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Versi - Paralipomeni della Batracomiomachia/II. Paralipomeni della Batracomiomachia/Canto II

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Canto II

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II. Paralipomeni della Batracomiomachia - Canto I II. Paralipomeni della Batracomiomachia - Canto III
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CANTO SECONDO

1
     Piú che mezze oramai l’ore notturne
eran passate, e il corso all’oceáno
inchinavan pudiche e taciturne
le stelle, ardendo in sul deserto piano.
Deserto al topo inver, ma le diurne
cure sopían da presso e da lontano
per boschi, per cespugli ed arboscelli
molte fère terrestri e molti uccelli.
2
     E biancheggiar tra il verde all’aria bruna,
or ne’ campi remoti, or sulla via,
or sovra colli qua e lá, piú d’una
casa d’agricoltor si discopria;
e di cani un latrar da ciascheduna
per li silenzi ad or ad or s’udia,
e rovistar negli orti, e nelle stalle
sonar legami e scalpitar cavalle.
3
     Trottava il conte, al periglioso andare
affrettando co’ suoi le quattro piante;
a piedi intendo dir, ché cavalcare
privilegio è dell’uomo, il qual, di tante
bestie che il suol produce e l’aria e il mare,
sol per propria natura è cavalcante,
come, per conseguenza ragionevole,
solo ancor per natura è carrozzevole.

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4
     Era maggio, che amor con vita infonde,
e il cúculo cantar s’udia lontano,
misterioso augel, che per profonde
selve sospira in suon presso che umano,
e, qual notturno spirto, erra e confonde
il pastor che inseguirlo anela invano,
né dura il cantar suo, che in primavera
nasce e il trova l’ardor venuto a sera.
5
     Come ad Ulisse ed al crudel Tidide,
quando ai nòvi troiani alloggiamenti
ivan per l’ombre della notte infide,
rischi cercando e insoliti accidenti,
parve l’augel che si dimena e stride,
segno, gracchiando, di felici eventi
arrecar da Minerva, al cui soccorso
l’uno e l’altro, invocando, era ricorso;
6
     non altrimenti il topo, il qual solea
voci e segni osservar con molta cura,
non so giá da qual nume o da qual dea,
topo o topessa o di simil natura,
sperò certo, e mestier gliene facea
per sollevare il cor dalla paura,
che il cuculo, che i topi han per divino,
nunzio venisse di non reo destino.
7
     Ma giá dietro boschetti e collicelli
antica e stanca in ciel salia la luna,
e sugli erbosi dorsi e i ramuscelli
spargea luce manchevole e digiuna,
né manifeste l’ombre a questi e quelli
dava, né ben distinte ad una ad una;
le stelle nondimen tutte copria,
e desiata al peregrin venía.

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8
     Pur, come ai topi il lume è poco accetto,
di lei non molto rallegrossi il conte,
il qual, trottando a piè, siccome ho detto,
ripetea per la valle e per lo monte
l’orme che dianzi, di fuggir costretto,
impresse avea con zampe assai piú pronte,
e molti il luogo or danni ora spaventi
di quella fuga gli rendea presenti.
9
     Ma pietá sopra tutto e disconforto
moveagli, a ciascun passo, in sul cammino,
o poco indi lontan, vedere o morto
o moribondo qualche topolino,
alcun da piaghe ed alcun altro scorto
dalla stanchezza al suo mortal destino,
a cui con lo splendor languido e scemo
parca la luna far l’onore estremo.
10
     Cosí, muto, volgendo entro la testa
profondi filosofici pensieri,
e chiamando e sperando alla funesta
discordia delle stirpi e degl’imperi
medicina efficace intera e presta
dai giornalisti d’ambo gli emisferi,
tanto andò, che la notte a poco a poco
cedendo, al tempo mattutin die’ loco.
11
     Tutti dèsti cantando erano i galli
per le campagne, e gli augelletti ancora
ricominciando insiem gli usati balli
su per li prati al mormorar dell’òra,
e porporina i sempiterni calli
apparecchiava al dí la fresca aurora,
né potea molto star che all’orizzonte
levasse il re degli anni alta la fronte;

