Tre tribuni studiati da un alienista/III
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Un tribuno moderno.
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CAPITOLO III.
Ma a capire ad ogni modo l’opera, per quanto effimera, del primo tribuno, ci aiuta lo studio delle condizioni dei tempi, tristi in tal modo che qualunque mediocre riformatore sarebbe sempre stato considerato come una grazia del cielo, e avrebbe goduto, non foss’altro come Baroncelli, per qualche giorno, l’aura popolare.
Non potrebbe dire altrettanto chi studia il fenomeno dei nuovi sedicenti tribuni, ahi! quanto diversi, nelle opere e nello ingegno, dall’antico.
Certo l’Italia non è felice nè può andare fiera di sè; si direbbe che, stanca degli sforzi, non tutti suoi nè tutti energici, per raggiungere l’unità e la capitale, si sia assopita nell’umida e bigia atmosfera dell’indecente mediocrità che non le lascia, nemmeno, avvertire il grado di avvilimento in cui è caduta.
Passavamo, or non è molto, all’estero, tra l’ammirazione ed il sospetto, non scevro di simpatia, per un popolo di piccoli Machiavelli; e siamo giunti, in breve ora, a destare le risa e la compassione, come Pulcinelli ipocriti che larvano la impotente e vigliacca grettezza colla vernice del sentimentale umanitarismo; e per quanto messi da parte e derisi, non mostriamo nemmeno volercene accorgere, non che vendicarci1.
Non abbiamo, più, quasi un palmo di dominio sul mare che ci circonda; e mentre tutta Europa si slancia ad assicurarsi ampi sfoghi coloniali proporzionati ai bisogni, ci folleggiamo, come fanciulli, su una baia deserta che forse potrà costarci molto ma viceversa renderci nulla; e perdiamo di vista quei punti specialmente vicini alle coste nostre ed alle bocche dei grandi fiumi africani, che solo possono prometterci un avvenire.
Ai mali profondi che ci rodono gli organi più vitali, alla pellagra, all’alcoolismo, all’ignoranza, alla superstizione, alla regolamentata ingiustizia2, alla indisciplina ed ignoranza scolastica, provvediamo con dimostrazioni teatrali, con frasi rettoriche e con formole curialesche, che lasciano il tempo che trovano, quando non riescono anche a guastarlo, illudendo d’avervi provveduto.
La società della capitale, retta, come nel Giappone, da un leale capo politico, da un religioso, e da una casta di retori che sostituisce quella dei Daimios, riassume in piccolo le piaghe di tutta Italia. Un clero impotente in teoria, ma, in fatto, influente ancora sui due estremi della scala sociale, la plebe ed il patriziato, in ispecie, ridotto suo mancipio; una casta avvocatesca che ha ereditato officialmente il potere, ma non il prestigio, d’amendue, e che di poco li supera d’ingegno e d’energia; la mediocrità dominante per tutto ed inconscia della propria inettezza, che anela dietro all’effetto, senza previsione nè preoccupazione del fine.
Dovunque il monumento e le feste preferite alla istituzione, l’adorazione feticcia del campanile sostituita all’amore di patria, e la setta, e il gruppo, sostituiti all’associazione, al partito, grazie all’individualismo che sottrae, invece di sommare, le forze: infine una calma triste, come quella dei mari oceanici, interrotta a larghi intervalli da brevi burrasche, dovute ad uomini più valenti che onesti, che vendono spesso al minuto la loro effimera influenza sulla credula plebe, la loro maschera di Eolo.
Vi si affaccia un’epidemia, e cedendo ai ciechi e paurosi sussulti della piazza, vi provvedete, come nelle epoche medioevali, sbarrando il passo con le baionette ed i fucili agli invisibili microbi, aggravando i mali del morbo con quelli della miseria, che segue ai rallentati commerci, mentre con minori dispendii, provvedendo alle acque, alle carni, ai cereali guasti, non solo portereste rimedio ai pericoli affatto temporanei che svampano come meteore, ma a quelli ben più gravi che permangono perpetui, ed hanno dato, quasi, un’impronta, una cittadinanza speciale alla patologia italiana, come la pellagra, il cretinesimo, la malaria, ai quali ahi! prestasi troppo poca o niuna attenzione3.
Siete sfidati dall’eterno nemico dell’umano pensiero, dal prete, che dal suo trono di bronzo basato sul dogma, sulle opinioni e sulle abitudini delle masse e sui molti nemici di fuori, perpetuamente vi minaccia perfino nell’unità e nella libertà; e invece di controminarne la potenza là dove è la sua forza, nell’opinione e nella gerarchia, colla protezione del clero minore e sopratutto coll’arma del libro e della scienza, vi prodigate in scede carnevalesche, in proteste da circhi, che ne suggellano assai più, che non ne scemino, il prestigio; e combattete o spegnete quelle cattedre che ne sono il più sicuro antidoto.
Invece di combattere l’ignoranza che permane non solo ma invade, d’ogni parte, dall’alto e dal basso, e contro cui appena basterebbero nuove legioni di maestri la cui posizione fosse non solo comoda ma rispettata, onorevole, noi provvediamo con mezzi anodini, che salvano le apparenze, senza toccare la sostanza; e quanto all’alta coltura, quella che deve illuminare il paese, destare le nuove forze, le nuove glorie, essa minaccia ridursi, per la poca iniziativa di chi è in alto, in un ramo di quell’arida burocrazia per cui, come nel carcere, le persone non sono che numeri.
Anche qui, cedendo alle pressioni parlamentari, abbiamo moltiplicate ed allargate di tanto le cattedre universitarie (con preferenza alle cattedre archeologiche e metafisiche su quelle di scienze sociali, moderne, che mirino all’avvenire e non al passato), che ormai i professori si reclutano, come gli ultimi soldati di Napoleone, fra gli immaturi ed i deboli; ed alle falangi di studenti ignoranti si aggiunsero quelle, peggiori, degli ignoranti docenti!
La Giustizia esiste, sempre, nella lettera della legge; ed esiste senza alcun dubbio anche nelle intenzioni dei governanti, uomini fuori d’ogni sospetto; ma ahimè! cosa può la lettera scritta e la buona intenzione contro il terribile meccanesimo dell’intrigo organizzato e potente sotto l’egida del parlamentarismo?
