natura, dove ciò viene spiegato più ampiamente e allo stesso tempo si mostra che oltre l’idea non si dà affermazione alcuna, né negazione, né volontà.
- ↑ [o] Che cosa significhi cercare nell’anima sarà spiegato nella mia Filosofia.
- ↑ [p] Avere relazione con altre cose significa essere prodotto da altre cose o produrre altre cose.
- ↑ [q] Così come anche qui non dubitiamo della nostra verità.
- ↑ Sono qui delineate le tre «parti» del metodo successivamente sviluppate, benché in modo incompleto. N.d.T.
- ↑ Ovunque Spinoza parli di idea «finta», si tenga presente il valore di questo termine come participio del verbo “fingere”. N.d.T.
- ↑ [r] Nota ciò che osserveremo più avanti sulle ipotesi che vengono da noi chiaramente comprese, mentre la finzione sta nel fatto che diciamo che esse esistano nei corpi celesti. [Cfr. nota y. N.d.T.]
- ↑ [s] Poiché la cosa, appena la si comprenda, risulta di per sé evidente, abbiamo bisogno solo di un esempio senza altra dimostrazione. E sarà lo stesso per la cosa contraria, che, affinché risulti manifestamente falsa, ha bisogno solo che ci si rifletta, come sarà subito evidente quando parleremo della finzione che riguarda l’essenza.
- ↑ [t] Nota: benché molti dicano di dubitare che Dio esista, essi tuttavia non considerano niente oltre il nome o fingono qualcosa che chiamano Dio: il che non si confà alla natura di Dio, come più avanti, a suo luogo, mostrerò.
- ↑ [u] Per verità eterna intendo quella tale che se è affermativa non potrà mai essere negativa. Così che Dio esiste è una verità prima ed eterna, mentre non è una verità eterna che Adamo pensa. Che la Chimera non esiste è una verità eterna, ma non che Adamo non pensa.
- ↑ Spinoza sembra riferirsi alle discussioni (spesso caratterizzate da un andamento ipotetico) tipiche della filosofia Scolastica, le quaestiones. N.d.T.
- ↑ [x] Più avanti, quando parleremo della finzione che concerne le essenze, apparirà chiaramente che la finzione non crea mai né presenta mai alla mente qualcosa di nuovo, bensì che ciò che si trova nel cervello o nell’immaginazione viene solamente richiamato alla memoria, e che la mente si dedica confusamente a tutto quanto insieme. Ad esempio se sono richiamati alla memoria la parola e un albero, quando la mente si rivolge ad essi confusamente e senza distinzione ritiene che l’albero parli. Lo stesso vale per l’esistenza, soprattutto, come dicevano, quando viene concepita tanto in generale quanto l’ente stesso in quanto tale; poiché allora viene facilmente applicata a tutte le cose che si offrono insieme alla memoria. Il che valeva certamente la pena di essere notato.
- ↑ [y] Lo stesso vale per le ipotesi che fungono da spiegazione per certi moti i quali concordano con i fenomeni celesti; se non per il fatto che esse, se venissero applicate ai moti celesti, limiterebbero la natura dei cieli, che tuttavia può essere diversa, soprattutto perché per spiegare quei moti possano essere concepite molte altre cause.
- ↑ [z] Spesso capita che l’uomo richiami alla memoria questa parola anima e che allo stesso tempo formi l’immagine di qualche corpo. Quando in effetti queste due cose vengono rappresentate insieme egli ritiene facilmente di immaginare e fingere che l’anima sia corporea: poiché non distingue il nome dalla cosa stessa. Qui chiedo che i lettori non siano precipitosi nel rifiutare questo, il che, spero, non faranno, purché facciano quanta più attenzione possibile agli esempi e anche alle cose che seguiranno.
- ↑ Cioè tale libertà. N.d.T.
- ↑ [a] Benché io sembri concludere ciò sulla base dell’esperienza, e poiché qualcuno potrebbe ritenere che quanto dico, dal momento che non è accompagnato da una dimostrazione, non vale nulla, essa, se qualcuno la desidera, sia espressa così: poiché in natura non può darsi nulla che contraddica le sue leggi, e poiché al contrario tutto accade secondo le sue leggi certe, così che esse producono i loro effetti certi secondo un’inderogabile concatenazione e appunto secondo leggi certe, da questo segue che l’anima, quando concepisce la cosa veridicamente, continua a formare oggettivamente gli stessi effetti. Si veda più avanti, dove parlo dell’idea falsa.
- ↑ [b] Nota bene che la finzione, considerata in sé, non differisce molto dal sogno, se non per il fatto che nei sogni non si offrono le cause che, per mezzo dei sensi, si offrono a chi veglia, e grazie alle quali si deduce che quelle rappresentazioni in quel momento non sono dovute a cose costituite al di fuori di esse stesse. L’errore, come sarà subito chiaro, è sognare a occhi aperti, il che, se avviene in modo del tutto manifesto, viene considerato alla stregua del delirio.
- ↑ Cioè le cose o le parti semplicissime. N.d.T.
- ↑ Cioè l’idea falsa. N.d.T.
- ↑ Cioè adeguato. N.d.T.
- ↑ [z] Questi non sono attributi di Dio che manifestano la sua essenza, come mostrerò nella Filosofia.
- ↑ [a] Questo è già stato dimostrato sopra. Se infatti tale ente non esistesse, non potrebbe mai essere prodotto, cosicché la mente potrebbe comprendere più di quanto la Natura possa produrre, il che, da quanto detto sopra, è sicuramente falso.
- ↑ [d] Se invece la durata è indeterminata, la memoria della cosa in questione è imperfetta, il che sembra sia stato insegnato a ognuno dalla natura. Spesso infatti, per credere meglio a qualcuno in ciò che ci dice gli chiediamo quando e dove questo è capitato. Benché anche le idee stesse abbiano una loro durata nella mente, tuttavia poiché siamo abituati a determinare la durata con l’aiuto di qualche misura del moto, il che avviene anche grazie all’immaginazione, finora non osserviamo nessun ricordo che si origini dalla pura mente.
- ↑ [e] La Regola principale di questa parte, come segue da quanto detto nella prima parte, è di passare in rassegna tutte le idee che troviamo in noi originate dal puro intelletto per distinguerle da quelle che immaginiamo; questa distinzione dovrà essere ricavata dalle proprietà di ciascuna, cioè dell’immaginazione e dell’intellezione.
- ↑ [f] Nota che da questo è evidente che non possiamo conoscere <legittimamente> nulla della Natura senza contemporaneamente rendere più ampia la conoscenza della causa prima, cioè di Dio.
- ↑ [g] Si veda sopra, pp. 13-14 e segg. [Pagine dell’edizione di Gebhardt corrispondenti ai §§ 27-34 e segg. N.d.T.]