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12
     quando da un poggio il topo rimirando,
non molto avanti in giú nella pianura,
vide quel che sebbene iva cercando,
voluto avria che fosse ancor futura
la vista sua, ch’or tutto l’altro in bando
parve porre dal cor che la paura,
non sol per sé, ma parte e maggiormente
perché pria del creduto era presente.
13
     Vide il campo de’ granchi il qual, fugate
ch’ebbe de’ topi le vincenti schiere,
ver’ Topaia lá dove indirizzate
s’eran le fuggitive al suo parere,
deliberossi, andando a gran giornate,
dietro quelle condurre armi e bandiere;
e seguitando lor, men d’una notte
distava ond’esse il corso avea condotte.
14
     Tremava il conte, e giá voltato il dosso
aveano i servi alla terribil vista;
e muro non avria, non vallo o fosso
tenuto quella gente ignava e trista;
ma il conte, sempre all’onor proprio mosso,
come fortezza per pudor s’acquista,
fatto core egli pria, sopra si spinse
gridando ai servi, ed a tornar gli strinse.
15
     E visto verdeggiar poco lontano
un uliveto, entrâr subito in quello;
e del verde perpetuo, con mano
o con la bocca còlto un ramicello,
e sceso ciaschedun con esso al piano,
sentendo un gelo andar per ogni vello,
e digrignando per paura i denti,
vennero agl’inimici alloggiamenti.

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16
     Non se n’erano appena i granchi accorti,
quando fûr loro addosso, e con gli ulivi
stessi, senza guardar dritti né torti
voleangli ad ogni patto ingoiar vivi,
o gli avrian per lo men subito morti,
se in difesa de’ miseri e cattivi
non giungeva il parlar, che con eterna
possanza il mondo a suo piacer governa.
17
     Perché, quantunque barbaro e selvaggio
de’ granchi il favellar, non fu celato
al conte, ch’oltre al far piú d’un viaggio,
sendo per diplomatico educato,
com’or si dice, aveva ogni linguaggio
per istudio e per pratica imparato,
e i dialetti ancor di tutti quanti,
tal ch’era nelle lingue un Mezzofanti.
18
     Dunque con parolette e con ragioni
a molcer cominciò que’ ferrei petti,
che da compagni mai né da padroni
appresi non avean sí dolci detti,
né sapean ch’altra gente i propri suoni
parlar potesse de’ lor patrii tetti,
e si pensâro andar sotto l’arnese
di topo un granchiolin del lor paese.
19
     Per questo, e per veder che radicati
Leccafondi sul naso avea gli occhiali,
arme che in guerra mai non fûro usati
né gli uomini portar né gli animali,
propria insegna ed onor di letterati
essendo da principio, onde ai mortali
piú d’iride o d’oliva o d’altro segno
di pace e sicurtá son certo pegno,

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20
     dal sangue per allor di quegli estrani
di doversi astener determinâro;
e legati, cosí come di cani
o di qualche animal feroce o raro
non fecer mai pastori o cerretani,
a sghembo, all’uso lor, gli strascinâro
al general di quei marmorei lanzi,
gente nemica al camminare innanzi.
21
     Brancaforte quel granchio era nomato,
scortese a un tempo e di servile aspetto;
dal qual veduto il conte e dimandato
chi fosse, onde venuto, a qual effetto,
rispose che venuto era legato
del proprio campo; e ben legato e stretto
era piú che mestier non gli facea;
ma scherzi non sostien l’alta epopea.
22
     E seguitò che s’altri il disciogliesse,
mostrerebbe il mandato e le patenti.
Per questo il general non gli concesse
ch’a strigarlo imprendessero i sergenti,
e perché legger mai non gli successe,
eran gli scritti a lui non pertinenti;
ma chiese da chi date ed in qual nome
assunte avesse l’oratorie some.
23
     E quel, dicendo che de’ topi il regno,
per esser nella guerra il re defunto,
e non restar di lui successor degno,
deliberato avria sopra tal punto
popolarmente, e che di fede il segno
Rubatocchi al mandato aveva aggiunto,
il qual per duce, e lui per messaggero
scelto aveva a suffragi il campo intero;