Oh! se le era difficile tenere in bilico la sua bilancia, quando i despoti eran pochi, come potrebbe riescirvi ora che son più di 500, e resi più sicuri che non fossero i primi, perchè coperti dalla collettività, dalla vernice della libertà, dell’umanitarismo e dalle finezze leguleie, che unite alle grazie, alla giuria, agli appelli e alle replicate cassazioni rendonla spesso incerta, sempre tardissima! — E quando l’opinione pubblica, per poco fuorviata, comincia a lagnarsi, si propongono, come estremo rimedio, delle riforme che allargano le garanzie dei colpevoli più assai che quelle degli onesti!
Oh!... v’è materia e quanta per un tribuno che, vedendo attuato, sì, ma in via di guastarsi il sogno di Cola, vi voglia porre rimedio, per quanto il possa un individuo che non appartenga alla categoria delle caste dominanti nella politica attuale.
Ed il tribuno parve sorgesse, e munito delle due armi più potenti dei nostri tempi, la stampa e l’opinione pubblica. — Era il Coccapieller.
Ma, tuttochè così bene corazzato e tanto fortunato, a che cosa approdava costui?
Salvo a quella meta affatto personale, del parlamento, che centuplica i solidi ingegni ma li seppellisce se inani, a nulla ci seppe riescire di degno della aureola concessagli dalla mobile plebe.
Non uno dei grandi concetti di Cola gli passò un momento pel capo; nemmeno, anzi, una di quelle felici trovate rettoriche che assordano o trascinano più che non conquistino; nemmeno uno di quei lampi di genio che balenano, nei momenti più fortunosi, anche agli ingegni volgari. No. Egli non seppe che vellicare, colla più volgare furberia, il campanilismo dei buoni patrioti Romani, e con ciò e colle grida e gli insulti e con abili rivelazioni soffocare le mosse altrettanto incomposte di uomini, più turbolenti di lui, e così a loro sostituirsi.
Ma pure, per giungere anche a questo, dall’ultimo gradino della scala sociale occorreva una forza, un organismo ben diverso dal comune.
Dov’era, cos’era questa forza? Vale la pena di studiare l’enigma col lume della psichiatria:
È il Coccapieller un uomo di statura elevata, con fronte alquanto sfuggente e seni frontali spiccati. La testa tende assai più all’ultrabrachicefalia che non avvenga nel più dei Romani attuali, i quali pendono al dolicocefalo; e relativamente alla statura è di volume piuttosto scarso.
Gli occhi, senza essere strabici, hanno poca parallassi fra di loro; e se non fosse errabondo come di chi temesse continuamente un agguato, lo sguardo, come la fisonomia, avrebbe un’impronta di bonomia quasi giovanile e non mostrerebbe alcuno dei caratteri dell’uomo criminale e meno ancora dell’alienato.
Anche la scrittura, ricca di prolungamenti, di graffe a lettere allungate, uniformi, non ha nulla dell’alienato e nemmeno del mattoide; è propria, piuttosto, d’un uomo astuto ed abile nei commerci — d’una volpe, direbbero i toscani, che abbia pisciato su molte nevi.
Ora veniamo alla sua storia biografica, all’anamnesi, come direbbero i medici. — E qui io non posso entrare nella vita privata di un uomo, troppo lodato, e forse troppo calunniato; nè mi valse, per mettermene meglio in chiaro, di richiederne lui stesso. Per un riserbo, quindi, che è troppo naturale, io mi devo limitare a cavarne quanto egli stesso dice di sè in due suoi giornali ultimi, L’Eco dell’operaio — Ezio II, e quanto potei raccogliere da persone di fede sicura, e quanto giudiziariamente risultava nei suoi ultimi processi.
Secondo questi documenti, egli nacque da famiglia originalmente svizzera stabilita a Roma ed addetta ai servizi del Papa.
Non capii bene se madre o nonna fu aia del cardinale della Genga. Suo padre, però, fu, a quanto egli dichiara, repubblicano e amico di Ciceruacchio; sicchè ad ogni modo egli nacque e visse in mezzo a gente oscillante, a vicenda, a pochi anni di distanza dall’una all’altra bandiera. Chè questo padre, già repubblicano, e colpito da censure pontificie, fu egli che, a suo dire, obbligollo, nel 49, a servire nelle truppe papali.
Questa contraddizione si rinnova, direi atavisticamente, in tutta la vita sua. Sono repubblicano, dice egli, come mio padre — e certo è che già nel 48 fu tra i patrioti volontari; ma nel 49, come già toccammo, egli serviva come sott’ufficiale dei dragoni nell’esercito del Papa, e vi servì, vuolsi, dodici anni. Ora la leva non essendo nello Stato pontificio, la milizia non eravi obbligatoria; e si poteva, ad ogni modo, una volta ingaggiato, uscirne volontariamente con dimissione, che certo il governo pontificio sarebbesi affrettato ad accettare quando avesse avuto dubbi sulla sua fedeltà politica. Che se anche ciò egli non avesse potuto conseguire, per lo meno non avrebbe dovuto durare in un grado di fiducia; nè si capisce come, con un patriottismo quale il suo, e nell’età in cui le passioni tutte, e più le politiche, sono nel massimo dell’energia, egli non tentasse sottrarsi a quella sorte durissima, con la fuga in Piemonte; e solo si sfogasse con certe sue piattonate contro i Francesi, di cui mancano i documenti, non avendo certo avuto premura di fornircene di autentici chi le ricevette, e neanche..... chi le distribuiva.
Checchè dicasi, è, ad ogni modo, questa una notevole contraddizione: ma non è la sola. Egli è repubblicano, e poi si piace, ogni momento, nel citare le più insignificanti frasi di Re Vittorio, quando per esempio gli diceva: Sei un bravo uomo; e nei suoi giornali tira a colpi infocati contro i repubblicani assai più che contro i monarchici.
Questa contraddizione è uno dei caratteri dei mattoidi. Così il Cordigliani si accinge ad insultare alla Camera per avere un vitalizio dal Governo, e crede che ciò gli deve tornare a grande onore; così Passanante, dopo aver predicato: «Non distruggiamo più vita umana, nè proprietà», danna a morte i rei dell’Assemblea; e dopo aver ordinato di «rispettar la forma del Governo», insulta la monarchia e tenta il regicidio (Lombroso, Genio e Follia, 1882, iv ed.).
Il pastore Bluet si credeva apostolo e conte di Permission, e, come l’autore dello Scottatinge, non degnava rivolgersi che a regnanti, ma poi non isdegnava funzionare da scozzone.
Un altro dei caratteri di costoro, che non manca in lui, è quello di lasciarsi trascinare ad affermazioni erronee, giustificandole subito, rabberciandole, direi, con singolare abilità.