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24
     gelò sotto la crosta a tal favella,
popol, suffragi, elezioni udendo,
il casto lanzo, al par di verginella
a cui con labbro abbominoso orrendo
le orecchie tenerissime flagella,
fango intorno e corrotte aure spargendo,
oste impudico o carrozzier. Si tinge
ella ed imbianca, e in sé tutta si stringe.
25
     E disse al conte: — Per guardar ch’io faccia,
legittimo potere io qui non trovo.
Da molti eletto, acciò che il resto io taccia
ricever per legato io non approvo. —
Poscia, com’un che dal veder discaccia
scandalo o mostro obbrobrioso e novo,
tôr si fe’ quindi i topi, ed in catene
chiuder sotterra e custodir ben bene.
26
     Fatto questo, mandò significando
al proprio re per la piú corta via
l’impensata occorrenza, e supplicando
che comandasse quel che gli aggradia.
Era quel re, per quanto investigando
ritrovo, un della terza dinastia
detta de’ Senzacapi, e in su quel trono
sedea di nome tal decimonono.
27
     Rispose adunque il re che, nello stato
della sedia vacante, era l’eletto
del campo ad accettar come legato;
tosto quel regno, o volontario o stretto
creasse altro signor; nessun trattato
egli giammai, se non con tal precetto,
conchiudesse con lor; d’ogni altro punto
facesse quel che gli era prima ingiunto.

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28
     Questo comando al general pervenne
lá ’ve lui ritrovato aveva il conte,
perché quivi aspettando egli sostenne
quel che ordinasse del poter la fonte,
al cui voler, com’ei l’avviso ottenne,
l’opere seguitâr concordi e pronte;
trasse i cattivi di sotterra e sciolse,
e sciolto, il conte in sua presenza accolse.
29
     Il qual, ricerco, espose al generale
di sua venuta le ragioni e il fine,
chiedendo qual destin, qual forza o quale
violazion di stato o di confine,
qual danno della roba o personale,
qual patto o lega, o qual errore alfine
avesse ai topi sprovveduti e stanchi
tratto in sul capo il tempestar de’ granchi.
30
     Sputò, mirossi intorno e si compose
il general dell’incrostata gente;
e con montana gravitá rispose
in questa forma, ovver poco altramente:
— Signor topo, di tutte quelle cose
che tu dimandi, non sappiam niente,
ma i granchi dando alle ranocchie aiuto,
per servar l’equilibrio han combattuto.
31
     — Che vuol dir questo? — ripigliava il conte —
l’acque forse del lago o del pantano,
o del fosso o del fiume o della fonte
perder lo stato od inondare il piano,
o venir manco, o ritornare al monte,
o patir altro piú dannoso e strano
sospettavate, in caso che la schiatta
delle rane da noi fosse disfatta?

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32
     — Non equilibrio d’acqua, ma di terra —
rispose il granchio — è di pugnar cagione;
e il dritto della pace e della guerra,
che spiegherò per via d’un paragone.
11mondo inter con quanti egli rinserra
déi pensar che somigli a un bilancione,
non con un guscio o due, ma con un branco,
rispondenti fra lor, piú grandi o manco.
33
     Ciaschedun guscio un animal raccetta,
che vuol dir della terra un potentato.
In questo un topo, in quello una civetta,
in quell’altro un ranocchio è collocato;
qui dentro un granchio, e quivi una cutretta,
l’uno animal con l’altro equilibrato,
in guisa tal che con diversi pesi
fanno equilibrio insiem tutti i paesi.
34
     Or quando un animal divien piú grosso
d’altrui roba o di sua che non soleva,
e un altro a caso, o pur da lui percosso
dimagra sí che in alto si solleva,
convien subito al primo essere addosso,
dico a colui che la sua parte aggreva,
e tagliandogli i piè, la coda o l’ali,
far le bilance ritornare uguali.
35
     Queste membra tagliate a quei son pórte
che dimagrando scemo era di peso,
o le si mangia un animal piú forte,
ch’a un altro ancor non sia buon contrappeso,
o che, mangiate, ne divien di sorte
che può star su due gusci a un tempo stesso,
e l’equilibrio mantenervi salvo
quinci col deretan, quindi con l’alvo.