Così egli dichiara di essere stato aiutante di campo di Garibaldi; ma poi, quando si provava che non lo fu, dichiara che intendeva dire suo compagno inseparabile, perchè ebbe l’onore di accompagnarlo nell’agro romano; il che è certo una cosa assolutamente diversa. Così Mangione, smentito sulla falsa asserzione che Giusso gli avesse dato uno schiaffo, subito correggeva: Uno schiaffo morale.
Nel 67, certo, fu con Garibaldi e si mostrò, pare, valoroso soldato, e migliore, anco, come scudiere: cessata la campagna fece cento mestieri diversi; il domatore di cavalli, il segretario di circhi, il giornalista, il guardia-letti, peggio anche, forse, ma evidentemente costretto dalla dura necessità. E sempre tenendosi ugualmente lontano e dall’agiatezza e da quella disonestà che il codice colpisce. E chi ha provato come sappia di sale il pane dell’esilio e chi ricorda i gentiluomini francesi, nel 93, costretti a fare da camerieri e da cuochi, non può fargliene un demerito, tanto più in una epoca e in un paese a reggimento popolare.
E deve notarsi, non senza dargliene lode, il disinteresse con cui, malgrado la povertà, respinse ora profferte vantaggiose perchè rinunciasse alla sua nuova posizione politica.
Lo alienista, però, deve tenere nota della mutazione sua continua nei mestieri, che è propria degli uomini equivoci, e più dei mattoidi. Guiteau fece il giornalista, l’avvocato, il predicatore religioso, l’impresario. De Tommasi a 33 anni aveva funzionato da cameriere, falegname, caffettiere, banchiere a pegno, scrittore comico, prestigiatore, bacologo, bettoliere, cerretano, ed anche egli da giornalista. (Vedi Genio e Follia, iv ed., pag. 320). Mangione fu militare, agricoltore, costruttore di ponti, fabbricatore di mattoni, impiegato al cimitero (Vedi mio Arch. di psichiatria e scienze penali, vol. ii, Torino, 1881).
Tuttavia, nessun’arte, per vile che fosse, ebbe virtù di fargli venir meno la vanità e la passione di scribacchiare politicamente. Cavallerizzo, inventa un freno per i cavalli, che però non pare abbia una grande applicabilità pratica: sia per questo, sia per altro, ha frequenti colloquii ed accesso presso Vittorio Emanuele che certo gli prestò, sulle prime, più attenzione che non a molti scienziati e letterati, ma poi finì coll’esserne ristucco, e, pagatolo, allontanarselo.
Qualunque ne fosse la causa e l’esito, questi incoraggiamenti regii, però, non furono poco sprone a quella vanità, cui nessuna sventura aveva potuto domare.
E noi vediamo che già da molti anni egli si atteggia a politico e scrive in un ammasso di giornali, poco noti, è vero, ma degni della sua penna: Asino, per esempio, Baciccia, Precursore, Soluzione, Cittadino.
Nel 70, egli che fu tra i primi ad entrare in Roma, non fu accolto come sperava.
Si trattava della prima elezione politica in Roma: Napoleone Parboni era presidente di un seggio elettorale nel rione Monti, ed il Coccapieller avendo tentato d’impadronirsene, dopo un po’ di tafferuglio finì colla peggio.
Egli, fin d’allora libellista, lanciò gravi accuse contro il Parboni, di essere cioè un ex-soldato papalino, di aver tirato, in tal qualità, delle schioppettate contro i detenuti politici del forte di Pagliano, di aver tradito la causa dell’insurrezione nel 1867, di essere un agente di Napoleone III. — Corse una sfida; il Coccapieller rifiutò di battersi se prima il Parboni non giustificava la sua onorabilità e quando egli ciò fece ampiamente, ritirò le accuse e disparve.
Dopo, di lui non si sentì più parlare altro che all’epoca dell’esposizione di Milano, ove espose un freno di sua invenzione per ovviare al disastri di una vettura lanciata in fuga.
In Roma, nel 1882, gli strati più intimi della plebe, dall’indole troppo aperta, dalle tradizioni storiche, nuove ed antiche, dalla reazione naturale contro l’antica dominazione dispotica erano tratti agli eccessi demagogici: ve li spingeva anche il fermentare e il ripullulare di vecchie sette, e la bonaccia politica che tenne dietro alle prime ebbrezze del 1870; la mediocrità universale lasciava fecondo il terreno ad ogni fermento, specialmente dopo scomparso l’ultimo dei grandi che formarono l’Italia. E queste torbidi correnti politiche apparivano tanto più minacciose in vicinanza alla sede del Governo.
Gli antichi rioni, le antiche e numerose confraternite e corporazioni, trasformatesi d’un tratto in società operaie, avevan mutati i loro capi da cardinali e monsignori e da principi o grandi signori ch’erano prima, in faccendieri politici, in tribuni. Si andarono formando circoli sopra circoli, gli Anticlericali, quello pei Diritti dell’Uomo, il Centrale Repubblicano, ma invece di fare della vera democrazia, di procurare, cioè, il benessere del popolo con quel magazzini cooperativi, con quelle banche popolari, con quel dormitori e ricreatori che i nostri veri liberali Luzzatti, Fano, Sonzogno, Viganò, Fortunato, seppero diffondere in tanta parte d’Italia, e con quei consorzi operai cooperativi di cui i liberali di Romagna ci diedero esempi così belli — essi si limitarono a declamare, molto, contro il prete in ispecie e contro il Governo, a bisticciarsi l’un l’altro in nome di principii, che mal comprendevano, o in nome di quel suffragio universale che fu l’arma prediletta dei despoti contro le libertà popolari; così si perdettero in dimostrazioni antipapaline e irredentistiche, che ad una sola cosa potevano riescire, a risuggellare il prestigio di quegli eterni nemici dell’umano pensiero, col farne, a parole, dei martiri, ed a fatti, degli esseri più potenti che nel vero nol fossero, ed a compromettere all’estero una politica che era già per se stessa troppo fragile nelle sue basi.
Fu in questo tempo — 1882 — che, o per ispirazioni ed aiuti (come alcuni pretendono) quasi ufficiali, o per iniziativa propria che fosse, certo seguendo le sue vecchie tendenze, l’ex-gendarme papale, Coccapieller, si levi contro costoro con una straordinaria audacia, prima nell’Eco dell’Operaio, un giornale che da poco si pubblicava da alcuni operai tipografi a Roma senza molta fortuna e che raddoppiò la tiratura sotto quegli insulti sgrammaticati, ma cari al pubblico perchè personali e violenti, quindi nel Carro di Checco in collaborazione con Ricciotti Garibaldi, infine, nell’Ezio II. - Fu allora che si tentò pubblicare un giornale che gli tenesse testa, Il Fulmine, ma e’ fece fiasco.