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36
     — Date sian queste cose e non concesse —
rispose al granchio il conte Leccafondi; —
ma qual nume ordinò che presedesse
all’equilibrio general de’ mondi
la nazion de’ granchi, e che attendesse
a guardar se piú larghi o se piú tondi
fosser che non dovean topi e ranocchi
per trar loro o le polpe o il naso o gli occhi?
37
     — Noi — disse il general — siam birri appunto
d’Europa e boia, e professiam quest’arte. —
Nota, saggio lettor, ch’io non so punto
se d’Europa dicesse o d’altra parte,
perché, confesso il ver, mai non son giunto,
per molto rivoltar le antiche carte,
a discoprir la regione e il clima
dove i casi seguîr ch’io pongo in rima:
38
     ma detto ho dell’Europa, seguitando
del parlar nostro la comune usanza.
Ora, al parlar del granchio ritornando:
— In nostra guardia — aggiunse — è la costanza
degli animai nell’esser primo, e quando
di novitá s’accorge o discrepanza
dove che sia, lá corre il granchio armato
e ritorna le cose al primo stato.
39
     — Chi tal carco vi die’? — richiese il conte.
— La crosta — disse, — di che siam vestiti,
e l’esser senza né cervel né fronte,
sicuri, invariabili, impietriti
quanto il corallo ed il cristal di monte,
per durezza famosi in tutti i liti:
questo ci fa colonne e fondamenti
della stabilitá dell’altre genti.

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40
     — Or lasciam le ragioni e le parole,
— soggiunse l’altro — e discendiamo ai fatti.
Dai topi il re de’ granchi oggi che vuole?
vuole ancor guerra e strage a tutti i patti?
o consente egli pur, com’altri suole,
che qui d’accordo e d’amistá si tratti?
e quale, in caso tal, condizione
d’accordo e d’amistá ci si propone? —
41
     Sputò di nuovo e posesi in assetto
il general de’ granchi e cosí disse:
— Dalla tua razza immantinente eletto
sia novello signor. Guerre né risse
aver con le ranocchie a lui disdetto
per sempre sia. Le sorti a color fisse
saran dal nostro, a cui ricever piacque
nella tutela sua lor terre ed acque.
42
     Un presidio in Topaia alloggerete
di trentamila granchi, ed in lor cura
il castello con l’altro riporrete,
s’altro v’ha di munito entro le mura.
Da mangiare e da ber giusta la sete,
con quanto è di bisogno a lor natura;
e doppia paga avran per ciascun giorno
da voi, finché tra voi faran soggiorno. —
43
     Dicendo il conte allor che non aveva
poter da’ suoi d’acconsentire a tanto,
e che tregua fermar si richiedeva
per poter quelli ragguagliare intanto,
rispose il general che concedeva
tempo quindici dí, né dal suo canto
moveria l’oste; e quel passato invano,
ver’ Topaia verrebbe armata mano.

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44
     Cosí di Leccafondi e del guerriero
Brancaforte il colloquio si disciolse:
e, senza indugio alcuno, il messaggero
de’ topi a ritornar l’animo volse,
all’uso della tregua ogni pensiero
avendo inteso: e tosto i suoi raccolse.
Nel partir poche rane ebbe vedute
per negozi nel campo allor venute.
45
     Le riconobbe, ché nel lor paese
contezza ebbe di lor quando oratore
lá ritrovossi, ed or da quelle intese
l’amorevole studio e il gran favore
che prestava ai ranocchi a loro spese
il re de’ granchi, il qual sotto colore
di protegger da’ topi amico stato,
ogni cosa in sua forza avea recato.
46
     E che d’oro giammai sazio non era,
né si dava al re lor veruno ascolto.
Pietá ne prese il conte, e con sincera
loquela i patrii dèi ringraziò molto,
che dell’altrui protezion men fèra
calamitá sui topi avean rivolto.
Poi dalle rane accomiatato, il calle
libero prese, e il campo ebbe alle spalle.