Nulla resisteva alle strampalate botte del nascente tribuno: persino i circoli anticlericali si sfasciarono — lasciando dietro sè una diecina di bandiere ed un vuoto bollettario. E, intanto, i terribili vice-tribuni delle società operaie, dei rioni furono sfatati, ma non senza ire, proteste e tentativi di vendetta.
Tognetti, fra gli altri — un demagogo fanatico, beccaio, che fin da bambino s’era mostrato violento e manesco, e 12 volte fu condannato per ribellione, ferimento, diffamazione, ecc. — insieme ad alcuni suoi colleghi e capi di sette, attentò alla vita stessa del Coccapieller, che dovette solo al suo mirabile sangue freddo e all’essere armato, non che al pronto accorrere delle guardie di P.S., il suo scampo.
Malgrado il corso pericolo e chiare e numerose testimonianze, il Coccapieller dovette scontare con tre mesi di carcere preventivo... il torto di non essersi lasciato uccidere.
Ora questo che parve un nuovo ed ingiusto martirio, e non era che l’effetto delle solite incertezze poliziesche e giudiziarie, ed il pericolo corso per una causa apparentemente pubblica ed il coraggio di cui diede continua prova, nei suoi attacchi ed in quei frangenti, gli guadagnarono i suffragi popolari e quindi la sua elezione a deputato.
Ma ciò che sarebbe parso a chiunque il segno massimo del suo successo, fu il principio della sua caduta.
Egli, audace, onesto, ma incolto, si trovò nel Parlamento come Mefistofele nel regno d’Elena, peggio anzi, perchè lì era lui che si trovava a disagio, mentre gli altri lo accoglievano con rispetto e tolleranza; mentre qui egli, sulle prime, non s’accorgeva o non pareva accorgersi della generale disistima e dell’insuccesso che lo aspettava anche quando aveva dalla sua la ragione, come allora che, con uno scambietto parlamentare, si fece sottostare una sua interpellanza ad un’altra che era sôrta dopo.
E qui mi si permetta soggiungere che per quanto sia triste ed uggioso il sentire la voce di volgari mattoidi in quelle nobili aule dove aleggia ancora lo spirito di Cavour e di Garibaldi e dove, or non è molto, parlarono Sella, Fabrizi, Spaventa, pure è in disarmonia alla tempra di un vero regime democratico, rappresentativo, come vorrebbe essere il nostro, il non permettere a costoro di esprimersi nel solo linguaggio che essi posseggono.
Oh! per Dio, non estendetelo il suffragio così come avete voluto farlo, Dio sa con quali risultati per la libertà del paese! ma, una volta che l’avete esteso, subitene, sino all’ultimo, le conseguenze, lasciando libera affatto la parola a quegli eletti che corrispondono, nei modi come nelle idee, agli elettori da voi decretati e voluti.
Mettiamo, per esempio, che in uno slancio d’umanitarismo, il quale non sarebbe poi troppo alieno dalle abitudini retoricamente leguleie dei nostri legislatori, mettiamo, dico, che a quella dozzina di Danakili che fan mostra di essere sudditi nostri sulle spiagge di Assab, si dia il voto e la eleggibilità, non perciò potreste pretendere che, nominati, essi vi parlino il linguaggio della Crusca e adottino le riserve, i sottintesi e le sordine che acquista la parola, passando nei profumati e femminei salotti politici della capitale!
Fatto è che il nostro povero tribuno finì, poi, col sentirsi un pesce fuor d’acqua alla Camera, e, temendo che l’insuccesso parlamentare finisse per estendersi anche a quello della piazza, approfittò cavallerescamente di un momento in cui il ritirarsi lo esponeva al rischio di subire una condanna per una delle solite sue offese personali, e si dimise da deputato.
Certo egli sperò, anche, che il popolo l’avrebbe ricondotto all’ambitissimo seggio, che egli s’era in poco tempo sciupato e, ve l’avrebbe rimesso in carreggiata; ma la memoria del popolo è labile sempre; ed egli, il povero tribuno, non avendo da offrirgli un secondo attentato nè un secondo martirio, non fu rieletto, cadde vescica svesciata.
Peggio anzi; fu abbandonato da coloro che ne avevano cavato il loro prò, nè avrebbero potuto più oltre sfruttarlo — anche perchè la sua mattìa era proceduta assai più in là della linea da loro assegnatagli, e, novello Ruy Blas, avea presa troppo sul serio la pretesa missione, sicchè s’era mutato da manico in coltello, anzi in accoltellatore. E dovette pagare ben salato, troppo salato, il fio delle accuse, vere in parte, in parte no, che aveva accatastate fino allora nel suo giornale: e fu condannato per sette analoghi capi d’accusa — chè, non gli si volle, con troppa sottigliezza giuridica, cumulare, ma scindere la colpa e la pena.
Benchè alcuni di quei reati non fossero invero politici, ma comuni e dipendenti dalla sua follia, e dall’orgoglio, resoglisi gigante ormai dopo i primi trionfi, come gli insulti al Pretore Carcano, e ad un usciere che dovea eseguirgli un sequestro, pure la punizione che giuridicamente era correttissima, agli occhi di molta parte del pubblico parve resultato di pressioni politiche, che certo non vi furono, ma il cui sospetto era giustificato dai dubbi che corrono sull’amministrazione della giustizia.
Perciò quella condanna gli diede quell’aureola di martire che bastava per far dimenticare il sonaglio pazzesco: e quando questa nuova aureola, questo nuovo prestigio coincise col rifiuto veramente cavalleresco di chiedere la grazia, e colla giustificazione quasi completa, grazie al processo d’Ancona, di una almeno delle sue accuse, quella contro il Lopez, egli fu rieletto; e migliaia di firme chiesero la grazia per lui — grazia che se fosse stata accordata in tempo avrebbe risparmiato di far di un matto un martire, e di un martire un deputato. — Oh! a cosa giova il medioevale diritto di grazia se non riesce a risparmiarci simili controsensi?
Il suo trionfo fu perciò completo: ma probabilmente sarà seguito, — se egli continua a dare in nuove escandescenze così antigiuridiche, (come or ora gli accadde alla stazione di Roma e alla posta di Spoleto), da altre accuse, e, se gli uomini di Stato vorranno essere più rigidi giuristi che politici, da nuove condanne, e da un secondo martirio che daranno luogo a nuovi trionfi, salvochè il manicomio non ponga esso fine a queste gazzarre così poco degne di un popolo libero e serio.
Poichè è certo che il Coccapieller ebbe dei veri accessi megalomani. — In carcere per es., credeva dover egli comandare, gli altri obbedire; minacciava i guardiani; e dichiarava che, nominato deputato, avrebbe fatto cacciar via i ministri e 402 deputati — e peggio anche se non rigavan dritti: disturbava le più alte autorità dello Stato per nonnulla, anche per veri delirii; mandava un giorno, per es., a chiamare il Procuratore del Re, per dirgli: Io non sono Re se non perchè non lo voglio essere: si regoli in conseguenza (sic).
Egli si rifiutò di salutare Sbarbaro, perchè non degno di lui: quando si piega a spedire una sdegnosa e strampalata supplica, in quattro fitte pagine, per essere graziato, la firmò ad uso proprio di Cola di Rienzi: Coccapieller, tribuno di Roma, e difensore di Casa Savoja. — Oh! qui spero non si vorrà dire che così facendo obbedisse ad un uso che corra oggidì; e qui tutti i lettori del Fanfulla, del Fracassa e del Pasquino ricorderanno aver vedute certe firme o biglietti di visita con titoli strambalati e che non finivano mai — del F............. capitano d’un battello a vapore, autore di ecc., e bidello — dello Scottatinge, capitano, commissario, accademico; e ricorderanno che Guiteau pure aveva una facciata intera di titoli nel suo biglietto di visita.
E che quello non fosse un delirio momentaneo, generato dalla dimora dei carcere, nel quale però godeva di tutti gli agi possibili, appare dai discorsi tenuti anche mesi dopo liberatone, discorsi in cui si atteggia a gran Cancelliere di Stato e modestamente rinnova la dichiarazione che non vuole essere Re, nè Papa, nè Capo di Repubblica; — ma che ha un piano liberatore (i mattoidi han sempre un qualche piano) che sarebbe una vecchia rifrittura delle leggi agrarie Romane, che gli deve esser venuta in mente nel leggere i fasti dei Tribuni, e che fu provato, se fosse applicata adesso, darebbe un nuovo suggello al dominio di quell’oligarchia avvocatesca che, in fondo, ci regge, e ch’egli non voleva rivelare per tema gli venisse carpito e fatto suo dai Ministro!
Non era ancora confermato deputato che già, come prima oltraggiò uscieri e pretori, così ora maltrattava (egli che pur si dice democratico), ufficiali di posta e ferroviarii, sicchè dà luogo a lamenti e forse a nuove azioni penali, perchè nol rispettano abbastanza.
Ma la prova delle sue follie, assai più che negli atti e nelle parole — in complesso abbastanza temperate e misurate, ed astute tanto che gli conquisero migliaja di ammiratori, — è negli scritti.
Nell’Eco dell’Operaio, nell’Ezio II scrisse articoli sempre più numerosi e sbrigliati.
Lasciandone, per ora, il contenuto, importante era... la quantità; nemmeno quel Briareo dei giornalisti che era il Bianchi-Giovini potrebbe reggere alla soma di quegli articoloni di cui inondava l’Ezio II.
Ora è questo dell’abbondanza esagerata, della quantità sostituita alla qualità, il carattere speciale del mattoide grafomane.
Ricordiamo di Mangione, che si privava del cibo per poter stampare, e parecchie volte vi spese più di cento scudi al mese. Nel 1870, fra le accuse che fa al sindaco Giusso è quella di un migliaio di lire «di danni prodottigli in un mese per vergare quattrocento fogli di carta in reclamo alla Giunta onde meglio illuminarla»; e ciò benchè avesse quattro copisti gratuiti che gli fornivano persino la carta4.
Nello scritto di costoro, oltre ciò, sì nota che lo scopo è o futile, o assurdo, o in perfetta opposizione col loro grado sociale e coltura; così un prete deputato tira giù ricette pel tifo; due medici fanno della geometria ipotetica e dell’astronomia; un chirurgo, un veterinario ed un ostetrico, dell’aeronautica; un cuoco fa dell’alta politica; un carrettiere, della teologia; un portinaio della drammatica; una guardia di finanza, della sociologia; e così egli, cavallerizzo, fa della politica5.
È notevole (io già l’osservai nel mio Genio e Follia) che quasi tutti i mattoidi, Bosisio, Cianchettini, Passanante, Mangione, De Tommasi, ecc., han convinzioni tenacissime, profonde, ma non fervide, sicchè non dan luogo al delirio di azione se non per eccezione, e quando vi si associa l’estrema penuria; e sono di tanto più prolissi e assurdi nello scrivere, di quanto sono sensati e succosi nel parlare: e, salvo a sfogarsi più tardi in chilogrammi di carta, comportansi, nel rispondere a voce, con tal buon senso, da far passare, fra i meno accorti, per savie le loro fantasticherie.
E ve ne sono di tale abilità, da riescire veri truffatori, senza perciò venir meno alle tendenze pazzesche, anzi essendo più mattoidi degli altri: tal’è quel De Tommasi di cui enumerammo poco sopra le molte professioni mal praticate, e che a queste aggiungeva il ricatto e le truffe con abilissima arte condotte e ripetute più volte6. Guiteau era un mattoide, ma nello stesso tempo uno scroccone e truffatore abilissimo (Vedi Genio e Follia, pag. 350).
Insomma costoro, pazzi certamente nei loro scritti e, molte volte, più di quelli dei manicomii, lo sono poco negli atti della vita, dove mostransi pieni di buon senso, di furberia ed anche di ordine; onde accade loro il rovescio che nei veri poeti.
Quattro sono professori, uno anzi d’Università; tre Deputati, uno Senatore, nè è meno strampalato; uno è Consigliere di Stato, uno di Prefettura, uno della Corte di Cassazione, tre Consiglieri provinciali, cinque preti, e quasi tutti vecchi e rispettati nella loro carriera (Genio e Follia, pag. 156).
E così Coccapieller: mentre è megalomaniaco negli scritti, negli atti della vita, nei contatti sociali mostra tale finezza, presenza di spirito, e duttilità, da conquistarsi l’animo dei potenti e delle plebi, il che non è dato certamente che ai furbi.
Nè è a negarsi che egli non abbia coi suoi giornali portato qualche vantaggio; chè, molte volte, seppe colpire nel vero e smascherare persone le quali coprivano colla bandiera ultra liberale un animo vile e rapace, Lopez, per esempio.
Ma, anche in quest’impresa, che fu certo utile e coraggiosa, e in cui non è difficile abbia avuto aiuto da quei partiti da cui pareva più alieno, egli si condusse con una violenza e con una fraseologia veramente pazzesca.
Così, senza analizzare la grammatica, che è sempre un poco in difetto in costui, gli troviamo frequentemente (per es., n. 123, 129 e 157 di Ezio) molte parole scritte in corsivo od in caratteri diversi; per esempio:
«Ed ora due parole a quel vigliacco che si chiama e si firma nel giornale intitolato Stabbia — e che invece lo si dovrebbe chiamare
stabbio,
cioè letamajo».
È una specialità dei mattoidi. Mangione, per es., nel proclama a S. M. il Re ha sette caratteri tipografici in 27 righe7.
Che se non usa di mescolare allo stampato (vedi pag. 12) i simboli, i geroglifici, la tendenza a codesti segni trapela dallo stile. Per esempio, nel numero 18 dell’Operaio, egli dichiara che ha quattro poderosi cavalli al suo carro, la Luce, la Verità, la Vendetta e la Giustizia... E il Carro di Checco e i cavalli, ecc., ritornano frequentissimi, nei suoi capolavori, tanto più che qui il mattoide si fonde all’auriga in riposo.
Quanto alla violenza, non enumererò gli insulti ad A. Mario, al Sirtori, al Sonnino, al Zanardelli, che l’Italia tutta riconosce per intemerati: al Vassallo, ch’egli pretende aver perduto i diritti civili e politici (!!); mi basterà questa frase diretta contro al venerando Fabrizi, innanzi alla cui onorata canizie avrebbe dovuto sentirsi almen più modesto l’ex-dragone papale: «Voi siete venuto a cacciarvi fra le ruote del mio carro che stritolerà tutti voi, l’Auriga passerà trionfante schiacciandovi senza misericordia».
Lo stile mattesco, che gode delle ripetizioni, delle rime, spicca nelle frasi: «Ho lottato, lotto, lotterò fino alla fine, dovessi finire questa lotta col sacrificio». — E nell’altra: «Eccovi, provatevi la repubblica spogliatrice che vuole lemme lemme — affari — e sempre affari — milioni — milioni — e milioni».
E nei Framagnoni per Framassoni; e la Passera (un congiurato) passera; e nel Pericoli è in pericolo,
«Sì, noi assistemmo agli insulti di una stampa mercenaria che ha il coraggio di scrivere insulti sopra insulti, menzogne sopra menzogne, infamie sopra infamie, senza pur un’ombra di verità». — E in «Lombroso pazzo curatore di pazzi, ecc.».
Spicca ancora in alcune frasi di suo conio, stereotipate, ripetute le centinaia di volte, come per esempio Giraffa, troglodite e i guenoni, applicate ai suoi nemici, che non hanno in fondo nessun significato nemmeno odioso; e nell’intitolazioni strane de’ suoi articoli; come le cannonate di Coccapieller e quei birri di Napoleone III che egli applica ad individui che non avevano avuto il più lontano rapporto con Napoleone, individui che lavorarono a pro o contro del paese quando Napoleone era non solo caduto dal trono, ma perfino sepolto e dimenticato.
Tutti questi caratteri si vedono negli scritti dei mattoidi. Se uno in un caffè guarda in cagnesco Mangione, o se un altro nel fornirgli de’ mattoni ne dimentica una dozzina, egli pone ciò in concatenazione colle persecuzioni di Varapodio.
E quasi tutti, nel titolo, tradiscono subito l’indole pazzesca. Basti La pulce ed il leone di Mangione, e quest’esempio del mattoide Dèmons; «La démonstration de la quatrième partie de rien est quelque chose, tout est la quintessence tirée du quart du rien et des dépendances, contenant les prèceptes de la sainte magie et dévote invocation de Démons, pour trouver l’origine des maux de la France». È il titolo d’una delle sue opere!
Ma ad un dato momento il delirio megalomaniaco, sotto l’aculeo della miseria, della vanità incitata, vellicata, scoppia in essi di un tratto, come divampa l’eccitazione maniaca nei monomaniaci più calmi quando irritati. E così vediamo il Cordigliani, il Mangione, il Passanante, che dalle assurde ma calme astrazioni passarono a terribili vie di fatto, e Coccapieller finisce col minacciare uscieri e pretori, o coll’uscire nelle più strane espressioni del delirio ambizioso.
Questi passi, che ristampo dall’Ezio II, n. 123, ecc., ce lo dimostrano anche colla prova scritta:
«Il vostro Tribuno, il vostro Rappresentante non dorme, e ciò vi basti - ma ricordatevi - che chi ha intrapresa la lotta, sono io, e non deve avere altri Duci; il Duce che ha attaccato la battaglia saprà condurla fino alla fine - e quando prometto ricordatevi che so mantenere la mia parola...
Socrate fu condannato alla cicuta; il figlio di Dio alla croce, Torquato al carcere...
Vi sono due specie di tribuni, i falsi che sono degli spostati, dei birbanti, come Alcibiade, Cesare e Napoleone. I veri non sono ambiziosi, amano il popolo da cui escono e con cui vivono; non hanno facondia: il loro gesto è l’immagine della loro anima, hanno subitanee inspirazioni che confinano cui genio, come Demostene, Ciceruacchio e Coccapieller». (Dall’Ezio II, n. 116).
Più in su di paragonarsi a un Dio non sarebbe possibile andare, ed è la prova più chiara della forma megalomana; in ciò, ma solo in questo, il Coccapieller assomiglia al grande Cola di Rienzi.
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«Cristo insegnò la morale, predicò inconcusse verità, proclamò la libertà nell’ordine, l’eguaglianza nel rispetto alle leggi ed alle autorità.
Lo seguirono tutti gli uomini di buona volontà, tutti gli onesti e di animo retto; lo perseguitarono i malvagi e tutti coloro che della verità eran nemici.
Se Egli non nacque come Coccapieller in un regale palagio, fu però ossequiato e adorato nel suo umile giaciglio dai Re di Tarso, di Cipro e di Gerusalemme.
E poi non fu messo in dubbio il luogo di nascita del Coccapieller fino a ieri? Non gli fu contrastata la cittadinanza romana, come i Farisei negato avevano l’origine di Cristo?
... Cristo discacciò i mercatanti e i ladri dal tempio sacro; Coccapieller ha purgato Roma dalla maffia e dai farabutti, che congiuravano contro il sovrano ed il popolo.
Cristo insegnava la carità, e i farisei gridavano che era un bestemmiatore; Coccapieller insegna ad amare la patria, a rispettare la monarchia, e viene accusato di libellista; dice la verità, e lo chiamano mentitore; si difende, e lo chiamano impostore.
Cristo fu accusato, e si dichiarò innocente. Il popolo gridò: tolle, tolle, crucifige!
Coccapieller fu accusato, processato, imprigionato e infamato in mille guise.
... Cristo fu tradito con un bacio; Coccapieller col silenzio: il traditore di Cristo fu Giuda, il suo più caro apostolo; il traditore di Coccapieller fu Pianciani, il suo collega.
... Finalmente Cristo inalberò sul Golgota il vessillo della redenzione del genere umano; Coccapieller ha inalberato nell’aula del Parlamento Italiano la bandiera dell’onestà, della moralità, della giustizia». (Dall’Ezio II, 30 gennaio 1883, n. 27).
«Sì, sappiatelo, anche Roma aveva dato il suo uomo, e se vi è qualche celebrità spiccata che si è innalzata nell’epopea del nostro nazionale risorgimento - credetelo, vi è anco un romano, e questi è chi scrive, Coccapieller - la di cui vita intiera potrà comparire al pubblico setacciata.
Eh! miei cari, so bene perchè la sera del dieci agosto mi voleste far regalare delle pillole di piombo, ma la mano di Dio che ha guidato la stella d’Italia, allontanò dal mio petto il piombo Tognetti, armato dai vili, sicari, ladri, i traditori della patria, ma la Dio mercè Francesco Coccapieller, il fiero Romano, vive ancora, per dire nella faccia a tutti la loro vita passata di obbrobrio e d’infamie.
Sì, ve lo scrissi un giorno. Se durante il periodo che percorrono le nazioni, non sorgesse di tanto in tanto qualche uomo provvidenziale, e dove mai finirebbero le nazioni dove si accumula la più sfrenata e ributtevole società, che per far denari venderebbero (sic) i padri, le madri, le spose, le sorelle, i figli?
«Sì, Dio ha voluto che lo spettro nero, che la setta di destra e di alcuni della sinistra» ecc.
— «Ma se verrò attaccato io, ricordatevi. che il mio esercito è pronto per demolire non importa chi ed a qualunque partito appartenga. — lo non faccio, ne farò la guerra ai partiti, ma la farò micidiale a tutti coloro che in nome del partito hanno abusato di questo — e della Nazione.
Sì, Signori, ad Umberto I non resta che una strada, o scegliere fra colui che impavido ha attaccata lotta per sgominare ed estirpare dall’Italia, i ladri, e i traditori — o seguitare sulla via dove l’han condotto i Ministri di Destra e di Sinistra.
Sì, è da questa terra che dominò il mondo, che è sorta una voce chiara, sonora, e che non dice che la pura verità — ed a questa voce nè il monarca può fare da sordo, nè il popolo l’abbandonerà nella lotta suprema che io ho intrapresa.
Sì, Italiani, è tempo che il monarca nel leggere l’Ezio che gl’invio giornalmente apra gli occhi, e veda colla lente della verità l’abisso in cui i ministri attuali trascinano la nazione e la monarchia e vi dirò di più.
Si chiamassero anche re o imperatori gli individui che volessero speculare sulla mia intemerata coscienza, ho lottato, lotto, e lotterò fitto alla fine dovesse finire questa lotta col sagrifizio della mia vita.
Sì, Italiani, ricordatevi, e questo ce lo insegna la storia, che vi sono degli uomini prodigiosi che appariscono di quando in quando sulla scena del mondo col carattere della grandezza e della dominazione.
Una forza ignota e superiore gl’invia all’opportuno tempo per fondare le nazioni, o ripararne la loro ruina.
Indarno questi uomini creati per le grandi imprese si tengono nascosti; la mano della fortuna, spinta da una forza sovrumana, li porta rapidamente di ostacolo in ostacolo, di trionfo in trionfo, all’apice della potenza. (Si capisce da tutti che allude a se stesso).
Una specie d’ispirazione soprannaturale anima ogni loro pensiero; un movimento irresistibile è impresso a tutte le loro imprese, la moltitudine popolare li cerca tuttavia nel suo seno e più non ve li trova, innalza essa allora gli occhi, e mira in una sfera splendida e luminosa di gloria coloro che agli occhi degli ignoranti, e dei disonesti avversari, non sembravano che temerari».
Da questo punto di vista il suo discorso del 3 febbraio 1886 rassomiglia, salvo una tinta archeologica-socialistica e un eccellente ed onesto fervorino a quello che aveva recitato, dalla stessa casi e dalla stessa finestra, il 15 novembre 1882.
«Mio popolo di Roma! - Vi ringrazio della dimostrazione di affetto che fate al vostro Checco, al vostro deputato, al vostro tribuno. Io veglio sopra Roma, sopra questa Roma seminata di cadaveri schiacciati dal mio Carro. Io vi prego di darvi appiglio; di rispettare la legge come la rispetta il vostro deputato. I nemici miei, che son quelli di Roma, sono molti; ma io vi prometto che alla Camera smaschererò tutti i farabutti, tutti i... perchè io anderò alla Camera, dove difenderò il Re, il quale, coll’opera mia, assicurerà la felicità all’Italia a dispetto dei birri di Napoleone III. Il vostro Checco non si compra, perchè lui non si vende. Vi saluto: gridiamo: Viva Roma, viva il Re!».
Fece poi seguire un manifesto in cui diceva che «la congrega di tutti coloro che impunemente, da anni ed anni, gozzovigliano alla mangiatoia dello Stato, alle spalle dei contribuenti dell’italico Regno, vede appressarsi l’ora fatale della sua caduta, segnata a caratteri indelebili, marcata a caratteri di fuoco dallo spettro nero, spavento terribile degli uomini di Destra ed oggi di quelli di Sinistra più prevaricatori dei primi».
«Sì, italiani, mi chiamino pur temerario, ma la Dio mercè compirò la sacra missione che mi sono proposta sotto l’egida dell’illustre Casa di Savoia e del popolo, e se il monarca Vittorio Emanuele II mi ripetè più volte:
Tu sei un brav’uomo.
Tu sei un brav’uomo...» ecc.
Quest’ultimi tratti che trovano un esatto riscontro in alcune dichiarazioni di Lazzaretti e di Guiteau, ci riescono preziosi, perchè rivelano una delle cause che rende i mattoidi così influenti sopra le plebi e così superiori ad uomini d’intelligenza e finezza molto maggiore; — cioè la convinzione della loro superiorità così completa, così sincera, che nessuna simulazione potrebbe eguagliare e che finisce coll’imporsi o innestarsi in chi non abbia un criterio più elevato delle cose umane. Essa è un effetto degli eccitamenti psichici che seguono alle iperemie cerebrali e li fanno, per un momento, per un troppo breve momento, essere simili ai veri geni sotto l’estro creatore. Anche Lazzaretti scrisse: «Uno spirito agisce in me non proveniente dall’uomo con ispirazioni istantanee». E nel suo manifesto ai popoli diceva: «Quando voi apprenderete che un uomo povero ed oscuro si annunzia come il Cristo, dichiarando che è sortito dalla razza dei re dei re, voi sarete nella stupefazione, e direte che ciò ripugna all’orgoglio dell’uomo; eppure è così, e di quell’avvenimento fu già profetato, e in tutti i libri si parla di questo modello di virtù che deve mandare al mondo, e che non è altri che lui» (Archivio di psichiatria e scienze penali, vol. I, p. 34).
E altrove: «Iddio ha donato alla Chiesa ed alle nazioni un principe, un monarca che tu ancor non conosci, nè altri il conosce perchè è oscuro al mondo. Esso scenderà dai monti tenendo in mano il vessillo della redenzione dei popoli, ecc.». «Dio suscitò dalla polvere un grand’uomo che difenderà i vostri diritti. Quale armata potrà resistergli?» (Id.).
Guiteau scriveva: «Io fui sempre un operaio di Dio. Dio ha ispirato i miei atti come nel sagrifizio di Abramo; coloro che attentano a me saranno puniti di morte». - Più tardi aggiunse: «Il Giurì deve decidere se io fui o non fui ispirato». Richiesto che cosa fosse l’inspirazione, risponde: «Quando la mente è posseduta dalla divinità suprema e agisce fuori di sè. Da prima mi faceva orrore l’idea dell’omicidio, ma poi conobbi che era vera ispirazione. Io non posso essere pazzo. Dio non sceglie i suoi operai fra i pazzi, e Dio prese cura di me, ed è perciò che io non fui fucilato nè impiccato. Dio finirà col punire i giurati suoi nemici». (Genio e Follia, p. 335).
E quel passo riesce prezioso, anche, perchè ci offre in mezzo a frasi sconclusionate e sgrammaticate, che del resto sono in lui la regola generale, dei brani degni di un colto scrittore.
Gli è che in quel momento l’estro maniaco ha ravvivato di un fulgido lampo lo stonato e monotono pennello del mattoide.
In mezzo ai molti spropositi di Passanante trovo la bella frase: «Dove il dotto si perde l’ignorante trionfa!», e quell’altra: «La storia imparata dai popoli è più istruttiva di quella che si studia nei libri». Il Bluet distingue «la pulcella dalla vergine perciò, che la prima ha cattivo volere senza potere, ecc.». — È naturale che in questi concetti essi rinnovino i pensamenti dei politici o pensatori più forti, ma sempre a lor guisa ed esagerati; quindi nel Bosisio tu trovi esagerate le delicatezze dei nostri zoofili, e prevenute le idee della Royer e del Comte sulla necessità dell’applicazione malthusiana. E il De Tommasi, un sensale, truffatore, trovò ugualmente, salvo quanto v’aggiunse di erotismo morboso, un’applicazione pratica della selezione darwiniana. E Cianchettini vuol mettere in pratica il socialismo: e Coccapieller subodora e sente viva quella necessità che è nel cuore di ogni italiano onesto, dell’ordine, e dell’ordine sotto l’auspicio della monarchia.
Ma l’impronta della pazzia non è tanto nell’esagerazione delle loro idee, quanto appunto nella sproporzione in cui sono con sè medesimi; cosicchè a pochi passi da qualche raro concetto ben espresso ed anche sublime, si corre subito a uno più che mediocre ed ignobile, (come nelle ultime righe del citato frammento), paradossale, quasi sempre in contraddizione coi ricevuti dai più e colle condizioni loro e colla loro coltura; quello insomma, per cui Don Chisciotte invece di strapparti l’ammirazione ti fa sorridere: eppure le sue azioni, in un’altr’epoca, ed anzi in un altro uomo, sarebbero state ammirabili ed eroiche; e ad ogni modo in costoro i tratti di genio sono piuttosto l’eccezione che la regola. Nei più vi è piuttosto mancanza che esuberanza dell’estro: riempiono interi volumi, senza costrutto, senza sugo, come appunto fa coi suoi articoli il nuovo tribuno.
Note
- ↑ Dopochè furono stampate queste righe la sobria e dignitosa parola di Robilant rialzava di molto il depresso senso morale degli Italiani.
- ↑ Tutto ciò non tocca alcuno dei nostri uomini di Stato. Che colpa ne hanno essi se, sotto il dominio alterno di retori e di mercanti, la giustizia ha finito col considerarsi null’altro più quasi che un cespite d’entrata per gli avvocati e per lo Stato, anzi, più per quelli che per questo; diventando la giustizia inaccessibile ai poveri e pei ricchi impastoiata da tali remore da parere effetto di un accidente, o di una grazia, anche quando imbercia nel vero?
- ↑ È da poco solo che per l’acque in rapporto al tifo e al colera, si è tentato provvedere con una circolare Morana; e al mais guasto con modesti aiuti per forni essiccatoi e con circolari bellissime e progetti di legge Grimaldi ancora più belli, ma che parmi non s’abbia il coraggio di portare innanzi a corpi legislativi, in cui i proprietari sono in maggioranza e i coloni non sono solo in minoranza, ma mancano affatto; sicchè ricorderanno, sullo stesso terreno, le grida degli Spagnuoli.
- ↑ Vedi sopra, a pag. 7.
- ↑ Vedi Archivio di psichiatria, vol. I, 1880.
- ↑ Archivio di psichiatria e scienze penali, vol. II, p, 169: Pazzia nei truffatori. Fra gli altri notai un mattoide che si credeva e spacciava profeta ed era falso monetario.
- ↑ Or ora vedo che Richet, ignorando che io l’avessi accennato 12 anni fa, dà come sua questa osservazione Revue Philosophique, 1886.
- Testi in cui è citato Francesco Coccapieller
- Testi in cui è citato Giuseppe Garibaldi
- Testi in cui è citato Accademia della Crusca
- Pagine con link a Wikipedia
- Testi in cui è citato Bernard Bluet d'Arbères
- Testi in cui è citato Clémence Royer
- Testi in cui è citato Auguste Comte
- Testi in cui è citato Thomas Robert Malthus
- Testi in cui è citato Tito Livio Cianchettini
- Testi SAL 100%